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SAGGI

Immigrazione cinese e criminalità
Analisi e riflessione metodologiche

di Renzo Rastrelli

SOMMARIO: 1. La diaspora cinese. - 1. 1. La dimensione storica. - 1.2. Cenni sull'immigrazione cinese in Europa e in Italia. - 1.3. Il problema metodologico. - 2. Società, immigrazione, criminalità. - 2.1. La visione del problema e il Convegno di Campi Bisenzio. - 2.2. L'identità culturale come elemento di analisi. - 2.3. L'interazione con la società d'accoglienza. - 2.4. La criminalità. Osservazioni su alcuni casi.

1. La diaspora cinese.

1.1. La dimensione storica.

L'immigrazione cinese in Europa è senza dubbio un fenomeno di notevoli dimensioni che coinvolge, secondo certe stime, più di settecentomila persone che, a loro volta, fanno parte di una vastissima diaspora mondiale1. L'immigrazione cinese inoltre si distingue dalle altre che interessano i nostri paesi per alcune peculiari caratteristiche, quali una particolare coesione ed una solida identità etnica e culturale, accompagnata da una estrema vitalità ed intraprendenza economica. Gli studi per ora fatti intorno al fenomeno migratorio cinese sottolineano però una difficoltà a determinare modelli o categorie per definire in maniera univoca e generalizzata la diaspora cinese in Europa e nel mondo. Essa assume forme e caratteristiche del tutto particolari secondo i luoghi, mentre, per un altro verso, sembrerebbe essere il diretto prodotto di una medesima cultura.

Il quadro storico in cui si colloca l'immigrazione cinese è comunque ora profondamente mutato.

Da un certo punto di vista si può dire che il mondo oggi sta ritornando ad un assetto che fino a due secoli fa per quasi un millennio ha caratterizzato l'assetto internazionale. Non per nulla si parla da tempo di "secolo dell'Asia" per affermare che le nazioni asiatiche stanno tornando ad avere quel determinante peso, economico, politico e culturale che per secoli hanno avuto nella storia dell'umanità. La catastrofica umiliazione che il "paese di centro" e il suo popolo avevano subìto ad opera dell'occidente dal XIX secolo in avanti, ha cominciato a cedere il posto, dalla fine degli anni quaranta, al cammino costante che ha condotto l'Asia Orientale verso un'indubbia, anche se contraddittoria, rinascita economica, politica e culturale. Il grande sforzo militare, diplomatico ed economico che l'occidente ha rivolto contro i popoli asiatici non ha potuto deviare che per poco tempo il naturale processo di modernizzazione di queste civiltà, ritenute diverse e anche inferiori, ma che ora sembrano destinate a competere con successo per nuovi equilibri mondiali.

Sotto questo punto di vista la diaspora cinese assume tutto un altro significato rispetto a quello che poteva avere nel secolo scorso o solo trenta anni fa. I cinesi sparsi per il mondo non sono più i figli poveri di un paese emarginato e disconosciuto, ma sono i rappresentanti di una potenza emergente che sembra riaffermare i valori tradizionali della propria civiltà attraverso uno sviluppo indubbio e sorprendente, in una cornice politico diplomatica fino a pochi anni fa impensabile.

La coscienza di questo mutamento storico non è ancora patrimonio comune e accettato da molti ambienti culturali e politici, così come non lo è, a maggior ragione, dall'opinione pubblica occidentale, europea e italiana in particolare. L'ultimo secolo di difficile rapporto fra occidente e oriente ha impedito che si sviluppasse una conoscenza diffusa, documentata, ragionata della Cina. Né ha potuto svilupparsi una consapevolezza del valore relativo della nostra storia nei confronti dei differenti percorsi che le civiltà dell'uomo hanno compiuto. Ed ecco che allora possono prevalere stereotipi, riaffiorare paure sul pericolo giallo, mentre insufficienti conoscenze e angusti egoismi culturali impediscono la formazione di corretti strumenti di analisi e un pacato e razionale dialogo fra uomini di culture diverse. Dal versante degli orientali, ricordi di umiliazioni non lontane e una diffidenza non priva di ragioni, aggiungono ulteriori ostacoli alla reciproca comprensione.

