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INDICE>MONDO CINESE>INVESTIRE IN CINA>IL VOLTO DELLA CINA FATTO CONOSCERE DA MARTINO MARTINI

DOCUMENTI

Il volto della Cina fatto conoscere da Martino Martini nel XVII secolo
(Roma, 15 marzo 2000)
Conferenza tenuta al Senato - Palazzo Giustiniani, Sala Zuccari dal prof. Giuliano Bertuccioli

Giuliano Bertuccioli

Chiedo scusa se esordirò con una breve premessa, una premessa consistente in una domanda e nella relativa risposta. La domanda è:

"Quando noi Europei, noi Occidentali, noi Italiani abbiamo avuto notizia dell'esistenza della Civiltà Cinese? E quando i Cinesi hanno avuto analoga conoscenza della nostra Civiltà?"

Non certo nell'antichità classica. I due maggiori imperi del tempo, quello romano e quello cinese Han, avevano al massimo notizia della reciproca esistenza e poco più. I Romani sapevano vagamente che in Cina esisteva "un muro lunghissimo" e che i Cinesi erano un popolo tendenzialmente pacifico. I Cinesi sapevano che i Romani amavano molto il diritto. Il loro imperatore - credevano ? passava le sue giornate transitando da una reggia all'altra: ne aveva 5 o 6 (chiara allusione ai 7 colli di Roma) e in ognuna amministrava la giustizia. Un segretario lo seguiva e subito eseguiva le sentenze (chiara allusione ai littori)...
E neppure durante il Medioevo abbiamo avuto conoscenza della civiltà cinese. Grazie alla Pax Mongolica mercanti e missionari francescani visitarono in gran numero la Cina. Molti di essi erano italiani. Ma i mercanti pensavano solo ai loro affari ed erano per di più "huomini sanza lettere", ignoranti, come certamente lo fu Marco Polo. Dalla lettura del Milione, si trae l'idea di una Cina immensa, ricchissima, potentissima, ma non si comprende perché essa fosse così civile, dotata di una civiltà diversa dalla nostra. E neppure i missionari francescani contribuirono a dare un'idea di quella civiltà, forse troppo impegnati nell'assistenza religiosa alle minoranze cristiane del grande Impero Mongolo e nel tentativo, rivelatosi illusorio, di convertire addirittura il Gran Cane, nella speranza così di stornare dall'Europa il pericolo di un'invasione mongola.
Il vero momento in cui i due mondi, europeo e cinese, le due civiltà, occidentale ed estremo orientale, si sono incontrate fu sul finire del Rinascimento, durante i secoli XVI e XVII.
Doppiato il Capo di Buona Speranza, i primi navigatori spagnoli e portoghesi erano arrivati sulle coste della Cina. Ma erano dei rozzi marinai, dei soldati incolti che non si resero conto che la Cina era ben diversa dagli imperi dell'America Meridionale e Centrale e che i Cinesi erano ben diversi dagli sprovveduti indigeni dell'America e dell'Africa. Un governatore delle Filippine si vantava addirittura di poter conquistare tutta la Cina con poche centinaia di uomini, come aveva fatto Cortes nel Messico.
Per fortuna erano arrivati anche i missionari: questa volta i Gesuiti. I Gesuiti erano a quel tempo quanto di meglio l'Europa avesse saputo produrre in campo culturale. Erano dei superdotati culturalmente, data la loro ottima preparazione umanistica e nello stesso tempo scientifica: molti di essi conoscevano la matematica, la geometria, la balistica, l'idraulica, l'astronomia. Ed erano in media anche dei superdotati fisicamente, dato che riuscivano a superare le fatiche, le malattie, i rischi del lunghissimo viaggio per mare dall'Europa alla Cina, in un'epoca in cui marinai e passeggeri morivano come mosche durante le bonacce del Golfo di Guinea o nelle tempeste del Golfo del Bengala o fra i miasmi delle isole della Sonda. 
