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INDICE>MONDO CINESE>DUEMILA ANNI DI STORIA DELLE RELAZIONI ITALO-CINESI

SAGGI

Informatori, avventurieri, spioni, agenti più o meno autentici
in duemila anni di storia delle relazioni italo-cinesi

di Giuliano Bertuccioli

La lunga, bimillenaria storia dei rapporti tra il nostro paese e la Cina è per fortuna caratterizzata da un intenso, pacifico interscambio culturale, artistico, religioso ad opera prevalentemente dei nostri viaggiatori, mercanti, missionari, nonché dalla mancanza di seri contrasti, tali da creare le premesse per conflitti armati tra i nostri due paesi.1

Proprio per questi motivi si resta quindi sorpresi quando, ripercorrendo il lungo cammino di tanti secoli di storia, si incontrano soprattutto nel nostro secolo alcuni nomi di connazionali attivi in Cina, ai quali può adattarsi una delle qualifiche riportate nel titolo di questo saggio: qualifiche che presuppongono l'esercizio di attività non certo amichevoli nei confronti di uno dei due paesi. Nei dizionari della nostra lingua infatti alla voce "Spionaggio" si legge che esso è attività svolta in modo clandestino da persone a favore di un determinato stato o gruppo di stati per acquisire informazioni segrete o riservate di carattere politico, economico, militare di un altro stato o gruppo di stati. Fra il nostro Paese e la Cina non sono mai state combattute delle vere guerre, i rapporti tra i nostri due Paesi sono stati sempre improntati a reciproca stima e amicizia: come mai quindi per quanto ci riguarda ci sono stati in epoca a noi vicina alcuni connazionali i quali, a torto o ragione, sono stati "bollati" con la qualifica di spioni o che di essa si sono volutamente fregiati, forse credendo di acquisire importanza facendosi passare per degli 007 nostrani? Lascio al lettore di giudicare dopo che avrò esposto alcuni di questi casi esemplari.

A questi casi però premetto un breve excursus sul più remoto passato, avvertendo che nella esposizione dei fatti e nella identificazione di alcuni (e presunti) connazionali mi sono basato esclusivamente sulle fonti storiche e letterarie reinterpretate però un po' liberamente.

***

Cominciò Orazio, noto per essere un acceso "nazionalista", a parlare di trame e complotti dei Cinesi (li chiama Seres). In una delle sue Odi2 scrisse che Mecenate si preoccupava di quello che i Seres e altri popoli stavano preparando contro Roma. È evidente che per Orazio i Seres, gli abitanti della Battriana e del Tanai, erano talmente lontani da Roma e di essi si sapeva così poco, che si poteva attribuire loro qualsiasi proposito senza tema di smentite. Orazio lavora quindi di fantasia: la sua è una invenzione poetica, ché altrimenti ci sarebbe da chiedersi come faceva Mecenate a sapere che i Seres stavano tramando.

Aveva forse ricevuto un rapporto sugli umori delle collettività degli stranieri a Roma preparatogli dai frumentari, che erano gli agenti del servizio segreto imperiale3. O forse aveva ricevuto un rapporto dal lontano Oriente? È un po' difficile, dato che il primo romano (o meglio: il primo suddito dell'impero romano) arrivato in Cina, di cui, grazie alle fonti cinesi4, conosciamo il nome, è un certo Qin Lun (Lun sta per Leone, Qin per Da Qin, che era il nome dato dai Cinesi all'impero romano), forse un mercante fenicio, arrivato nel 242 d.C. a Jaozhi, località dell'Annam. Il governatore del luogo, Wu Miao, lo aveva fatto accompagnare fino a Nanchino, dove l'imperatore Sun Quan (182-252; regnò dal 229) gli fece redigere una dettagliata relazione sull'impero romano, che purtroppo non ci è pervenuta. Non sapremo quindi mai se Leone il Romano la redasse in modo generico, per soddisfare la semplice e legittima curiosità dell'imperatore, o se invece fornì notizie a carattere più riservato, magari sul commercio della seta, che arricchiva i Cinesi e soprattutto i Parti, mentre dissanguava i Romani. In tal caso Leone sarebbe stato un "informatore", che avrebbe fornito intelligence ai Cinesi su un argomento che stava molto a cuore ai Romani.

È ben noto infatti che le importazioni di seta dalla Cina rappresentavano un insostenibile salasso per le finanze dell'impero romano. Plinio il Vecchio faceva il calcolo dell'enorme quantità di sesterzi (circa 100 milioni) spesi ogni anno per l'acquisto di quelle merci voluttuarie5 ad esclusivo vantaggio dei produttori cinesi e dei Parti, i quali grazie alla loro rendita di posizione, si arricchivano esigendo dazi esosi. Tutto ciò sarebbe terminato il giorno in cui i Romani avessero scoperto il modo per trasportare dalla Cina e allevare in Occidente i bachi. Ci riuscì finalmente Giustiniano (482-565; regnò dal 527) che, convinto da due monaci che avevano vissuto qualche tempo in Cina, li rimandò in quel paese con l'incarico di portargli i bachi. Così essi fecero infatti, avendo scoperto la "formola segreta": trasportare non i bachi, che sarebbero tutti morti durante il lungo viaggio, ma i loro bozzoli, che fecero dischiudere una volta arrivati in Europa. Così ebbe fine il monopolio cinese, e da allora la seta venne prodotta anche da noi grazie a questa brillante operazione che, con espressione moderna, potremmo definire di "spionaggio industriale" e "furto di tecnologia". Così la descrisse Procopio di Cesarea (m. 562)6 che, pur scrivendo che essa era stata compiuta da due monaci forse persiani e da un imperatore di origini illiriche, sembra coinvolgere il nostro Paese dato che parla di "Romani". E' quanto mi basta per citare questo episodio in questo articolo.