In questo quadro il rapporto con gli immigrati e la conoscenza del fenomeno migratorio hanno delle ragioni oggettive per essere difficili e complessi, come vedremo ora passando ad una rapida esposizione dello sviluppo dell'immigrazione cinese in Europa e in Italia

1.2. Cenni sull'immigrazione cinese in Europa e in Italia.

L'immigrazione cinese in Europa presenta aspetti molto diversi per tempi e per luoghi. Dal punto di vista temporale, l'immigrazione cinese si può dividere in due periodi: prima e dopo la seconda guerra mondiale. Prima della guerra essa era costituita da lavoratori, che con vari contratti venivano a lavorare in Europa, similmente a quanto era avvenuto in America e nell'Asia sudorientale nel XIX secolo. Questi lavoratori costituirono, negli anni venti e trenta, i primi nuclei dell'immigrazione, proveniente soprattutto dal Guangdong e da Hong Kong e dal Zhejiang, teste di ponte che per svilupparsi avevano bisogno del verificarsi di certe condizioni. Il possesso di colonie in Asia creava una situazione favorevole al crearsi di correnti migratorie verso paesi come Inghilterra, Francia e Olanda. La crisi degli imperi coloniali dopo la seconda guerra mondiale dette il via a flussi consistenti di cinesi verso tali paesi. La chiusura politica della RPC impediva però che dal Zhejiang e dal Guangdong si avviassero in tutta la loro potenzialità le catene migratorie collegate alle teste di ponte dell'anteguerra. Ma nella seconda metà degli anni settanta, la politica cinese cambiò e i primi consistenti flussi di immigrati cominciarono a dirigersi verso i maggiori paesi europei, primi fra tutti quelli dal passato coloniale. Seguendo Frank Pieke, possiamo dividere in cinque gruppi gli immigrati cinesi in Europa:

- i cinesi provenienti dal Zhejiang, la cui prima emigrazione era iniziata dopo la prima guerra mondiale, sporadicamente continuata anche dopo il 1949 ma sviluppatasi soprattutto dalla metà degli anni settanta;

- i cantonesi del delta del Fiume delle Perle, venuti in Europa come marinai nel primo novecento, seguiti dopo la seconda guerra mondiale da ondate migratorie dei nuovi territori di Hong Kong verso l'Inghilterra e poi da lì verso altri paesi europei;

- i cinesi provenienti dall'Indocina: dopo il 1975, si dirigevano verso la Francia raggiungendo comunità già sorte nel 1954. I cinesi giunti dall'Indonesia dopo gli anni sessanta e poi dalla Malaysia e Singapore verso l'Inghilterra, Olanda, Belgio e Germania;

- i cinesi provenienti dal Fujian emigrati soprattutto negli anni ottanta e diretti specialmente negli Stati Uniti ma fermatisi anche in vari paesi europei;

- i cinesi provenienti dal nord-est della Cina verso i paesi dell'Europa Orientale e i paesi dell'ex Unione Sovietica, un'emigrazione individuale legata ad una espansione commerciale della Cina.2

Già da questa elencazione si può vedere come il panorama europeo dell'immigrazione cinese sia differenziato. Spesso i gruppi maggioritari presenti in vari paesi, i cinesi di Hong Kong in Inghilterra, i cinesi dell'Indocina in Francia ecc., parlano anche lingue diverse e hanno origini e attività differenti. Non è nemmeno esatto parlare di comunità cinesi delle varie nazioni europee, essendo forse preminente l'importanza, per la classificazione degli immigrati, l'origine delle catene migratorie e cioè anche località diverse di una stessa provincia come il Zhejiang. Oltre tutto, a queste differenze si aggiungono gli effetti di differenti legislazioni e politiche nazionali verso l'immigrazione, che creano condizioni di inserimento e opportunità economiche diverse.

Nello stesso momento in cui si sottolineano queste cose si deve notare che, pur nelle diversità, i vari gruppi di cinesi sparsi per l'Europa danno vita a diverse attività economiche che si possono definire etniche, cioè gestite da una imprenditorialità cinese tramite piccole e medie imprese in svariati settori quali la ristorazione, la lavorazione di pellami, il tessile e le confezioni, il commercio import-export, ecc. Sembrerebbe cioè esistere, pressoché ovunque, una forma di attività economica indipendente, probabile espressione di una unica matrice culturale.

Di particolare interesse a questo proposito è l'emigrazione dal Zhejiang, preminente in Italia ma dominante anche in altri paesi che, come ci fanno notare gli studi di Luigi Tomba, sembra farsi interprete ovunque di una sorta di modello basato sulla piccola impresa familiare che tende a produrre, accanto ad un'emigrazione più povera, un'emigrazione cosiddetta con capitale. Anche all'interno della Cina, c'è una forte emigrazione zhejianese che, per esempio, ha dato vita a Pechino ad una consistente comunità di piccoli imprenditori. Tutto questo indipendentemente dal notevole sviluppo economico del Zhejiang e in particolare di Wenzhou. Si cerca cioè di trovare fortuna avviando catene migratorie che hanno lo scopo di affermare la propria capacità imprenditoriale in ogni parte del mondo3.

Anche l'immigrazione cinese in Italia si colloca in questo quadro.