I Gesuiti si erano subito resi conto che la Cina era ben diversa dai paesi che l'espansionismo coloniale europeo andava scoprendo un po' dovunque. Essi rimasero affascinati dalla civiltà cinese, soprattutto da un aspetto di essa: l'organizzazione dell'impero cinese, il modo come esso era amministrato, come soprattutto reclutava i suoi amministratori. Non tanto sulla base del valore dimostrato sul campo di battaglia, come in Europa, e neppure sulla base della nascita, del sangue, dell'appartenenza ad una classe di nobili feudali. Neppure sulla base delle capacità oratorie dimostrate, come un tempo a Roma o in Grecia, nelle piazze o nell'agorà. No, gli amministratori dell'impero cinese erano reclutati per esami: esami scritti tenuti in tutta la Cina ogni due o tre anni ed ai quali erano democraticamente ammessi tutti, sia il ricco che il povero; esami difficili, che vertevano sulla perfetta conoscenza dei Classici Confuciani, della dottrina confuciana, che non è una religione, ma una morale, un'etica, una filosofia politica. Una volta superati tali esami, altri due o tre, ancora più difficili, qualificavano a ricoprire cariche più elevate, fino ai più difficili, tenuti a Corte, alla presenza dell'Imperatore, e che, se superati, qualificavano a ricoprire le massime cariche dello Stato: ministro, censore, accademico ecc. I mandarini godevano di un potere immenso rispetto al resto della popolazione. Anche se ricco, ricchissimo, un mercante doveva sempre inchinarsi dinanzi al più umile mandarino. E lo stesso valeva anche per un prete taoista o un bonzo buddhista, anche se sant'uomo, anche se abate di un grande monastero. I mandarini avevano un sommo capo cui dovevano obbedienza e cioé l'Imperatore. Che fossero tutti onesti non direi. Rubavano anche loro, ma almeno erano colti, coltissimi per il loro tempo e questo fatto forse consolava un po' il derubato.
I Gesuti come ho detto rimasero affascinati da questo sistema di governo. Considerato il grande potere, il grande prestigio di cui godevano i mandarini rispetto al resto della popolazione, i Gesuiti formularono da ciò la tesi secondo cui la conversione della Cina si sarebbe potuta attuare cominciando dall'alto, convertendo l'Imperatore e i mandarini. Il popolo avrebbe certamente seguito. Ma come fare per convertire i mandarini, per convincerli della bontà della dottrina religiosa predicata dai Gesuiti? Come fare per avvicinarli in posizione di parità? Non certo presentandosi come dei religiosi occidentali, come dei bonzi stranieri. Sarebbero stati subito trattati dai mandarini come tali, senza uno status sociale elevato, come gente ai margini della società. No, bisognava presentarsi ai mandarini cinesi come dei loro colleghi stranieri, come dei mandarini occidentali. Solo così i contatti coi mandarini cinesi avrebbero potuto svolgersi su base di parità.
I Gesuiti avevano buon gioco per sostenere questa tesi. Potevano infatti affermare che anche loro in Europa avevano dovuto sostenere esami difficilissimi, che non avevano nulla da invidiare per severità a quelli sostenuti dai mandarini. Anche loro avevano un "sommo capo", il Papa, cui dovevano la massima obbedienza, come i mandarini verso l'Imperatore. Ma porre i loro rapporti con i mandarini in questo modo soltanto non sarebbe bastato. Occorreva convincere i mandarini che i Gesuiti possedevano delle conoscenze in determinati campi dello scibile che i mandarini non avevano o avevano in minor grado; occorreva "interessare" i mandarini dimostrandosi superiori e quindi maestri in determinate materie che stavano molto a cuore ai cinesi.
In un paese come la Cina essenzialmente agricolo, con la vita del popolo e le attività di governo regolate dall'alternarsi delle stagioni, dall'esatta osservanza del calendario, dalla corretta interpretazione dei fenomeni celesti, la matematica e l'astronomia erano materie essenziali in cui i Gesuiti avevano molto da insegnare. Furono queste conoscenze dei Gesuiti che interessarono soprattutto i mandarini e per soddisfarne la curiosità e il desiderio di sapere i Gesuiti avviarono nei secoli XVI e XVII un grande lavoro di pubblicazione di opere in lingua cinese sulla matematica, l'astronomia, la geometria, l'idraulica, la geografia ed anche la storia e la morale dell'Occidente. Furono aiutati in questo lavoro da alcuni mandarini convertiti, che misero in elegante forma letteraria cinese quello che i Gesuiti avevano reso certamente molto goffamente in cinese volgare.