Nel Medio Evo l'affermarsi della potenza mongola e il timore diffuso in Europa di una loro invasione spinse molti missionari francescani a visitare la corte del gran Khan, sia perché mossi da zelo religioso, nella speranza di riuscire a convertire lui e la sua gente, sia anche perché incaricati da papi e sovrani di missioni diplomatiche e di riferire quindi su quel terribile popolo, che aveva conquistato tutta l'Asia e da un momento all'altro sembrava prossimo a riversarsi sull'Occidente cristiano. Nulla di misterioso o segreto sembra esserci stato nei viaggi di Giovanni di Rubruck, Giovanni dal Pian del Carpine, Andrea da Perugia, Giovanni da Montecorvino. Un po' misterioso invece appare il viaggio di Odorico da Pordenone, anche lui francescano, il quale partì per la Cina nel 1320 da solo, con i propri mezzi, senza effettuare la mercatura: un'impresa che ha del miracoloso, dato ch'egli riuscì a portarla a termine. Forse si appoggiò di volta in volta a mercanti cristiani, offrendo la sua opera come padre spirituale; forse lavorò a bordo come marinaio, dato che scelse la rotta del Sud, arrivando in Cina per via mare. Non è quindi da escludere che una missione l'avesse anche lui, ma segreta: di visitare le missioni francescane in Cina e riferire al riguardo ai propri superiori. Tutte le ipotesi possono essere avanzate a conferma di una impresa eccezionale, che solo un uomo fornito di doti eccezionali poteva portare a termine. Odorico rimase a Pechino per tre anni, dal 1325 al 1328; quindi riprese la via del ritorno, passando questa volta per la terraferma. Nel 1330 si trovava a Padova a dettare la sua relazione7, in cui parla pochissimo del suo lavoro missionario, come se non se ne fosse occupato affatto. Nel 1331 moriva.

Se il viaggio del Beato Odorico appare un po' misterioso, ancor più misterioso è il caso di un italiano, un medico-chirurgo lombardo (di cui non conosciamo il nome) arrivato chissà come e chissà perché nel 1303 a Pechino. Era la bestia nera del vescovo francescano della città, Giovanni da Montecorvino, il quale in una sua lettera datata 8 gennaio 1305 da Pechino8 scrive che il suddetto non faceva che dir male della Curia romana, dell'Ordine Francescano e della situazione in cui si trovava l'Occidente. Nella lettera il vescovo raccomanda ai confratelli, cui essa sarebbe pervenuta, di portare a conoscenza del Papa, dei Cardinali, del Procuratore dell'Ordine il riprovevole comportamento del lombardo. Ma chi poteva essere questo connazionale? Perché sparlava di tutti: della Chiesa, ma anche del mondo da cui veniva, cioè l'Europa? Era forse un venduto ai mongoli, una loro spia, un loro agente provocatore? O era forse un seguace dell'imperatore, un ghibellino un po' nostalgico, un po' fuori tempo? Forse era semplicemente un mangiapreti, un po' becero e miscredente. Comunque per arrivare a scrivere quella lettera il vescovo doveva essere ben preoccupato dei danni che con le sue maldicenze il lombardo avrebbe potuto causare alla sua missione.

Così come era successo al Beato Odorico, anche del nostro viaggiatore Francesco Gemelli Careri (1651-1724)9, che visitò la Cina nel 1695 in occasione di un suo viaggio intorno al mondo effettuato a sue spese e per solo diletto, venne insinuato da molti che in realtà egli si era recato in Cina perché incaricato di una missione segreta. Non era infatti un religioso, mosso da zelo missionario; non era un mercante, spinto da brama di guadagno; e allora perché aveva affrontato un viaggio così lungo, così faticoso e rischioso, e soprattutto così dispendioso? Certamente aveva avuto qualche incarico segreto connesso con la Questione dei Riti: studiare in loco per poi riferire a Roma la situazione determinatasi in Cina a seguito delle rivalità fra i vari ordini religiosi. Ci volle un po' di tempo prima che la gente si convincesse che si trattava in realtà di un originale, di un giramondo un po' esibizionista, un po' avventuriero, che si era proposto di compiere un'impresa, che era stata tentata prima di lui da un altro connazionale, Francesco Carletti (1573-1636): il giro del mondo con i propri mezzi. Carletti però era stato mosso soprattutto dalla voglia di far quattrini ed era stato abbastanza onesto da farlo chiaramente capire, mentre invece Gemelli Careri, che pur al guadagno certamente pensava, si diceva spinto dalla voglia di evadere dalla stagnante e ostile società napoletana, nonché dal desiderio di avventura, da cui non andava disgiunto quello di procacciarsi un po' di fama. Quanto al modo di far fronte alle spese che un simile viaggio comportava, Gemelli Careri restava nel vago e, ove non si voglia credere che avesse dato fondo alle sue sostanze, si può pensare che anche lui come Carletti, praticasse il commercio, mentre all'occasione egli sapeva ben approfittare dell'ospitalità offertagli dai missionari.

Durante i secoli XVII e XVIII alcuni missionari, soprattutto Gesuiti, che tornarono in Europa dalla Cina, incaricati di qualche missione, si fecero accompagnare da un giovane cinese. Il giovane accompagnatore svolgeva una serie di compiti, da quelli effettivi: segretario; domestico tuttofare; vocabolario vivente per l'eventualità che il gesuita suo superiore si fosse trovato a dar prova delle sue conoscenze di cinese; testimonianza vivente dell'opera di evangelizzazione svolta da questi in Cina ecc, a quelli fittizi. Sovente infatti il giovane accompagnatore, quasi sempre di modesta estrazione sociale e di non eccezionale cultura, veniva fatto passare dal gesuita come mandarino o figlio di mandarino o addirittura nobile e principe imperiale! Tutto ad majorem Dei gloriam: per confermare all'ignaro pubblico europeo le grandi capacità di evangelizzazione dei gesuiti, in grado di convertire appartenenti alle più alte classi sociali; per procurare al giovane accompagnatore uno status, che gli avrebbe aperto tutte le porte, financo quelle delle corti (ciò che non sarebbe stato mai possibile se fosse stato presentato come semplice domestico). Tutto ciò naturalmente sollevava le proteste e le critiche degli avversari dei gesuiti, come i missionari di altri ordini religiosi, domenicani e francescani, i quali, essendo bene al corrente del vero stato sociale dei giovani accompagnatori cinesi, non mancavano di denunciare questi "inganni" e queste "imposture".