I cinesi in Italia cominciarono ad arrivare negli anni venti e trenta per lo più provenienti da altri paesi europei ed erano poche decine, quasi tutti del Zhejiang o di altre province meridionali. Dopo la guerra fino agli anni 60, vi fu qualche arrivo da Hong Kong ed ex-colonie, mentre fra il '60 e l'80, nonostante la chiusura della RPC, qualche catena migratoria cominciò ad avviarsi anche grazie all'instaurazione dei rapporti diplomatici fra Roma e Pechino. Nel 1982 i cinesi erano poco più di 2000, nel 1992 erano più di 20.000, nel 2000 sono praticamente raddoppiati, secondo un flusso consistente e continuo per lo più proveniente dal Zhejiang.

La prima storica comunità cinese si è insediata fin da prima della guerra a Milano, segue Roma e quindi alla fine degli anni '80 Firenze e nei primi anni '90 Prato.4 Benché la comunità più numerosa in assoluto sia rimasta quella di Milano, il maggior numero di cinesi in percentuale rispetto agli autoctoni si stabilisce nell'hinterland fiorentino e nel pratese, dove nel '92 vi sono quasi 20 cinesi per diecimila italiani mentre a Milano ve ne sono poco più di sette. A Milano e a Roma, la principale attività dei cinesi si concentra sulla ristorazione e sul commercio, a Firenze si sviluppa velocemente un gran numero di piccole imprese familiari nel settore della lavorazione del pellame e delle borse, mentre nel pratese si avviano numerose attività nel settore delle confezioni. Comunità più piccole si insediano in altre parti d'Italia. Il flusso, in linea generale, aumenta in concomitanza di provvedimenti legislativi favorevoli alla regolarizzazione dei clandestini, che costituiscono, fino al decreto del 1996, forse la maggioranza degli immigrati. L'immigrazione in Italia si distingue per la capacità che i cinesi dimostrano di saper occupare, con lo loro capacità imprenditoriale, particolari nicchie del tessuto economico e produttivo locale.

Nonostante che le prime comunità si fossero insediate in settori tradizionali come quello della ristorazione, all'inizio degli anni novanta, l'adattabilità e la flessibilità dell'imprenditoria e della manodopera cinese è capace di approfittare, soprattutto nell'area fiorentina, di alcune circostanze favorevoli per fare un grosso salto di qualità. La crisi del settore confezioni e pelletteria, correlata alla facilità di reperire laboratori lasciati ormai vuoti e macchine semplici a basso costo, permettono in pochi anni lo sviluppo di migliaia di piccole imprese. Le catene migratorie si attivano e si rinforzano, la loro prospettiva è di poter realizzare una piccola impresa familiare: è questo il sogno di tutti gli immigrati che provengono dal Zhejiang. Nei primi anni novanta si creano insediamenti ad altissima densità che mettono in allarme soprattutto alcuni comuni della fascia fiorentina. I giornali parlano di invasione gialla, di mafia e di schiavi costretti a lavorare in misere condizioni. L'impatto con l'opinione pubblica locale nella prima metà degli anni '90 è violento e le reazioni delle amministrazioni sono quasi sempre fondate su una impreparazione culturale di fondo e su una mancanza di strumenti e risorse amministrative capaci di far fronte a fenomeni nuovi e oggettivamente complessi. Solo lentamente la situazione nell'area fiorentina si normalizza, principalmente in seguito ad una distribuzione maggiore degli immigrati sul territorio soprattutto verso il pratese e grazie ad una maggior presa di coscienza delle amministrazioni della natura del problema migratorio. A Prato, dalla metà degli anni novanta si crea una consistente comunità cinese cresciuta su un piccolo nucleo di immigrati che nel 1989 erano appena 38. Nel 1996, i cinesi residenti (un dato molto parziale perché non considera né i clandestini né coloro che vivono o lavorano nella zona col solo permesso di soggiorno) erano 1613, nel 1998, 3162. Nel 2000, calcolando i permessi di soggiorno validi rilasciati dalla Questura di Prato e le domande di regolarizzazione, i cittadini cinesi presenti sul territorio comunale si possono stimare intorno alle 10.000 unità (dopo l'ultima regolarizzazione, il fenomeno della clandestinità è divenuto più contenuto). A Prato dunque vi è una delle più consistenti comunità e il più alto numero di cinesi rispetto al totale dei residenti (circa 170.000).

A differenza che nell'hinterland fiorentino, a Prato non vi sono stati momenti acuti di tensione fra locali e cinesi, e le istituzioni si sono meglio preparate ad affrontare il fenomeno. L'insediamento è avvenuto in maniera meno concentrata rispetto all'esperienza di Campi e i cinesi hanno trovato uno spazio adatto alle loro esigenze lavorative e abitative nei molti capannoni industriali ormai abbandonati dai pratesi, dando vita, prima a centinaia, poi a più di un migliaio di piccole ditte che operano nel settore delle confezioni5.