Ma non basta. Bisognava che i Gesuiti si proteggessero le spalle in modo da poter contare sull'appoggio delle superiori gerarchie ecclesiastiche e dei sovrani europei, anche per mettersi al riparo dalle malevole critiche loro rivolte dagli ordini mendicanti. Questi accusarono i Gesuiti di eccessiva connivenza con i mandarini, di eccessiva accettazione della dottrina confuciana, che essi consideravano come una religione, di colpevole partecipazione alle cerimonie confuciane (cerimonie in onore di Confucio, culto degli antenati etc.) che i Gesuiti sostenevano a ragione essere semplici cerimonie laiche, mentre per i francescani e i domenicani erano superstiziose e quindi da condannare.
Per ribattere a queste insinuazioni e accuse, i Gesuiti dovevano convincere le superiori gerarchie ecclesiastiche, i sovrani e gli intellettuali europei della bontà delle proprie tesi, dovevano dimostrare che Confucio era stato soltanto un filosofo e un maestro, non un fondatore di religione, e che le cerimonie confuciane erano delle cerimonie civili, da cui esulava qualsiasi carattere religioso o superstizioso. Per far ciò bisognava pubblicare in Europa opere dirette a far conoscere tutti gli aspetti della civiltà cinese, la storia, la geografia, la morale etc. Come avveniva per le opere scritte in cinese ad uso dei Cinesi, così durante i secoli XVI e XVII apparvero in Europa opere in latino scritte dai Gesuiti, che hanno costituito la base per la conoscenza della Cina da parte dell'Europa.
Si distinsero in questo lavoro di pubblicazione moltissimi Gesuiti attivi in Cina e fra questi mi limito a nominare solo alcuni nomi dei maggiori: Matteo Ricci, Ferdinand Verbiest fiammingo, Adam Schall von Bell tedesco e due italiani Giulio Alerai e Martino Martini. Questi due sembra che si siano divisi i compiti, perché il primo scrisse esclusivamente opere in cinese, mentre Martini ne scrisse in cinese solo una, ma fondamentale; in latino almeno cinque, anch'esse e forse più fondamentali.
E così metto fine a questa breve premessa per parlare adesso di Martini, soprattutto di come egli abbia potuto scrivere tanto pur essendo morto assai giovane e pur avendo avuto una vita movimentata.
Era nato a Trento nel 1614 e nel 1640 era partito per la Cina. Aveva 26 anni e possiamo essere sicuri che a quell'età non aveva certo iniziato lo studio del cinese, una lingua che difficilmente può essere posseduta se non se ne inizia lo studio da giovani, soprattutto il cinese classico, che a quel tempo era il mezzo di comunicazione letteraria tra dotti in Cina così come il latino lo era da noi; una lingua che per essere studiata presuppone tranquillità, la pace del chiostro o la quiete della biblioteca, e richiede l'uso di molti libri, soprattutto vocabolari e grammatiche. Tutte condizioni che Martini non soddisfò di certo, perché ne iniziò lo studio a trent'anni, non dispose di vocabolari o grammatiche scritte da altri, non poté godere della necessaria serenità e tranquillità, perché gli anni da lui trascorsi in Cina furono assai movimentati.