Comunque non mi risulta che siano state mosse ai giovani accompagnatori cinesi delle specifiche accuse di essere venuti in Europa come spie inviate dal governo cinese col compito di riferire sul mondo occidentale. Uno solo di essi, Fan Shouyi (1682-1753), che accompagnò in Europa il gesuita A. Francesco Provana negli anni 1708-1720, scrisse al suo ritorno in patria una relazione10 su ciò che aveva visto in Europa in quegli anni dietro esplicita richiesta delle autorità del suo paese. L'interesse di quelle autorità era dovuto al fatto che il viaggio del Provana era stato voluto dall'Imperatore Kangxi, che gli aveva affidato il compito di illustrare a Roma la posizione del governo cinese e degli stessi gesuiti sulla controversa "Questione dei Riti". A Roma però Provana aveva trovato solo ostilità e incomprensione: era stato trattenuto troppo a lungo senza poter dare sue notizie e senza poter far ritorno. Quando finalmente si era potuto imbarcare era morto durante il viaggio. Ce n'era abbastanza per sollevare i sospetti di Kangxi. Fan, che era stato vicino al Provana per tutti quegli anni, era quindi la persona adatta per spiegare come erano andate effettivamente le cose: ciò che presumibilmente fece in occasione dei colloqui che subito dopo il suo rientro ebbe in Manciuria con l'imperatore. In seguito egli venne coinvolto, soprattutto come interprete, nelle trattative svoltesi negli anni 1720-21 in occasione dell'arrivo della legazione di Carlo Ambrogio Mezzabarba (1685-1741) inviato anche lui in Cina per risolvere la questione dei riti. Come cinese e come gesuita, Fan si trovò così sovente in una posizione imbarazzante, rischiando ogni volta di disubbidire all'imperatore o al Papa, ma - a stare alle fonti occidentali (scritti di missionari di altri ordini, diversi da quello gesuita o di membri della legazione Mezzabarba) - sembra che si togliesse d'imbarazzo difendendo in materia di riti la posizione imperiale e quella dei gesuiti, anziché quella sostenuta dal legato (che era poi quella di Roma) e dei missionari di altri ordini. Si attirò così feroci critiche da parte dei suoi avversari, che lo considerarono persona infida e sospetta, che faceva solo gli interessi dell'imperatore e magari dei gesuiti, non certo quelli del Papa, di cui aveva evidentemente una ben scarsa considerazione come sovrano temporale. Lo conferma lo sfogo, cui si lasciò andare il 27 dicembre 1720 durante un incontro con Mezzabarba e quattro mandarini:

"Il Papa comanda? Ma chi è questo Papa? Il Papa comanda? Non può comandare agl'inglesi ed olandesi e pretende di comandare in Cina!..."11

Non fu solo Fan a far sapere ai cinesi che il Papa, come sovrano temporale, contava assai poco in Europa. Se ne resero conto cinquant'anni dopo, i componenti del gruppo di spioni inviati, sotto la veste di delegazione culturale, dalla corte di Pechino, per indagare e riferire sulle reali condizioni del continente europeo. La delegazione era guidata dal mandarino Cham Pipi (un noma che è tutto un programma), il quale, appena giunto a Parigi, inviò ciascuno dei suoi collaboratori in uno stato europeo con l'incarico di riferirgli per lettera. L'Italia toccò al mandarino Sin Hoei, il quale si mise subito al lavoro, visitando i principali staterelli in cui si divideva il nostro paese, e scrivendo da ciascuno di essi delle dettagliate relazioni, che spediva a Cham Pipi sotto forma di lettere. Sono lettere infarcite di critiche, da cui non si salva nessuno. Valga solo questo giudizio con cui Sin Hoei riassume la sua relazione su Roma:

"Scrivo da una città che un tempo ha atterrito l'Universo e che ancor oggi ha ancora una certa influenza sul mondo. Ci sono infatti dei paesi sulla terra che sembrano esistere solo per tormentare la natura umana. Questa capitale fu un tempo il centro della forza. Oggi è il punto fisso dell'impotenza..."

Non sappiamo quale fu la reazione della corte di Pechino quando ricevette i rapporti inviati da Cham Pipi. Non lo sapremo mai perché Cham Pipi, Sin Hoei e gli altri sono invenzioni di un avventuriero francese, Ange Goudar (1720-1791), autore dell'opera in sei volumi L'espion chinois ou l'envoyé de la cour de Pekin pour examiner l'état présent de l'Europe, Colonia 1764.

Lo cito qui perché, alla parte concernente l'Italia, collaborò uno che di imbrogli, avventure, invenzioni, falsi era un maestro: Giacomo Casanova (1725-1798)12.

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La vita di alcuni dei connazionali, attivi in Cina durante questo secolo, e di cui mi accingo ora a parlare, meriterebbe una più completa trattazione effettuata mediante ricerche negli archivi dei nostri Ministeri degli Esteri e degli Interni, nonché stranieri, e mediante un attento spoglio della stampa straniera, soprattutto cinese. Per parte mia mi sono basato sul materiale documentario raccolto in oltre cinquant'anni, costituito soprattutto dalla stampa italiana; sulle autobiografie scritte da due di essi (che devono però essere consultate con la massima cautela, col beneficio dell"'inventario") e infine su ricordi personali, dato che ho avuto occasione di incontrare alcuni di essi e loro parenti. Valga questa mia testimonianza come conferma che i due autori delle autobiografie sono realmente esistiti e non sono invenzioni di qualche romanziere dalla fervida immaginazione, come potrebbe apparire dalla lettura di quelle pagine, piene di invenzioni e di fantasie.

V'è comunque materia per ulteriori ricerche, cui potrebbe dedicarsi con profitto qualche studente interessato a trovarsi un argomento originale e insolito per una tesi di laurea in storia della Cina moderna.