A Prato come a Firenze, i cinesi hanno dunque stabilito insediamenti estremamente vitali dal punto di vista economico. Da queste due grosse comunità che hanno affiancato quelle più antiche di Milano e Roma, si sono poi originati flussi in direzione verso l'Emilia e la Campania, considerate più adatte allo sviluppo della piccola imprenditorialità cinese.

Dal punto di vista della società e delle istituzioni italiane è emersa chiara una difficoltà culturale di fondo che ha impedito inizialmente l'affermarsi di un rapporto razionale e consapevole con gli immigrati. Nelle istituzioni locali vi è stato per un certo periodo un notevole ritardo, che rifletteva quello delle istituzioni centrali, nel preparare e formare uomini e strumenti amministrativi che fossero in grado di stabilire una corretta comunicazione con cittadini provenienti da culture diverse

1.3. Il problema metodologico.

Questo breve excursus sull'immigrazione cinese in Europa e in Italia che ha messo in luce affinità e diversità nel tempo e nello spazio, ci è utile per mettere a fuoco un problema metodologico che interessa sia il piano conoscitivo che quello sociale e politico.

C'è chi afferma che la considerazione delle dimensioni culturali che stanno dietro al fenomeno migratorio cinese può indurre a estremizzare la portata di questo elemento. La consapevolezza dell'esistenza di una civiltà sinica, tuttora fondata su alcuni valori fondamentali del confucianesimo (autoritarismo, gerarchia, ordine, dedizione al lavoro ecc.) può indurre a comprendere tutti i cinesi della diaspora all'interno di un modello definito della loro cultura, che tutti li governa e li definisce. Adottando questo punto di vista, uno stato tende a formulare politiche che tendono a salvaguardare una predefinita identità etnica dove l'integrazione rispetta la diversità culturale. Il rischio è quello di seguire modelli onnicomprensivi che sottovalutano la diversità delle varie realtà locali. Flemming Christiansen ha particolarmente trattato tale problema contrapponendo a tale approccio, definito primordialista o culturalista, un altro, detto strumentalista o situazionista, che tende invece a focalizzare l'attenzione sull'interazione fra immigrati e situazioni locali. Da questo secondo punto di vista sorgerebbe la tendenza ad assimilare gli immigrati nelle società ospitanti, lasciando sostanzialmente questo processo affidato alle dinamiche sociali spontanee, una volta però garantite le pari opportunità.6

Una prima conclusione sul piano della riflessione metodologica ci porta a mettere a fuoco l'esistenza di due possibili approcci al problema dell'immigrazione cinese ed a constatare l'importanza del mutamento verificatosi nella dimensione storica della diaspora cinese.

Tenteremo, nella seconda parte nel lavoro, di sperimentare gli strumenti metodologici per analizzare i problemi dell'immigrazione cinese e per affrontare il fenomeno della criminalità di origine cinese inserito nel contesto sociale nel quale si sviluppa.

2. Società, immigrazione, criminalità.

2.1. La visione del problema e il Convegno di Campi Bisenzio.

Per una corretta comprensione dell'immigrazione cinese bisogna tenere conto di molteplici fattori: i valori propri della civiltà cinese, la complessa rete di rapporti culturali e socio-economici che si creano nel rapporto fra immigrati e società d'accoglienza, la dimensione storica nella quale i flussi migratori si sviluppano e si consolidano. Ciò comporta la necessità di mettere a fuoco delle categorie fondate sia sulle tecniche della comunicazione interculturale quanto su quelle dell'indagine storico-economica e socio-antropologica. La possibilità di utilizzare corrette impostazioni metodologiche dipende, oltre che dalla preparazione culturale, dalla diversità di esperienze che le società d'accoglienza hanno avuto col fenomeno migratorio. Sotto questo ultimo aspetto, l'Italia è un paese dove l'immigrazione  extracomunitaria è un fenomeno del tutto nuovo. Basti pensare che solo nel 1998, il nostro stato si è dotato di strumenti normativi e programmatici per affrontare in maniera organica il fenomeno migratorio. Ma la nostra società, dall'opinione pubblica alle istituzioni locali, non ha ancora maturato un atteggiamento pienamente consapevole delle conseguenze di una società multietnica e dei mutamenti che necessariamente comporta la complessità dei problemi di questo nuovo quadro sociale. Ciò è tanto più vero quando si ha a che fare con cinesi, originari di un paese la cui conoscenza è appesa a fragili e discontinui accenni sparsi nei nostri curricula scolastici, oppure è influenzata da immagini stereotipate apprese dai moderni mass-media.