Arrivò a Macao nel 1642 e quasi subito ricevette l'ordine dei suoi superiori di raggiungere la sede della sua missione, la città di Hangzhou nel Zhejiang. Non la raggiunse via mare, come sembrerebbe logico guardando una carta della Cina. La via mare era infatti sconsigliabile sia per il pericolo dei tifoni, imprevedibili, sia per la minaccia dei pirati, soprattutto giapponesi. Martini dovette raggiungere Hangzhou per via interna, in buona parte per via fluviale risalendo il fiume delle Perle fino a Nanxiong, poi valicando a piedi il Passo dei Susini, infine continuando il viaggio per fiumi, laghi e canali. Nel 1643 arrivò finalmente a Shanghai, dove un anziano confratello, Francesco Brancati, gli impartì certamente i primi rudimenti del cinese classico e gli scelse il nome cinese Wei, cognome, e Kuangguo, nome che significa "Salvatore della Cina", il che è tutto un programma. Nel 1643 era finalmente ad Hangzhou e li iniziò il suo lavoro di apostolato visitando le collettività cinesi cristiane dei villaggi vicini. Tutto ciò favorì certamente il suo apprendistato della lingua cinese parlata, ma non lo studio del cinese classico che richiede - come abbiamo detto - tranquillità. E questa tranquillità difficilmente egli la poteva trovare nella Cina di allora, dato che il momento scelto per farlo arrivare in Cina era quanto di meno tranquillo. L'impero Ming stava infatti crollando sotto i colpi infertigli dagli invasori mancesi.
Nel 1644 la città di Pechino era stata conquistata prima da un ribelle, poi da questi ultimi e l'imperatore Ming si era suicidato. Dal Nord le truppe mancesi dilagarono verso il Sud occupando nel 1644 Nanchino e nel 1645 la stessa Hangzhou. Martini non si trovava nella città. Ne era uscito in tempo nascondendosi in un villaggio vicino e da li partì appena possibile per recarsi nel Fujian, dove era stato chiamato dal suo confratello Aleni. Ma nel Fujian governavano ancora i partigiani dei Ming, che conducevano una sterile resistenza contro i Mancesi nell'illusoria speranza di riuscire a riconquistare tutta la Cina. Un membro della famiglia imperiale era stato nominato imperatore e controllava - ma per poco tempo ancora - le province sud occidentali della Cina.
Quando Martini arrivò in quella provincia, la sua fama di matematico lo aveva preceduto e i governanti Ming decisero di servirsi delle sue conoscenze in campo matematico e balistico. In breve: lo nominarono "mandarino" con compiti evidentemente connessi con l'istruzione degli artiglieri e la fusione dei cannoni e Martini fu costretto ad accettare. "Mandarino polvere da sparo" fu la sua nuova qualifica con tutti i vantaggi e privilegi connessi con la sua carica: uniforme da mandarino, lettiga (noi diremmo "automobile di servizio"), un rango speciale, battitori e seguito quando usciva etc. Purtroppo questa avventura durò poco. Appena i Mancesi ripresero l'offensiva, i partigiani dei Ming dovettero abbandonare il Fujian e riparare più a Sud e Martini, rimasto solo, si trovò nella città di Wenzhou quando questa venne assediata dai Mancesi. Conquistata la città, i Mancesi si diedero al saccheggio, massacrando gli abitanti. Martini rischiò così di fare una brutta fine e certamente l'avrebbe fatta se non avesse avuto un lampo di genio, che solo chi aveva ormai conosciuto certi aspetti della cultura cinese e della mentalità estremo orientale poteva avere. Martini aveva certamente assistito a qualche spettacolo teatrale in Cina, a qualche melodramma storico [una storia rivisitata in chiave di fiaba, di leggenda, di aneddoto]. Uno di questi melodrammi, popolarissimo in Cina sia allora che adesso, racconta di un generale che si trova assediato da forze nemiche in una città difesa da una modestissima guarnigione. Il generale si rende subito conto che nessuna resistenza potrà salvare la città allorché il nemico deciderà l'assalto finale.
Come fare quindi per salvare se stesso e la città? Solo ricorrendo ad uno stratagemma: facendo credere al nemico di avere forze molto superiori e per far ciò comportandosi con la massima calma e il massimo "self control". Il generale dà così ordine ai pochi soldati della guarnigione di rimanere nascosti, in modo da dare l'impressione che le mura della città siano del tutto sguarnite di difensori. Quindi fa aprire la porta principale, fa sistemare fuori di essa un tavolo, una sedia, dei fogli di carta, inchiostro e pennello e con la massima calma si siede da solo dinanzi a quel tavolo e si mette, sempre più calmo e distaccato, a disegnare e a scrivere poesie. Quando il nemico vede ciò rimane interdetto, non sa spiegarsi tanta calma da parte di quel generale, che dovrebbe essere invece preoccupato per l'imminente sconfitta. Teme quindi un'imboscata, pensa che quel generale abbia ricevuto rinforzi pronti ad intervenire al momento opportuno. In breve: il nemico si mette paura e ....toglie l'assedio.