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Ero arrivato in Cina nel 1946 da poche settimane e, in attesa di ricevere l'ordine di proseguire per Nanchino, dove aveva sede l'ambasciata, mi trovavo parcheggiato presso il Consolato generale di Shanghai con un assai vago incarico di "leggere le carte al fine di impratichirmi": così mi dissero. L'archivio di quel Consolato era una miniera di documenti sulla storia dei rapporti tra l'Italia e la Cina nel corso di un secolo ed è un vero peccato che nel 1949 sia stato dato alle fiamme per la gioia di qualche archivista sfaticato.13

Fra le pratiche, che mi furono date in lettura, ce n'era una assai voluminosa intitolata "Vespa", relativa ad un connazionale (anzi: un ex connazionale, dato che aveva cambiato nazionalità) il quale aveva dato parecchio da fare e non pochi grattacapi ai nostri consoli generali durante il Ventennio. A rendermene la lettura più interessante (ma non presi appunti! Grave errore dovuto all'inesperienza dell'età!) fu la visita della figlia del Vespa, Genoveffa (un nome che in francese, come lei si presentò, suona meglio che in italiano), una ragazza assai sveglia, la quale chiese per sé e per sua madre il riconoscimento della nazionalità italiana e il passaporto. Mi disse che suo padre era stato fucilato dai giapponesi nelle Filippine nel 1945 sotto l'accusa di esser una spia degli americani, a fianco dei quali aveva combattuto, e che questo era un titolo di merito che ne riscattava quindi il movimentato e discutibile passato. Ignoro se la sua domanda, inoltrata a Roma, sia stata accolta. Subito dopo infatti ricevetti l'ordine di recarmi a Nanchino e quindi di Vespa non mi occupai più per un bel pezzo, fin quando nel 1953 acquistai da un rivenditore di libri usati a Roma la sua autobiografia: Comandante Feng (Amleto Vespa), Spia in Oriente, traduzione di Paolo Balbis, O.E.T Edizioni Polilibraria, Roma, s.i.d., pp. 357. Nel retro del frontespizio si legge che il titolo originale dell'opera scritta in inglese era Secret Agent of Japan con una introduzione di H.Y. Timperley, corrispondente dalla Cina del "Manchester Guardian", datata Londra 22 giugno 1939. Sia in una nota del traduttore che nella introduzione all'edizione inglese curata dal Timperley e riportata nella edizione italiana, vengono fornite notizie biografiche sul Vespa, che integrano quelle da lui date nel suo libro. Le riassumo qui con la rinnovata raccomandazione di non prenderle come oro colato.

Vespa era nato all'Aquila nel 1888. All'età di 22 anni, fatto il servizio militare, partì per il Messico, dove si arruolò nell'esercito rivoluzionario agli ordini del generale Francisco Madera. Fu ferito due volte e raggiunse il grado di capitano. Nel 1912 lasciò il Messico e come giornalista indipendente viaggiò attraverso gli Stati Uniti, l'America del Sud, l'Australia, l'Indocina Francese e la Cina. Durante la guerra mondiale, nel 1916, le Potenze Alleate approfittarono della sua grande pratica delle zone di confine della Cina e, in qualità di addetto al loro servizio di informazioni, seguì l'esercito giapponese nelle Provincie Marittime e dell'Amur, fino al lago Baikal e a Nicholaevsk. In quegli anni ebbe modo di incontrare personalità cinesi e giapponesi, fra cui il maresciallo Zhang Zuolin (Chang Tso-lin) 1873-1928, allora Governatore della Manciuria e potentissimo warlord, al cui servizio passò nel 1920. Fra i compiti assegnatigli c'era quello di cercare di eliminare un traffico di armi, che venivano contrabbandate in Manciuria e che era assai pregiudizievole per gli sforzi del Maresciallo tendenti a mantenere una parvenza d'ordine nei territori di sua giurisdizione. Siccome - a stare a quel che Vespa sostiene - la maggioranza delle armi contrabbandate erano di provenienza italiana, per togliersi di imbarazzo e mantenere libertà di azione decise di cambiar cittadinanza e di prender quella cinese. Così facendo riuscì a mantenere il posto - evidentemente ben remunerato - al servizio di Zhang Zuolin, fin quando questi nel 1928 venne assassinato dai giapponesi, che fecero saltare il treno su cui stava viaggiando. Vespa allora passò al servizio dei giapponesi, divenendo uno strumento dei loro servizi segreti, costretto ad accettare questo nuovo incarico (così cerca di giustificarsi) a causa dei ricatti e delle minacce all'incolumità dei suoi familiari: minacce e ricatti contro cui, essendo divenuto cinese, non poteva invocare la protezione consolare, come avrebbe potuto fare se fosse rimasto italiano. Probabilmente anche con i giapponesi, che nel libro dichiara di detestare, Vespa continuò a fare quel che aveva sempre fatto: il doppio e triplo giochista, dato che certamente aveva mantenuto sempre legami con i servizi segreti inglese e americano. Il gioco gli riuscì fin quando venne scoperto. Fu ucciso dai giapponesi nel 1945 nelle Filippine, dove si era recato non so quando e perché: forse per spiare gli americani per conto dei giapponesi o per sfuggire a questi ultimi. Dato il personaggio tutte le ipotesi sono valide.

Come scrive il traduttore nella sua nota iniziale (p. 7) "Vespa non è davvero un campione ammirevole della nostra stirpe .... È il suo stesso libro a non consentire al lettore apprezzamenti più benevoli a suo riguardo. Egli ha il merito innegabile di aver contribuito a farci sempre meglio conoscere i giapponesi presentandoli sotto aspetti che forse la gran massa degli italiani ignora ancora completamente; ma averli serviti, come lui li ha serviti per circa cinque anni, nella più odiosa forma di attività, cui uomo civile possa dedicarsi, parallelamente tradendoli con un assiduo, sottile doppio gioco a favore dei cinesi, non è certamente titolo da potersi ascrivere a suo carico. Anche se si volesse... cristianamente tener conto dei suoi scrupoli e dei suoi troppo tardivi pentimenti".

Come autore però, anche tenuto conto che sul manoscritto dell'edizione originale inglese mise certamente le mani il giornalista Timperley, Vespa si esprime in maniera rozza, ma efficace, un po' disordinatamente, un po' in maniera ripetitiva, lasciando molta libertà alla fantasia ed all'invenzione, ma citando sempre esattamente i nomi delle persone, che dice di aver conosciuto, e descrivendo abbastanza vivacemente e con particolari forse inediti, certamente poco noti, alcuni episodi, come quello della fine di Zhang Zuolin.

