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EDITORIALE

Vent'anni di riforme

di Piero Corradini

Riforme e nuovi obiettivi economici

Sono passati venti anni da quando, nel dicembre del 1978, le decisioni prese durante la terza sessione dell'XI Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese segnarono una svolta decisiva nello sviluppo politico ed economico della Cina.

Con quelle decisioni la lotta di classe cessò di essere il punto centrale della politica cinese, la Rivoluzione culturale fu definitivamente archiviata e si dette inizio alla revisione di centinaia e centinaia di dossier di "elementi di destra" che a partire dal 1957 erano stati estromessi dal potere ed emarginati dalla società. Si pose mano anche a quella riforma economica della quale adesso si possono valutare i risultati, una riforma che mirava alla progressiva integrazione dell'economia cinese con altre economie mondiali, in special modo con quelle dei paesi industrializzati.

Alla base delle riforme fu il cambiamento delle priorità economiche contemplate nei piani di sviluppo. L'industria pesante, che fino allora aveva sempre rappresentato il settore trainante, cedette il posto all'agricoltura e all'industria leggera. Invece di guidare l'economia, l'industria pesante avrebbe ricevuto solo i fondi necessari per essere modernizzata e diventare adeguata alle esigenze degli altri settori. Deng Xiaoping e i suoi collaboratori intendevano puntare sulle campagne perché la Cina era ancora un Paese fortemente agricolo, in cui i contadini rappresentavano quasi la totalità della popolazione.

La produzione agricola cinese non era più sufficiente a soddisfare le necessità della popolazione e del mercato e il problema principale dell'economia agricola cinese consisteva sostanzialmente nel fatto che le tradizionali tecniche di coltivazione erano rimaste immutate per secoli. Si trattava di tecniche di coltivazione arcaiche, che non consentivano l'ottimizzazione delle risorse. Inoltre, accanto al grave problema tecnico si affiancava quello della forte pressione demografica.

Il sistema in vigore prima delle riforme, quello delle "Comuni popolari", si sovrapponeva allo sviluppo naturale della tradizionale organizzazione rurale. Al centro del sistema c'era la brigata di produzione, che corrispondeva al villaggio tradizionale; al di sotto agivano le squadre di produzione, che raccoglievano sino a quaranta nuclei familiari; al vertice si trovava la comune popolare.

Il sistema maoista puntava essenzialmente sul potenziamento della forza lavoro, trascurando però quello degli altri fattori della produzione, capitale e tecnologia. Il sistema delle comuni aveva sicuramente avuto dei pregi, ma i suoi limiti si concretizzavano nel fatto che il livello di vita dei contadini era rimasto inalterato. In sostanza si lavorava di più, ma si guadagnava sempre lo stesso. Inoltre se da un lato la produzione di "beni di base" era garantita, essa non era sufficiente per spingere il decollo industriale e la necessità di beni importati era sempre maggiore.

Le "Comuni popolari" furono smantellate tra il 1981 e il 1983. Al loro posto venne introdotto il sistema di responsabilità a livello familiare che rappresentò una svolta decisiva per la produzione agricola. La famiglia contadina tornò ad essere la base dell'economia cinese.

Il "miracolo" cinese

Durante gli anni ottanta si verificò un vero miracolo economico. In meno di dieci anni le riforme produssero non solo un aumento straordinario della produzione agricola e dei redditi dei contadini, ma anche un'impennata nei consumi e nel livello di vita delle città.

La riforma dell'agricoltura costituì il punto di partenza per un più ampio progetto di ristrutturazione economica che, per fasi successive, investì anche il settore industriale.