Martini doveva aver assistito ad una rappresentazione di questo melodramma intitolato "Lo stratagemma della Città deserta", perché decise di ricorrere allo stesso stratagemma. Mentre le truppe mancesi si davano al sacco della città, entrando nelle case, rubando e uccidendo chi opponeva resistenza, Martini fece spalancare la porta di casa, fece affiggere fuori della porta, in modo che tutti potessero leggere, un grande foglio di carta su cui aveva scritto a caratteri cubitali: "Qui abita un grande letterato del lontano Occidente". Poi sistemato un tavolo e una sedia nel cortile della sua abitazione, in modo che dalla strada tutti potessero vederlo, si sedette dinanzi al tavolo e si mise a leggere, sereno, tranquillo, imperturbabile, mentre tutta la città era sconvolta dai saccheggi e dagli eccidi.
Per sua fortuna passò di là un drappello di soldati mancesi, guidato da un ufficiale che doveva essere una persona colta e non ignara della cultura cinese. Incuriosito dalla lettura di quello strano manifesto, l'ufficiale diede uri occhiata al cortile della casa e vide quello straniero dalla lunga barba che imperturbabile continuava a leggere, mentre all'intorno la gente moriva e le case bruciavano. Entrò allora e gli bastarono poche parole scambiate con Martini per capire che aveva a che fare con un uomo straordinario, un vero letterato del lontano Occidente. Spiegò quindi a Martini che la causa dei Ming era ormai disperata e che gli conveniva aderire subito al nuovo regime. Fece così indossare a Martini vesti alla moda mancese, gli fece radere i capelli e raccogliere quelli dietro la nuca in un codino e così tolse Martini dalla difficoltà in cui si sarebbe trovato se fosse stato fatto prigioniero come partigiano dei Ming.
Ormai inserito nel suo nuovo ordine, Martini fece ritorno nella sede della sua missione dove però non rimase a lungo. I suoi superiori, che ne conoscevano bene le conoscenze matematiche e scientifiche, decisero di farlo partire subito per Pechino con l'incarico di assistere il confratello Adam Schall von Bell nei lavori dell'Ufficio delle Matematiche, di cui questi era stato nominato capo: un grande successo per i Gesuiti che in tal modo potevano contare su un loro confratello in posizione chiave nel nuovo impero sino-mancese. Martini avrebbe dovuto assisterlo ed eventualmente succedergli un giorno.
Schall però non vide di buon occhio l'arrivo del più giovane confratello. Aveva un carattere alquanto difficile Schall, da vero junker prussiano e preferiva allontanare da sé chi poteva fargli ombra. E Martini gliene avrebbe fatta di certo. Bisogna però considerare anche - a giustificazione di Schall - che Martini era compromesso fino ai capelli con il regime dei Ming e se la cosa si fosse risaputa certamente questo fatto avrebbe causato dei fastidi non solo a Martini, ma anche allo stesso Schall, compromettendo così il buon esito della missione. In breve: Schall tanto fece che Martini, senza un permesso di residenza, dovette ripartire da Pechino e far ritorno ad Hangzhou.
Era destino che non potesse trattenersi a lungo in quella città, che gli era stata assegnata come missione. Vi aveva appena fatto ritorno che di nuovo i suoi superiori gli ordinarono di ripartire: questa volta per recarsi in Europa a sostenere a Roma la causa dei Gesuiti e difendere la loro politica di accettazione dei riti confuciani considerati come non superstiziosi.