Per concludere: certamente per i nostri diplomatici e consoli in Cina Vespa fu come il fumo negli occhi, felici di averlo perduto quando tolse l'incomodo facendosi cinese; come uomo rientrò nella categoria dei "poco raccomandabili" e "vitandi", ma di tutta la collettività italiana in Cina nel periodo fra le due Guerre Mondiali fu forse uno dei pochi connazionali che presentano un qualche interesse per lo storico.

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Nell'agosto 1951, neanche due anni dopo la costituzione della Repubblica Popolare Cinese, venne tenuto presso il tribunale militare di Pechino un processo contro sei stranieri ed un cinese, accusati di complotto contro la sicurezza dello Stato e di spionaggio a favore degli Stati Uniti. Il processo, conclusosi il 17 agosto con severe condanne, apparve subito voluto per motivi politici, per far capire al mondo che, ormai, era finita l'epoca in cui gli stranieri, grazie alla extraterritorialità ed alla protezione loro accordata dai rispettivi governi, potevano comportarsi in Cina come se fossero stati esenti dall'osservanza delle leggi cavandosela sovente con lievi punizioni. L'accusa di spionaggio fu il principale motivo che nel settembre precedente aveva portato all'arresto di sei di essi, rei di "aver fornito informazioni riservate militari, economiche, politiche all'ufficio per i servizi strategici del governo degli Stati Uniti (Oss) presso il comando delle forze di occupazione a Tokio, nonché all'ufficio dell'addetto militare dell'ex ambasciata a Pechino, Col. Dean David Barnett".

L'altro capo di accusa: "occultamento di armi e di munizioni per un attacco armato, cospirazione contro la vita dei capi del governo cinese" apparve piuttosto come un pretesto per inasprire vieppiù le condanne. Gli arrestati infatti vennero accusati di volersi servire di un mortaio, sembra un residuato dell'epoca dei Boxers, che era stato scoperto nel giardino della missione cattolica di Pechino, per colpire durante la parata militare del 1° Ottobre 1950, la tribuna a Tian'anmen, dove erano schierate le massime autorità della Repubblica Popolare: un'impresa alquanto difficile da portare a termine con successo, tenuto conto del presumibile mediocre stato di conservazione dell'arma, della distanza, da cui sarebbe stato fatto partire il colpo, della probabile imperizia degli attentatori, tre dei quali erano sì stati ufficiali dell'esercito in gioventù, ma almeno trent'anni prima.

Due degli arrestati furono condannati a morte e subito giustiziati: il giapponese Ryuichi Yamaguchi (1904-1951) e l'italiano Antonio Riva (1896-1951)14.

Un altro italiano, Mons. Tarcisio Martina (1887-1961) dei p.p. stimmatini, fu condannato all'ergastolo. Agli altri quattro vennero comminate pene detentive minori: al francese Henry Vetch 10 anni; al cinese Ma Hsin 9; al tedesco Walter Genthner ed ad un terzo italiano, Quirino Gerli, 5 anni ciascuno.

Il processo e le condanne ebbero molta rilevanza sulla stampa internazionale e italiana, ma a nulla valsero le proteste elevate al riguardo nonché le smentite dello stesso Barnett, il quale naturalmente era sfuggito all'arresto perché da tempo aveva lasciato la Cina:

"Io sono accusato - dichiarò il 1° settembre 1951, nel corso di una conferenza stampa15 - di aver complottato di assassinare Mao Tse-tung. Posso dire che se ciò fosse vero lo avrei fatto ben stupidamente. La verità è che io non ho mai, né di mia iniziativa, né per ordini superiori, tentato di complottare l'assassinio di chicchessia. Notizie giornalistiche dicono che un mortaio da trincea è stato trovato seppellito a Pechino e avrebbe dovuto servire per assassinare Mao Tse-tung. I comunisti devono avere ben povera opinione di me come dirigente di complotto se pensano che io tenterei di assassinare chicchessia con un mortaio da trincea: avrebbe lo stesso effetto di una fionda. Ad ogni importante riunione comunista, il pubblico e specialmente gli stranieri sono tenuti talmente lontani che sarebbe difficile uccidere Mao Tsetung con un cannone da 105 mm. I comunisti cinesi dicono che la mia parte del complotto è risultata con evidenza nel processo di Pechino. Ho sentito dire che nessuno degli stranieri arrestati conosceva le accuse loro rivolte. Nessun ente del governo degli Stati Uniti ha mai saputo perché quelle persone erano state arrestate e neppure le loro famiglie..."

Benché su 7 condannati tre fossero italiani, ben poco poté fare il nostro governo, anche perché non avevamo ancora riconosciuto il nuovo governo cinese e non avevamo quindi stabilito relazioni diplomatiche con esso. Un comunicato stampa diramato il 21 agosto 1951 dall'Ufficio Stampa del nostro Ministero degli Affari Esteri, riassunse così la nostra posizione:

"La notizia dell'esecuzione capitale a Pechino del connazionale Antonio Riva e della condanna rispettivamente all'ergastolo e a sei anni di reclusione dei connazionali Mons. Martina e Sig. Geni non hanno mancato di destare una dolorosa impressione in Italia.

Il Riva e il Gerli, da lunghi anni residenti in Cina, erano stati arrestati fin dal settembre 1950 senza che, in contrasto con le più elementari norme di umanità e di giustizia, risultasse resa nota la natura precisa delle accuse formulate o che venissero sollecitamente istruiti regolari processi a loro carico. Durante questo periodo il governo italiano non ha mancato di interessarsi, tramite le potenze amiche che hanno propri rappresentanti a Pechino, ma con risultato negativo.

Da quanto però risulta appare assurda la motivazione della condanna, quale sarebbe stata data da Radio Pechino, avere cioè i nostri connazionali concorso alla preparazione di un attentato contro i capi del governo comunista cinese.