I riformatori intendevano modellare un sistema in cui l'industria fosse liberata dall'ingerenza dell'amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato, molti studenti cinesi furono mandati all'estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L'attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Anche la legislazione riguardante le licenze e i marchi di fabbrica fu regolamentata.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le "Zone ad economia speciale", nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall'intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L'apertura verso l'estero e l'introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La geniale intuizione della dottrina di "un Paese, due sistemi", consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di "zone economiche speciali"; un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì "economia socialista di mercato", una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Le esigenze di liberalizzazione

Mentre le riforme economiche consentivano alla Cina di uscire dalla rigidità e dalla stasi della vecchia economia socialista evitandole al contempo i disastri cui andarono incontro altri Paesi usciti dal cosiddetto "socialismo reale", si cominciarono a manifestare alcuni aspetti sfavorevoli. La liberalizzazione del mercato provocò una forte pressione inflazionistica. I nuovi arricchiti acquisirono troppo frettolosamente la mentalità capitalistica e spesso si avventurarono in speculazioni e manovre disoneste che spesso peggiorarono, anziché migliorare, le condizioni di vita della povera gente. Ma sostanzialmente la Cina si avviò al benessere, anche se accanto ad esso comparvero gli aspetti meno graditi del capitalismo, come la corruzione, soprattutto nelle grandi città delle quali la nuova, fremente attività economica stava cambiando il volto.

L'esigenza di giungere a una "quinta modernizzazione", cioè alla riforma del sistema politico e alla realizzazione della democrazia, cominciò a farsi sempre più strada, mano a mano che procedevano le riforme del sistema economico. Il 20 dicembre 1986 più di 60.000 persone, in massima parte studenti, si riunirono in piazza Tian'anmen a Pechino reclamando rumorosamente la democratizzazione del regime e l'autonomia delle università. Nella piazza furono esposti dazibao di protesta contro l'inflazione e la corruzione. Alla manifestazione non partecipavano soltanto studenti, ma anche intellettuali ed operai scontenti per il disagio dilagante e per l'arbitrarietà del sistema politico, anche se le proteste non erano rivolte contro il regime di per sé stesso, ma rappresentavano il desiderio di una vera riforma politica che legittimasse i diritti di libertà e di democrazia.

La reazione della dirigenza cinese fu dura e non concesse nulla ai manifestanti. Le speranze di democratizzazione del sistema politico-sociale vennero completamente disattese. Seguì immediata la rovina di coloro che avevano visto di buon occhio le manifestazioni e forse avevano contribuito ad organizzarle. Hu Yaobang, segretario generale del Partito, che si era rifiutato di condannare le manifestazioni studentesche, venne costretto alle dimissioni e sostituito da Zhao Ziyang, che alcuni anni dopo avrebbe fatto la stessa fine.

Le critiche degli intellettuali, però, non cessarono. L'allontanamento di Hu dal potere fece sì che gli intellettuali e gli studenti perdessero fiducia nella linea delle riforme "dall'alto" introdotte da Deng, il che creava condizioni per un loro comportamento futuro ancora più radicale.

La nuova gestione di Zhao sembrò favorire un certo pluralismo politico, naturalmente limitato. Le riforme economiche stavano generando nuove forze nella società cinese. Se il Partito voleva continuare a perseguire la riforma economica, doveva adottare delle strategie tese a rispondere alle richieste di queste nuove forze. I nuovi strati economici, quali i professionisti, i commercianti, gli imprenditori, nonché i tecnici e gli scienziati erano indispensabili per l'attuazione di politiche più orientate verso il mercato. Ma lo sviluppo di istituzioni in grado di accogliere gli interessi di queste nuove classi era un compito molto difficile da attuare.

Soprattutto nelle università prendeva piede il radicalismo. Gli studenti che, al contrario degli intellettuali, non erano stati integrati nel sistema di protezione del regime, erano sempre più disillusi dall'atteggiamento del governo. Dopo le manifestazioni del 1986, gli studenti non avevano cessato di protestare ed avevano organizzato altre manifestazioni per far sentire la loro voce. Le manifestazioni del 1988 non ebbero però molto seguito tra la popolazione perché erano espressione di rivendicazioni che appartenevano solo al mondo universitario e che non trovavano rispondenza nel sociale. Gli studenti avevano, però, l'appoggio degli intellettuali che favorivano in tutti i modi il dibattito politico e la diffusione di idee non ortodosse.