Partì nel marzo 1651 da un porto del Fujian. Non partì solo. Si fece accompagnare da un giovane cinese che gli servì da segretario, cameriere tuttofare, vocabolario vivente. A quel tempo infatti non c'erano vocabolari: ogni studioso straniero si faceva il proprio vocabolario manoscritto oppure come Martini si serviva di un collaboratore cinese. Il giovane avrebbe aiutato Martini a leggere i numerosi libri cinesi, a carattere storico e geografico, che si era portato con sé e su cui si sarebbe basato per scrivere le opere che pubblicò appena arrivato in Europa.
Per fortuna la nave su cui si era imbarcato si fermò a Manila e li Martini rimase per quasi un anno in attesa di un'altra nave con cui proseguire il viaggio. Lontano dalla missione, i cui lavori lo avevano tanto assorbito, lontano dai frastuoni e dai disordini della guerra, Martini durante quell'anno di sosta forzata poté con tutta tranquillità preparare quelle opere. Altro tempo ne ebbe a Batavia, dove gli Olandesi lo fermarono per circa otto mesi al fine di farsi spiegare da lui cosa stava succedendo in Cina e quale sarebbe stato l'esito del conflitto sino-mancese.
Ripreso il viaggio, finalmente sul finire del 1653 arrivò in Europa. Sbarcò prima in Norvegia, poi scese in Germania, finché nel 1654 arrivò in Olanda. Qui fu accolto a braccia aperte da quegli studiosi che aspettavano da lui, come da un oracolo, notizie sul mondo cinese: sulla storia, la geografia, la filosofia e soprattutto la lingua.
Per soddisfare le tante richieste Martini lasciò a quegli studiosi il manoscritto di una Grammatica sinica (ne fu impossibile la stampa per la difficoltà di stampare il testo cinese) che costituì la base per lo sviluppo degli studi sinologici nell'Europa settentrionale. Nel volume II dell'Opera Omnia ne è stato pubblicato il testo sulla base di un manoscritto, conservato nella Biblioteca di Glasgow, che non è l'originale - forse perduto - ma il più vicino all'originale.
Con quest'opera Martini svolse un ruolo di pioniere dato che la grammatica è forse la prima preparata in occidente ad uso degli studiosi della lingua cinese. Era però suo destino di essere pioniere, il primo anche in altri campi. Il De Bello Tartarico pubblicato nel marzo 1654 ad Anversa, è non solo la prima storia del conflitto allora ancora in corso tra Cinesi e Mancesi, ma è anche il primo "reportage giornalistico" di quegli avvenimenti, dato che per scriverlo Martini si basò non solo sulla documentazione scritta, di cui poté entrare in possesso, ma anche su ricordi, su esperienze personali, essendo stato in più casi testimone e partecipe di quegli avvenimenti.
L'opera ebbe un successo straordinario; quattro edizioni nel primo anno e poi traduzioni nelle principali lingue europee e tante ristampe. Se la Grammatica sinica lo aveva fatto apprezzare dagli studiosi olandesi e tedeschi, il De Bello Tartarico lo fece conoscere dal più grosso pubblico, rendendolo subito famoso. Ma l'opera sua più famosa vide la luce un anno dopo il suo arrivo in Europa: il Novus Atlas Sinensis, pubblicato nel 1655 ad Amsterdam. È la prima opera sulla geografia della Cina, pregevole non solo per le 17 carte geografiche, benissimo disegnate, rappresentanti la Cina, le 15 province (una carta per provincia) e il Giappone, ma anche per l'esposizione che accompagna ogni carta, con l'indicazione per ciascuna provincia delle città principali, dei circondari, dei distretti e delle fortezze; dei nomi dei fiumi, dei principali prodotti, dei tributi pagati da ciascuna provincia, dei costumi degli abitanti... Per redigere quest'opera Martini si servì dei libri che dice di aver portato con sé e di cui purtroppo non fa il nome, ma dall'esame attento delle pagine dell'Atlas e dal confronto di esse con opere di geografi cinesi del tempo è possibile identificare con certezza due o tre opere su cui egli si è soprattutto basato e che spesso traduce alla lettera.