Tutta la impostazione del processo, quindi, può considerarsi nel quadro dei clamorosi processi imbastiti oltre cortina per fini di politica interna e che ora nella Cina comunista hanno fatto fra le vittime straniere, un italiano16".

Non posso dire di aver conosciuto Riva, che incontrai fugacemente solo nel 1948 in occasione di un ricevimento presso l'Ufficio di Pechino della nostra rappresentanza diplomatica in Cina; quando Pechino non era stata ancora "liberata", ma, circondata dalle truppe comuniste, era ancora sotto il controllo di un generale nazionalista. Riva allora era uno dei più autorevoli esponenti della collettività italiana in quella città. Fiorentino di nascita (1896), era arrivato in Cina nell'autunno del 1919, insieme a un gruppo di aviatori italiani per preparare i campi di atterraggio per un raid aviatorio Roma-Pechino, cui avrebbe dovuto partecipare addirittura Gabriele d'Annunzio. Un'impresa, come quella di un volo Roma-Pechino, che appariva allora come veramente eroica e alla quale il Vate avrebbe preso parte volentieri. In tal modo sarebbe stato possibile allontanarlo dall'Italia dandogli un pretesto per lasciare Fiume.

Così ci informa Daniele Varé17, il quale a quell'epoca reggeva la legazione d'Italia in qualità di Primo Segretario incaricato d'affari ad interim. II progettato raid tardò ad essere compiuto e a realizzarlo non fu D'Annunzio, ma Ferrarin. Riva rimase in Cina, costituì una società a Tianjin, la "Asiatic Import Export Co."18, che praticamente cercava di vender di tutto. Varé specifica: "cercava di vendere aeroplani. Erano quelli gli anni in cui c'era una viva concorrenza tra gli Occidentali e i Giapponesi nel fornire armi ai vari generali cinesi, i quali della guerra civile avevan fatto una lucrosa professione. I vari governi facevano - o fingevano di fare - il possibile per impedire tale traffico e si firmavano, in Europa, degli accordi internazionali che nessuno poi osservava. In Oriente il contrabbando fa sempre parte di tutte le relazioni con l'Estero. Antonio Riva era stato un buon ufficiale aviatore in guerra, quando l'aviazione era nella sua fase iniziale e rudimentale. Io avevo una certa simpatia per lui, come ce l'avevano tutti gli italiani, ma non mi pareva che possedesse le qualità necessarie, né le risorse necessarie, per fare l'uomo d'affari in un ambiente losco e malfido, come era quello dei Treaty Ports. Non disponeva di riserve finanziarie e non era abbastanza imbroglione..."19.

Come membro della collettività italiana in Cina, Riva, a differenza di Vespa, mantenne sempre buoni i rapporti con i rappresentanti diplomatici italiani del Ventennio: nel 26 costituì la sezione della Cina del Nord del partito fascista, nel 1934 fu nominato segretario della Missione militare aeronautica italiana traendo da entrambe le cariche, prestigio e influenza, oltre a vantaggi per le sue attività commerciali. Queste furono prospere fin quando, finito il conflitto mondiale, la situazione in Cina mutò e con essa quel mondo in cui Riva aveva costituito la sua fortuna. Secondo Varé negli ultimi anni gli affari non gli andavano più così bene come un tempo.

Degli altri condannati ho incontrato l'italiano Martina e conosciuto il francese Vetch, i quali, dopo aver scontato parte della pena, erano stati graziati ed espulsi dalla Cina. Di ambedue mi colpirono, quando li incontrai, le condizioni non fisiche ma mentali in cui erano stati ridotti a seguito della permanenza in prigione. Mi trovavo allora a Hong Kong come vice-console e fra i miei compiti c'era quello di occuparmi, al loro arrivo nella colonia, degli italiani provenienti dalla Cina. Uno di questi fu Mons. Tarcisio Martina, vescovo di Yixian, che era stato arrestato nel maggio 1951 con l'accusa di detenzione di arma da fuoco (il noto mortaio), rinvenuta nel giardino della missione a Pechino. Condannato all'ergastolo era stato messo a riempire scatole di fiammiferi, ogni giorno doveva riempirne un determinato numero, evidentemente assai elevato, con l'incubo di aver commutata la pena in quella capitale se non avesse rispettato la quota fissatagli. Martina, prima di farsi prete, era stato capitano degli Arditi. Era quindi tutt'altro che un pavido prievetariello, ma negli anni trascorsi in prigione aveva contratto, forse per l'angoscia, un tic nervoso: stava sempre con lo sguardo fisso verso terra e muoveva freneticamente, senza fermarsi, le dita delle mani, come se stesse ancora riempiendo scatole di fiammiferi: mille, duemila, forse tremila e più al giorno...

A Vetch la prigione fece un altro effetto: lo avevo incontrato per la prima volta nel 1948 in occasione di una mia visita a Pechino, allora sotto controllo nazionalista. Dirigeva una casa editrice e una libreria antiquaria, sistemata in due o tre stanze dell'Hotel de Pekin, tappezzate di magnifiche edizioni di opere sulla Cina, per me, allora povero studente, inavvicinabili: il catalogo della collezione Eumorphopulos, la storia della pittura del Siren, la collezione delle Lettres edifiantes etc. Fra quei tesori si muoveva Vetch, con tutta l'altezzosità dell'intellettuale francese di classe (dicevano che era figlio illegittimo di Paul Claudel, già ambasciatore di Francia in Cina), alto, distinto, colto, affetto da complessi di superiorità. Non mi degnò neppure di uno sguardo, avendo subito capito che non sarei mai stato un suo cliente.