Le attività indipendenti degli intellettuali avevano cominciato ad intensificarsi agli inizi del 1989 e culminarono nelle grandiose manifestazioni dell'aprile-maggio dello stesso anno, che furono represse nel sangue, con l'intervento dell'esercito. Il sogno della "quinta modernizzazione" svaniva e, si poteva prevedere, per lungo tempo. Restava la riforma economica. La stabilità, in nome della quale Deng Xiaoping aveva autorizzato la repressione, doveva dare i suoi frutti, ed effettivamente li ha dati.

Stabilità e progresso

Il boom dell'economia cinese si è verificato tra il 1991 e il 1996. Nonostante le crisi che hanno afflitto i mercati finanziari e l'economia degli altri Paesi asiatici, l'economia cinese ha mostrato una solidità inaspettata, tale da far presumere che il terzo millennio verrà affrontato baldanzosamente dalla Cina e che i risultati saranno ancora migliori.

La politica di apertura al mondo esterno lanciata dal defunto leader Deng Xiaoping e portata avanti dal governo cinese durante il corso dei 20 anni passati ha portato beneficio alla popolazione e migliorato la forza economica e la statura internazionale del Paese.

Grazie alla presenza di società straniere che hanno portato con sé capitali, tecnologia e modelli di gestione, l'economia cinese è potuta crescere a un ritmo medio annuale del 9,8 per cento dal 1979, quando cominciò questa politica.

Alla fine del giugno 1998 gli investimenti stranieri erano arrivati a 242,3 miliardi di dollari, facendo della Cina il secondo maggior destinatario di investimenti internazionali nel mondo dopo gli Stati Uniti.

Sempre alla fine del giugno 1998, la Cina aveva riserve di valuta straniera per 140,5 miliardi dollari, occupando così il secondo posto nel mondo, dopo il Giappone.

Si calcola che oltre 17 milioni di persone abbiano trovato lavori generalmente ben pagati presso imprese straniere operanti in Cina. Un numero crescente di persone possiede conti bancari in dollari. l prodotti che attualmente sono in vendita, dal pane agli spazzolini da denti, dalle scarpe agli ascensori, ai televisori, alle automobili sono di gran lunga di qualità migliore a quella degli anni passati.

Nel frattempo, un numero sempre maggiore di benestanti cinesi ha cominciato a trascorrere le vacanze all'estero, soprattutto nei Paesi del sud-est asiatico e a Hong Kong, un lusso che nessun cinese osava sognare dieci anni fa. E probabile che destinazioni future siano gli Stati Uniti e i Paesi europei. Sembra che l'Ambasciata d'Italia a Pechino abbia rilasciato, nel 1997, circa mille visti turistici, a cinesi che intendono visitare il nostro Paese.
La Cina come il Giappone, quindi? È probabile, ma con una punta di maggiore saggezza, ad evitare crisi di fiducia e per mantenere uno sviluppo costante.

Le prospettive del futuro

Naturalmente, a fronte di questi successi, c'è il rovescio della medaglia. La corruzione rampante insidia tutto il tessuto economico cinese, le banche hanno ecceduto nella concessione del credito e si trovano a dover gestire sofferenze per le quali sarà necessario qualche drastico provvedimento, gli squilibri tra nuovi ricchi e fasce povere si vanno accentuando.

Gravi sono soprattutto i problemi della gestione politica. Mentre il Partito Comunista Cinese mostra di volere conservare tutto il potere, magari sacrificando l'ideologia all'economia, le esigenze di riforma politica tornano a farsi sentire. Gli interventi polizieschi, come quelli verificatisi a Hangzhou subito dopo la partenza del Presidente americano Clinton, con l'arresto dei dirigenti del Partito Democratico Cinese, di recente costituzione, oppure le condanne a dissidenti recentemente inflitte a Pechino, mostrano da un lato l'inflessibilità del regime che non ammette altra via da percorrere che la sua, ma al tempo stesso possono essere sintomi di debolezza.

Così la Cina si avvia a concludere il millennio con grandi successi ma anche con gravi interrogativi.

MONDO CINESE N. 99, SETTEMBRE 1998


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