Pioniere come autore di una grammatica della lingua cinese, pioniere come autore del primo "reportage" del conflitto sino-mancese, pioniere come autore della prima geografia della Cina e pioniere anche come autore della prima storia della Cina antica, dalle origini fino alla nascita di Cristo: è la Sinicae Historiae Decas Prima, in dieci parti donde il titolo ispirato alla Storia di Tito Livio. Di quest'ultima opera, pubblicata a Monaco sul finire del 1658, Martini non poté forse vedere il libro stampato.
Nell'ottobre 1656 Martini arrivò a Roma dove presentò nel corso dei numerosi mesi istanze e suppliche dirette ad ottenere agevolazioni e privilegi per i cristiani cinesi; agevolazioni e fondi per acquistare libri e pagare le spese di viaggio per la Cina ai suoi confratelli e per l'istituzione di un seminario in Cina per la formazione dei futuri sacerdoti cinesi. Nel 1655 presentò poi un lungo memoriale al Santo Ufficio sulla questione dei Riti Cinesi.
Ai primi del 1656 si imbarcò di nuovo a Genova su una nave olandese diretta in Portogallo. Lo accompagnavano alcuni Gesuiti diretti alle missioni di Cina e India, di cui egli era responsabile insieme ad un altro confratello. Purtroppo la nave su cui era imbarcato venne assalita al largo della costa spagnola da un vascello pirata francese. Ne seguì una battaglia navale in cui la nave olandese, più piccola e meno armata, ebbe la peggio pur riuscendo ad infliggere notevoli perdite agli assalitori. Martini durante tutto lo scontro dimostrò coraggio e sprezzo del pericolo: rimase sulla tolda a curare i feriti e a rincuorare i combattenti, mentre tutti gli altri Gesuiti erano prudentemente scesi sottocoperta. Poi, una volta fatto prigioniero insieme agli altri e portato vicino a Tolone, seppe condurre con molta abilità le trattative per esser lasciato libero insieme agli altri confratelli di proseguire il viaggio. Fu così abile che riuscì a far scendere a terra uno dopo l'altro i confratelli e quando anche lui li ebbe raggiunti, fuggì insieme ad essi e viaggiando anche di notte ritornò a Genova dove naturalmente si diede da fare per ripartire di nuovo per la Cina.
Dovette invece attendere oltre un anno e questa sosta forzata fu preziosa perché certamente gli permise di rivedere meglio, prima della pubblicazione, il testo della Sinicae Historiae Decas Prima e di prendere visione del decreto di Alessandro VII del 23 marzo 1656 che dava ragione alle tesi dei Gesuiti sulla Questione dei Riti, quali erano state esposte proprio da lui.
Ripartì da Lisbona nell'aprile 1657 e durante il lungo viaggio la sua nave incontrò una tremenda tempesta nel Golfo del Bengala, così violenta che fu sul punto di fare naufragio. Il pilota, atterrito dalla furia delle onde e sentendo prossima la fine, abbandonò la barra del timone per mettersi a pregare cosicché la nave, senza una guida, sarebbe finita sugli scogli se non ci fosse stato Martini che, rivelando doti di nocchiero e una notevole presenza di spirito, non si fosse messo alla barra del timone portando così in salvo la nave. Purtroppo nelle isole della Sonda, durante una sosta nel porto di Larantuca a Flores, tutti, compreso Martini, caddero ammalati, probabilmente di dissenteria, e questo fatto contribuì a indebolire la fibra, fino allora dimostratasi fatta di acciaio, del nostro Gesuita..