Lo rividi dopo il 1954 a Hong Kong: cambiato dal giorno alla notte, un caso di lavaggio del cervello riuscito, anche troppo. Per guarirlo dai suoi complessi di superiorità lo avevano messo in cella in compagnia di due delinquenti comuni, due poveri coolies che, in altri tempi, avrebbe preso a calci se gli si fossero avvicinati. E invece, non potendo servirsi delle mani, che gli furono tenute legate dietro la schiena per qualche tempo, fu costretto a mendicare da quei poveri coolies un aiuto per mangiare, per bere e per i bisogni corporali. La cura, un po' drastica, lo guarì dei suoi complessi ma gli causò una strana forma di pazzia. Aveva sviluppato una sua teoria - che esponeva a tutti, ogni volta che ne aveva occasione - in base alla quale tutto, dai caratteri cinesi all'architettura religiosa, dalla pronuncia delle parole ad episodi della storia cinese, veniva interpretato in chiave di sesso. Vedeva falli e vagine dappertutto: li vedeva, ad esempio, nei caratteri dong (insieme) o mu (madre), li vedeva nei campanili, nelle absidi, nelle ogive delle chiese con disperazione del fratello che era missionario salesiano. Non riesco ancora a spiegarmi come mai la prigione, sia pure quella cinese, abbia potuto fare un simile effetto su un uomo che nel 1954 aveva ormai 55 anni: non era quindi un giovincello dai bollenti spiriti e dal giovanile ardore.

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Viva la faccia invece di chi, come la signora Bianca Sannino, vedova Tam, vedova di altri due o tre mariti, parla di sesso senza inibizioni e senza ricamarvi divagazioni semantiche come faceva Vetch. È l'unica "spiona" fra tanti "spioni" ma, condannata a morte come loro, è riuscita a salvare la pelle; rinchiusa in carcere come loro, invece di ammalarsi di tic nervosi come Martina o di diventar monomaniaca come Vetch, ha saputo trarre diletto anche dalla prigione. Ha avuto una vita movimentata, complicata, non certo "esemplare", ma sicuramente divertente, almeno per lei, che l'ha vissuta e che l'ha narrata, quando era ormai anziana nonna, in una autobiografia intitolata Tè all'oppio, Milano Mondadori 1985 pp.259.

Bianca Sannino, giovane signorina della buona borghesia torinese, di limitata cultura, come poteva esserlo una liceale degli anni Trenta, e Tam Giam Ciau20, giovane ufficiale dell'esercito cinese, allievo della nostra Accademia militare, nell'ottobre del 1936 contrassero matrimonio, senza forse aver valutato abbastanza le difficoltà, cui sarebbero andati incontro una volta in Cina, data la situazione di quel paese, alle prese con la guerra civile e con l'aggressione giapponese. Non considerarono forse neppure se sia l'uno che l'altro erano spiritualmente preparati per affrontare tali difficoltà. Una volta rientrato in Cina nel 1939, Tam fu destinato a prestar servizio nella provincia del Guizhou, una delle più arretrate della Cina, il posto meno adatto per portarci la bella, bionda moglie occidentale, già rimasta scioccata dal primo impatto a Canton con la famiglia del marito, tutta tradizione confuciana. Dopo un anno circa erano consensualmente separati, lei a Shanghai con i figli (ne ebbe quattro), ancora piccoli, mantenuta dal marito che le faceva pervenire delle rimesse; lui al fronte ma, da buon cinese, confortato da una concubina.

La situazione andò avanti fin quando le rimesse in denaro pervennero regolarmente ma, per l'aggravarsi del conflitto con il Giappone, presero a diradarsi per poi finire del tutto. Quando giunse la notizia (rivelatasi poi erronea) della morte del marito (morirà in battaglia molto tempo dopo) si pose per Bianca Sannino il problema della sopravvivenza per lei e per i figli. Grazie alla sua bellezza, alla sua eleganza, alla conoscenza delle lingue, ad un notevole spirito di intraprendenza e alla mancanza di inibizioni, lo risolse sia nel modo più classico, collaudato da secoli, sia divenendo informatrice e spia per conto dei giapponesi, non disdegnando neppure di dedicarsi al contrabbando dell'oro. Poté così superare le difficoltà degli anni di guerra, ma quando questa terminò si ritrovò nelle prigioni cinesi, con l'accusa di spionaggio a favore dei Giapponesi: un'accusa che nel 1945 la fece condannare alla pena capitale. Ma evidentemente Bianca Sannino non doveva fare la fine di Mata Hari: gli interventi in suo favore furono tanti che alla fine la pena le venne commutata nell'espulsione dalla Cina. Sul finire del 1946 potè ritornare in Italia, dove rimase fino alla morte, avvenuta all'età di 77 anni, il 14 ottobre 1993, non senza aver prima raccontato le sue avventure nell'autobiografia sopra citata.

Purtroppo, non essendo scrittrice, si fece aiutare da chi - come viene specificato nella seconda pagina - volle far diventare quelle sue memorie un romanzo: un romanzo purtroppo d'appendice, scritto in uno stile da "Novella 2000", stucchevole per le descrizioni di particolari erotici, su cui l'anziana signora Bianca, ormai nonna, avrebbe fatto meglio a sorvolare; ripetitivo per il frequente compiacimento della propria bellezza. Su questo punto però devo ammettere che dice la verità: la vidi nel 1946 a Nanchino, quando, prima di lasciare la Cina, venne in Ambasciata per sollecitare, fra l'altro, la concessione del passaporto. Era molto bella, forse una bellezza un po' troppo "sex appealing'", il che non guasta mai e spiega come abbia potuto passare indenne attraverso tante avventure e tante peripezie.

***

Sono trascorsi ormai più di cinquant'anni dalla condanna a morte di Vespa (1945), di Riva (1951) e da quella, non eseguita, di Bianca Sannino (1945). Cinquant'anni sono trascorsi anche dalla condanna a pene detentive degli altri. Sono avvenimenti lontani nel tempo e che fanno parte della storia delle relazioni italo cinesi durante la prima metà di questo secolo. Per questo ne ho parlato, sicuro di non rivelare nulla di segreto, nulla che non sia stato a quel tempo pubblicizzato dalla stampa e raccontato da alcuni di quei protagonisti nelle loro autobiografie. Una considerazione merita di essere fatta a questo proposito: chi più, chi meno, chi con la vita, chi con la prigione, tutti hanno pesantemente pagato per l'errore di essersi messi a fare gli 007, spinti da necessità o per leggerezza. Lascio al lettore, che avrà avuto la pazienza di leggermi fin qui, di giudicare se tale loro errore meritasse davvero di essere punito con tanta durezza.