Un'analisi che abbiamo condotta nella stampa locale e nazionale a proposito dell'immigrazione cinese ci ha dimostrato, come a livello di opinione pubblica, lo stereotipo e l'approssimazione siano dominanti.7 Riteniamo particolarmente significativo uno studio che abbiamo fatto sulla ricorrenza del termine "Chinatown" negli articoli che riguardavano l'immigrazione cinese a Prato e a Firenze. Tale termine in alcuni periodi ricorre ben nel 68% degli articoli di "La Repubblica" o nel 74% di quelli de "La Nazione". "Chinatown" è una definizione che "implica una prevalenza numerica della popolazione cinese in un determinato quartiere, una sua elevata autonomia e un forte livello di separatezza dalla società ospitante8. I giornali però, hanno utilizzato tale espressione "anche in palese mancanza di tali condizioni, indicando così i pregiudizi di chi la utilizza e sollevando diffusi allarmismi e paure. Essa propone, infatti, una immagine di 'invasione' del territorio da parte degli immigrati e una visione di comunità chiuse, impenetrabili, che acquistano facilmente un alone misterioso ricco di potenziali minacce"9. Il senso di minaccia è ancor più evidente dall'uso del termine "mafia" o "Mafia Gialla". Quasi l'8% degli articoli de "La Nazione" è dedicato alla mafia cinese, percentuale che raddoppia se si considerano tutti gli articoli che contengono espliciti riferimenti a tale termine (a volte solo nel titolo senza che nel testo vi sia nessuna corrispondenza). Ma ben più significativo è il fatto che nel 55,81% di questi articoli, si parli di mafia senza citare alcuna fonte in proposito: scarsi, indiretti e parziali sono i riferimenti a fonti giudiziarie, quasi sempre si riportano solo "voci".

L'allarme verso l'immigrazione cinese è dunque evidente. I giornali sono stati interpreti fedeli di un atteggiamento presente nella società e, nello stesso tempo, contribuiscono con l'approssimazione delle loro argomentazioni, a rafforzare paure e pregiudizi. D'altra parte, allo stato attuale delle cose, è ragionevole aspettarsi un simile atteggiamento in gran parte dell'opinione pubblica. Ma, soprattutto per quanto riguarda il tema della criminalità, anche ambienti altamente qualificati non ci sono sembrati esenti da qualche difficoltà nel mettere completamente a fuoco tutti gli aspetti del problema. Nel marzo del 1995 si è tenuto a Campi Bisenzio un convegno dal titolo "La criminalità organizzata di origine cinese in Italia e in Europa", il primo del genere in Italia, organizzato dalla Fondazione Falcone e dal Prof. Pino Arlacchi. Nei lavori del convegno, al di là del contributo che essi hanno dato per affrontare questo problema, affiorava una evidente tendenza a ritenere il fenomeno della criminalità organizzata strettamente connesso alla natura stessa della cultura e della organizzazione sociale dei cinesi. Così, pareva plausibile che la "mafia gialla" potesse apparire, con connotati simili, dovunque si creassero comunità di immigrati. Il modello interpretativo veniva poi costruito con riferimenti continui a realtà di altri paesi, come Hong Kong e Stati Uniti, mentre continui erano i richiami a società segrete quali le Triadi. Si poteva avere l'impressione, a nostro parere, che i lavori del Convegno suggerissero solo strumenti di analisi ricavati da esperienze diverse da quella italiana, troppo legati al paradigma etnico e tali da condurre ad una sottovalutazione delle condizioni concrete e particolari nelle quali l'immigrazione cinese si stava insediando nel nostro paese10.

Alla luce delle considerazioni che abbiamo inizialmente fatto e in seguito ad esperienze di ricerca da allora maturate, riteniamo che il contributo di quel convegno debba essere integrato con riferimenti più precisi della realtà dell'immigrazione cinese in Italia, analizzata sullo sfondo di quei diversi fattori che abbiamo descritto nella prima parte.

2.2. L'identità culturale come elemento di analisi

La centralità dell'elemento culturale ovunque si analizzino i comportamenti sociali dei cinesi non può essere messa in dubbio. Essa non deve però indurre a preconfezionare griglie interpretative rigide, al contrario deve essere usata come uno strumento dinamico, capace soprattutto di farci capire come si realizza l'incontro fra la cultura cinese e la nostra. Bisogna quindi fare degli sforzi per conoscere di più la cultura cinese, mettendo contemporaneamente a fuoco una metodologia che sappia correttamente valutare le dinamiche complesse che si creano nell'incontro fra persone di diverse culture. Riteniamo estremamente esemplificativo sviluppare questo ragionamento partendo dall'elemento culturale più semplice, e cioè la lingua cinese.