Rientrò così in sede ad Hangzhou nel giugno 1658. Ancora giovane si sarebbe certamente ristabilito prima o poi e avrebbe potuto attendere con la massima tranquillità (ormai i Mancesi, vincitori, avevano ristabilito l'ordine in Cina) agli impegni inerenti al lavoro missionario e ai suoi studi. Diede così subito nuovo impulso all'opera di evangelizzazione, cercando e ottenendo fondi da ricchi cinesi per la costruzione di una chiesa a Hangzhou, destinata a divenire la più grande e la più bella della Cina. Nello stesso tempo attese a preparare un'opera in cinese, l'unica da lui scritta, ma assai importante, per esporre ai Cinesi la concezione europea del sentimento dell'Amicizia. Un argomento quello dell'Amicizia svolto molto opportunamente da Martini data l'importanza attribuita dai Cinesi a questo sentimento. Basti pensare che in tutta la sterminata produzione poetica cinese le poesie ispirate al sentimento dell'amicizia sovrastano di gran lunga di numero quelle ispirate all'amore: tutto il contrario di quanto avviene nella nostra letteratura. Nel suo libro Martini presenta in cinese soprattutto passi scelti dalle opere di Cicerone, Seneca, Platone e tanti altri autori dell'antichità classica, in cui si parla dell'amicizia. Il risultato fu un'antologia della letteratura occidentale, soprattutto greca e latina, presentata ai Cinesi, sia pure limitatamente all'argomento dell'amicizia: la prima antologia della nostra letteratura classica apparsa in Cina. Anche in questo campo quindi Martini fu un precursore.
Purtroppo egli non poté vedere terminata la chiesa, la cui costruzione fu completata dai suoi successori, e neppure poté vedere pubblicato il Trattato sull'Amicizia che apparve postumo nel 1661, lo stesso anno della sua morte.
Era deceduto infatti il 6 giugno 1661, dopo brevissima malattia causata da una cura sbagliata. Aveva solo 47 anni e c'è da chiedersi che cosa avrebbe potuto fare, quante altre opere avrebbe certamente scritto in latino e in cinese, se non fosse morto così giovane.
Era destino però che avrebbe fatto parlare di sé anche dopo morto. Quindici anni dopo infatti, in occasione della traslazione delle salme dal vecchio cimitero dei Gesuiti, invaso dall'umidità del terreno, ad uno nuovo, più asciutto, il corpo di Martini venne ritrovato intatto, non corrotto dal trascorrere degli anni e dall'umidità. Fu gridato al miracolo ed il suo corpo venne esposto nella Chiesa di Hangzhou alla venerazione dei fedeli cristiani. La fama però di quel gesuita, che dopo 15 anni dalla morte sembrava ancora vivo, si diffuse in tutta la città e la provincia e non furono soltanto i cristiani che venivano a rendergli omaggio e a venerarlo, ma anche i taoisti e i buddhisti, affascinati da quell'inspiegabile fenomeno. Questo culto della salma di Martini da parte anche dei cosiddetti "pagani" andò avanti per un pezzo, finché nel 1873 (due secoli dopo la morte!), un superiore della missione preoccupato per l'estensione presa da quelle manifestazioni di un culto ritenuto ormai idolatrico, fece nuovamente seppellire Martini.
Se quindi terminò così il culto del corpo di Martini, restano le sue opere latine e cinesi ad assicurarne il ricordo e la fama. Opere che contribuirono moltissimo a far conoscere la Cina in Europa, opere che furono pubblicate più volte nel secolo XVII conoscendo un successo straordinario, ma che, nel XVIII e soprattutto nel XIX col diffondersi delle idee contrarie ai Gesuiti, sembrarono essere state dimenticate.
Bene hanno fatto quindi l'Istituto Italo Cinese di Milano e l'Università degli Studi di Trento a decidere di ripubblicarle in originale e in traduzione italiana: un'impresa che richiede un intenso sforzo anche finanziario e che non avrebbe potuto essere avviata e condotta innanzi con successo senza l'entusiasmo del qui presente prof. Franco Demarchi, uomo dalla fede che smuove le montagne. A lui desidero rivolgere particolarmente il mio sentito ringraziamento per aver avuto fiducia in me, chiamandomi a curare i cinque volumi dell'Opera Omnia: un'impresa che mi auguro di poter portare a termine, anche se sia lui che io siamo ormai "vecchi e tardi" e, per usare un'espressione tipica dei cataloghi dei Gesuiti del tempo, allorché i superiori davano un sintetico giudizio dei loro confratelli, siamo ambedue "Aetate et morbo fracti". Speriamo quindi che il Padre eterno voglia concederci qualche anno ancora per terminare quest'opera. Grazie.

MONDO CINESE N. 104,MAGGIO 2000

 

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