MONDO CINESE N. 101, MAGGIO 1999

Note

1 Due sole volte nel corso della storia il nostro paese rischiò di esser coinvolto in guerre con la Cina. Nell'antichità ci fu lo scontro avvenuto nel 35 a.C. sul fiume Talas tra avanguardie cinesi e mercenari (presunti) romani. Vedi il mio articolo "I pronipoti dei legionari di Crasso si troverebbero in Cina", pubblicato su Mondo Cinese, n. 100. In epoca a noi più vicina, stemmo lì lì nel 1899 per invischiarci, a causa dell'insipienza di un nostro rappresentante a Pechino, in un conflitto con la Cina, da cui proprio non so come saremmo usciti. Vedi il mio articolo "Gli avvenimenti in Cina a cavallo tra i due secoli nei documenti dei diplomatici italiani a Pechino" in "Le riforme dal 1898 al 1978 in Cina" in Quaderni dell'Amicizia, Associazione Italia Cina, Roma 1999, pp. 33-62. Restano come uniche macchie, che offuscano duemila anni di coesistenza pacifica, la nostra partecipazione alla spedizione dei Boxers e lo stato di guerra esistente tra il nostro Paese e la Cina durante gli anni dell'ultima Guerra mondiale.
2 Odes, lib.III, n.XXIX, vv. 25-28: Tu civitatem quis deceat status / curas et Urbi sollicitus times, / quid Seres et regnata Cyro / Bactra parent Tanaisque discors.
3 Con la riforma di Diocleziano, i frumentari presero il nome di agentes in rebus.
4 Liangshu (Libro dei Liang), cap. 540, ed. Zhonghua 1973, Vol. III, pg. 798.
5 Naturalis Historia, I. XII, p. 84.
6 Procopio di Cesarea, VIII, XVII 1 in H.B. Dewing (a cura di), Procopius, v. V, Loebb, London & Cambridge 1928, pp. 227-31.
7 In Sinica Francescana, v.I, Quaracchi, Firenze 1929, pp.381-495.
8 "lam sunt duo anni, quod venit quidam medicus cyrurgicus Lombardus qui de romana Curia et nostro Ordine et statu occidentis istas partes incredibilibus blasphemiis infecit. Propter quod multum desidero percipere veritatem. Rogo fratres ad quos hec littera pervenerit, ut ita studeant quod eius continentia possid pervenire ad notitiam domini Pape et Cardinalium et Procuratoris Ordinis nostri in Curia romana (...) Data in civitate Cambalieh regni Kathay anno Domini MCCCV die VIII mensis ianuarii", in ibidem, pp. 349-350.
9 È autore del Giro del mondo del Dottor D. Gio. Francesco Gemelli Careri, Napoli 1699-1700, voll.6
10 È il Shenjianlu (Racconto di ciò che ho visto di persona), il cui Ms. è conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Ms. Or. 642/2. Ne ho preparato la traduzione e il commento che verranno pubblicati col titolo "Fan Shouyi e il suo viaggio in Occidente" in A. D'Arelli e M. Fatica (a cura di), La missione cattolica in Cina. Matteo Ripa e il collegio dei cinesi , Napoli, 1999 in corso di stampa.
11 S. Viani, Historia delle cose operate nella China da Monsignor Gio. Ambrogio Mezzabarba, patriarca d'Alessandria, legato apostolico in quell'Impero, Parigi, 1739; 2nda ed. Colonia 1740, pg. 62.
12 C. Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden 1962, vol. V, libro IX, cap. XI, p. 294 "Goudar écrivait alors son Espion Chinois composant cinq ou six lettres par jour aux cafés ou il se trouvait par hasard. Je me suis amusé à lui en écrire quelques-unes dont il me sul grand gré...": id. Epistolario 1759-1798 (a cura di P. Chiara), Milano 1969, pp. 209-210: Lettera al conte Massimiliano di Lamberg, datata Praga, 28-7-1787: "Goudar...uomo di spirito, ruffiano, ladro al gioco, spia della polizia, falso testimonio, scaltro, ardito e sconcio ...è autore dello "Spione cinese", nel quale ci sono cinque o sei lettere mie".
13 Vedi quanto scrivo in Mondo Cinese n. 74, giugno 1991, pp.9-10.
14 Secondo l'Agenzia Xinhua del 17 agosto 1951, furono uccisi alle ore 17.00 locali dello stesso giorno. Durante il loro trasferimento al luogo dell'esecuzione, i condannati furono oggetto di grida ostili da parte dei passanti che affollavano le strade. Si ignora come sia stata eseguita la sentenza di morte (dal quotidiano II Tempo, 19 agosto 1951).
15 Riportata da Il Messaggero, 2 settembre 1951, p.5.
16 Testo pubblicato su Il Giornale d'Italia, 22 agosto 1951.
17 Articolo a sua firma, pubblicato su Il Tempo, 21 agosto 1951.
18 Biografia di Antonio Riva (nome cinese Li Andong), pubblicata in Jindai laihua waiguo renming cidian (a cura del Zhonghuo shihui kexue wan). Dizionario dei nomi degli stranieri arrivati in epoca recente in Cina, Pechino 1931, pg. 411.
19 Secondo Jindai laihua waiguo renrning cidian, op. cit., p.411, Riva vendette armi soprattutto ai generali (i cosiddetti warlords) Cao Kun (1862-1938) e Qi Xianyuan (1897-1946), ambedue avversari di Zhang Zuolin. Sia lui che l'altro connazionale Vespa esercitavano in campi diversi ed evidentemente l'un contro l'altro, la poco nobile professione del mercante di armi, armi che talvolta non arrivavano in tempo a destinazione o arrivavano alla destinazione sbagliata o che infine venivano vendute più volte, determinando così l'improvviso crollo o sorgere delle fortune di questo o quel warlord. Frank Capra ha ben descritto nel film "The bitter tea of General Yen" (L'amaro tè del generale Yen) del 1933 la fine di uno di questi warlord, bidonato da un mercante d'armi senza scrupoli.
20 Purtroppo la trascrizione del nome è quello che si legge nel libro della Tari, che non era certo sinologa.

 

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