L'osservazione più comune fatta a proposito dei cinesi è quella relativa all'estrema difficoltà che essi hanno ad imparare l'italiano, tanto che viene loro attribuito una sorta di rifiuto a parlare la nostra lingua. Molti fra gli operatori delle forze di polizia con cui abbiamo avuto rapporti ritenevano che la non conoscenza dell'italiano fosse una prova della volontà dei cinesi di vivere lontani e separati dalla nostra società o, in certi casi, un espediente per sottrarsi a qualche responsabilità. Prima di attribuire ai cinesi questi intenti è necessario però considerare che il cinese è una lingua molto lontana da quelle occidentali. Passare dal cinese all'italiano non è relativamente facile come passare dall'inglese al francese o addirittura dall'arabo all'italiano. La lingua cinese oltre ad avere suoni molto lontani dai nostri è una lingua non alfabetica e con una struttura grammaticale e sintattica molto particolare. La barriera linguistica che separa gli occidentali e i cinesi è forte e consistente; può essere superata dai bambini o dalla seconda generazione di immigrati, ma resta un ostacolo quasi insormontabile per gli adulti anche se da molti anni nel nostro paese.

La barriera linguistica è, prima di tutto, una difficoltà oggettiva, che deriva dal fatto che il cinese non è una lingua alfabetica. Ogni parola si scrive con un "carattere" diverso, composto da vari "tratti", tanto da essere a volte un vero e proprio disegno complesso. Non esiste relazione alcuna fra lo scritto e il parlato, e solo una operazione mnemonica può legare tra di loro il significato, il simbolo scritto e la pronuncia. Non solo quindi la natura stessa della lingua cinese è profondamente diversa, ma non è semplice anche la sua trascrizione con l'alfabeto latino. Questa operazione è possibile solo con il corretto uso di particolari metodi; quello attualmente più usato ed adottato anche dal governo della R.P.C. è il cosiddetto metodo pinyin. La trascrizione fonetica in alfabeto latino non può comunque sostituire il carattere che resta l'unico modo certo di leggere e capire il cinese. I cinesi, nemmeno quelli istruiti, conoscono bene i metodi di trascrizione ed è molto comune che un immigrato sbagli, in perfetta buona fede, a dare la trascrizione del proprio nome. Non pochi cinesi hanno avuto problemi con le forze di polizia perché accusati di voler dare false generalità, mentre invece, dietro questo fatto, c'è un problema oggettivo e complicato che può essere risolto solo con l'uso anche dei caratteri che, ripetiamo ancora, costituiscono l' unica certezza nella lingua cinese.11

Ancora una prova che la barriera linguistica è di per sé un grande e primario ostacolo per i cinesi immigrati, si può avere dalla constatazione che, laddove le nostre istituzioni si sono munite di interpreti, mediatori culturali o esperti di comunicazione interculturale, il numero dei cinesi che si è rivolta quelle istituzioni è stato altissimo12. Dove la conoscenza dei problemi legati alla cultura cinese è riuscita a realizzare strumenti di comunicazione con gli immigrati, lo stereotipo che vuole il cinese arroccato e chiuso nella sua lingua e nella sua comunità è stato sostanzialmente smentito.

Certamente la soluzione del problema della comunicazione linguistica è prioritaria ma non è certo sufficiente per capire il mondo della diaspora cinese. Molti altri sono gli aspetti della cultura cinese che bisogna conoscere e prendere in considerazione, a causa della loro diversità.

In primo luogo ci sembra opportuno far notare che i cinesi hanno una concezione dello stato e della legge profondamente diversa dalla nostra. In luogo della centralità della legge e del diritto come regolatori dei rapporti fra gli uomini, e fra questi e lo stato, i cinesi hanno dato vita ad una società che ha privilegiato il concetto della autorità e della gerarchia. Chi riveste una posizione di potere può esercitare la sua autorità entro i soli limiti formati da imperativi etici che derivano dal proprio ruolo e con il compito di portare il benessere a coloro che sono soggetti alla sua autorità. Come il padre nella famiglia, lo stato ha dei doveri morali verso i suoi sudditi dai quali pretende rispetto e obbedienza, in una divisione precisa e gerarchica di ruoli e compiti, il cui rispetto armonioso produrrà benefici e prosperità per tutti. Il dovere all'obbedienza e quello di ben governare nel rispetto assoluto delle gerarchie ha dato origine nella Cina imperiale ad una società governata per più di duemila anni da uno Stato etico e autoritario, ma anche caratterizzata da una forte tendenza al pragmatismo e all'utilitarismo. L'autorità, addirittura quella suprema rappresentata dall'Imperatore, qualora non fosse stata più capace di ben governare decadeva, perdendo il suo "mandato". Lo scopo concreto del potere assoluto era quello di dare ricchezza e felicità al lao baixing, "le vecchie cento famiglie", cioè il popolo cinese. Lao baixing è un modo di definire il popolo cinese che ci rivela come le cellule fondamentali dell'intera società fossero le famiglie, piccole strutture gerarchiche e autoritarie come lo stato, la cui prosperità era scopo e dovere fondamentale dei suoi componenti e nel cui nome si poteva anche corrompere un'autorità pigra e indolente o addirittura rivoltarsi contro un potere dimostratosi ormai del tutto inefficiente.13

Questo modo di vedere le cose, così lontano dal nostro, ha prodotto ovviamente esperienze storiche e sociali profondamente diverse, anche se ben più solide e durature di quelle occidentali. La sua potenziale conflittualità con i valori fondanti del nostro ordinamento giuridico è oggettiva e così facilmente intuibile che ci sembra inutile dilungarsi a meglio specificarla. È necessario invece soffermarsi ancora sull'importanza della famiglia come valore centrale della cultura cinese. Essa è una struttura che rappresenta anche oggi una realtà forte e dominante che lega decine e decine di individui in un complesso sistema di relazioni gerarchiche e di interessi comuni. Abbiamo registrato spesso come alcuni operatori di polizia abbiano mostrato incredulità, e quindi sospetto, nei confronti di numerosi immigrati che si dichiaravano tutti parenti fra di loro, zii o cugini. La famiglia cinese ha in effetti una struttura allargata, nella quale gli individui hanno il rispetto e la considerazione che gli deriva dal rispettivo ruolo e dove i membri più anziani esercitano una indiscussa autorità. Alla famiglia spetta anche il compito di programmare le attività economiche che sono pianificate per aumentare la prosperità collettiva. Il denaro necessario ai progetti familiari è reperito spesso fra i membri stessi della famiglia o ricorrendo a forme di prestito fra famiglie imparentate o originarie degli stessi luoghi, sempre, di norma, con la garanzia di tutta la struttura familiare. Le famiglie dunque, la loro aspirazione alla prosperità, i legami fra di esse, la solidarietà fra compaesani e i meccanismi tradizionali dei prestiti (anche ad usura) devono essere considerati fattori principali che rendono possibile e poi condizionano il meccanismo dell'emigrazione.14

La struttura familiare deve costituire un elemento portante e indispensabile di ogni analisi se non si vuole incorrere nell'errore di scambiare la deferenza verso un anziano capofamiglia per la sudditanza ad un "boss", o la solidarietà etnica e familiare per omertà fra complici. Anche i prestiti e l'usura non significano automaticamente l'esistenza di rapporti di sfruttamento. In luogo di quello scenario composto di "schiavi e padroni" di cui spesso ci parla la stampa, esiste quasi sempre un patto, un "affare", che si fonda sulla condivisione di tradizioni comuni e nel quale tutti hanno il loro ruolo e il loro guadagno, scandito e diversificato secondo una definita scala gerarchica.

Dal quadro che abbiamo tracciato e dalle esperienze della diaspora mondiale dei cinesi, si evince che nei cinesi è forte l'intenzione di inserirsi nella società d'accoglienza,15 ma che, nello stesso momento gli immigrati del "Regno di Mezzo" più di altri tendono a mantenere vive e operanti le proprie abitudini e i propri valori in conseguenza della loro antica e strutturata cultura. La breve esposizione che abbiamo fatto ha sottolineato come molti aspetti della cultura cinese siano diversi dai nostri valori tanto che, indipendentemente dalle volontà soggettive, si possono creare forti contraddizioni. Intendiamo ora illustrare come il sorgere di contraddizioni sia favorito da particolari interazioni che si sviluppano fra immigrati e società d'accoglienza. Quando si parla di immigrazione bisogna sempre ricordare che il progetto migratorio ha alle sue radici una energia che tende a superare qualsiasi ostacolo. Il pragmatismo e il materialismo dei cinesi accompagnato dalla forza delle loro tradizioni li possono spingere ad accentuare la loro identità di fronte ad una società d'accoglienza incapace di assicurare un sufficiente livello di correttezza alla interazione con essi. La sfiducia e la separatezza saranno allora elementi di uno scenario dove, come è accaduto in altri paesi, saranno più facili le deviazioni criminali

2.3. L'interazione con la società d'accoglienza.

Nel rapporto fra la nostra società e le comunità di cinesi immigrati sono indubbiamente presenti fattori che favoriscono il sorgere di comunità chiuse e autoreferenti.

Innanzitutto vi è, come abbiamo già notato, un ritardo delle nostre istituzioni a predisporre strumenti idonei di comunicazione con gli immigrati che spesso si trovano nella condizione oggettiva di non conoscere le regole che permetterebbero un corretto inserimento nella nostra società. Vi è stato a questo proposito un ritardo culturale e, sul piano normativo, una notevole lentezza nel predisporre gli strumenti idonei. Non vorremmo dilungarci su questo aspetto che ci pare evidente, così come intuibili ci sembrano le conseguenze dei ritardi a cui abbiamo accennato.16

Ci vorremmo invece soffermare su alcune riflessioni circa le condizioni nelle quali si verifica l'inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro e della produzione, terreno dal quale, secondo noi, si originano le contraddizioni maggiori.

In linea di massima e in maniera molto generale si può affermare che per la maggioranza degli immigrati esistono molte opportunità di lavoro che sono però quasi tutte situate o nel campo del lavoro nero oppure in settori marginali del mercato.17 L'immigrato vive spesso situazioni irregolari o ai margini della regolarità, sottoposte alle logiche e alle speculazioni di un mercato duro e competitivo, che però è in grado di assorbire, anche se con fluttuazioni e flessibilità estreme, molta manodopera. Questo inserimento nel mondo produttivo avviene spesso in assenza di molte delle condizioni che dovrebbero garantire la vita del lavoratore. Il rapporto di lavoro non ha protezione giuridica perché si tratta di lavoro nero, all'immigrato manca spesso una casa, un'assistenza sanitaria, un normale inserimento scolastico per i propri figli. Il lavoratore straniero, di conseguenza si costruisce in maniera dicotomica un'immagine della nostra società, dove essa da un parte è ben pronta a utilizzare le sue risorse umane e professionali, mentre dall'altra è incapace di garantirgli pienamente i mezzi per un corretto e regolare inserimento. Questa situazione assume particolari aspetti e conseguenze per gli immigrati cinesi.

Come abbiamo visto, l'attività economica alla quale i cinesi emigrati danno vita si concretizza generalmente nella costituzione di piccole imprese su base familiare dedite al commercio, alla ristorazione o alla produzione artigianale. Negli insediamenti dell'area fiorentina prevalgono le piccole imprese per la lavorazione del cuoio e della pelle, mentre nel pratese si sono affermate aziende artigianali di confezioni o maglieria. Se analizziamo la zona di Prato possiamo constatare un continuo sviluppo di piccole imprese cinesi la cui produzione ha raggiunto livelli tali da rappresentare una vera e propria risorsa per l'economia dell'intero comparto pratese, indebolito in questi anni dalla crisi del tessile18. Nell'opinione comune, il successo dei cinesi viene attribuito ad una gestione "etnica" delle imprese che, scegliendo di agire nella irregolarità, sfuggono alle regole della concorrenza raggiungendo così un'alta produttività. Secondo questo modello interpretativo "etnico", i cinesi sceglierebbero di produrre con ritmi serratissimi anche in ore notturne, vivendo negli stessi locali dove lavorano e sottoposti a gerarchie che vedono in fondo alla piramide l'esistenza di veri e propri schiavi rappresentati dalla massa dei lavoratori clandestini. Il lavoro di analisi su migliaia di casi che per anni abbiamo condotto ha dimostrato invece che la realtà è fondamentalmente diversa e sicuramente più complessa.

Parlare di economia etnica può trarre in inganno se con questo termine intendiamo affermare che esiste un controllo completo della produzione del ciclo produttivo da parte degli stessi cinesi. Le aziende cinesi sono di proprietà di cinesi e da loro gestite, ma esse lavorano quasi tutte per imprese committenti italiane. Sono queste ultime, e non le "predisposizioni" etniche dei cinesi, a determinare in gran parte i ritmi e le condizioni di lavoro. I committenti di abiti da confezionare, ad esempio, per evitare scorte e le incertezze del mercato, esigono dai cinesi tempi strettissimi per la riconsegna della merce pronta. Se le ditte cinesi vogliono restare nel mercato non possono che ricorrere a ritmi di lavoro che per le corrispondenti aziende italiane non sono più accettabili. La crisi economica e la concorrenza scatenata dal tentativo di spuntare costi sempre più bassi da parte dei committenti rende poi conveniente ricorrere al lavoro dei clandestini. Il tutto va inserito in un giro di ordini e pagamenti prevalentemente in nero.

È solo in questa cornice che le caratteristiche "etniche" assumono importanza e significato. La frugalità dei cinesi, la coesione del gruppo familiare, le grandi energie e speranze alla base del progetto migratorio, rendono possibile l'adeguarsi alle dure condizioni del mercato. Ma i cinesi lavorerebbero volentieri cori ritmi meno serrati, in condizioni di maggiore regolarità e non certo in condizioni di clandestinità. Nello stesso modo non vivrebbero stipati nei capannoni dove anche lavorano, se potessero trovare sul mercato appartamenti da affittare a prezzi e condizioni ragionevoli. Ma il "mercato" offre loro vecchi e cadenti edifici industriali a prezzi altissimi o appartamenti affittati al nero o tramite falsi contratti di comodato. Queste condizioni di irregolarità o marginalità hanno ulteriori e devastanti effetti perché rendono praticamente impossibile per moltissimi cinesi dimostrare di possedere tutti quei requisiti richiesti dalle nostre leggi per regolarizzare la presenza degli immigrati. Il Decreto Dini e anche le regolarizzazioni previste dalla legge 98/40 prevedono che l'uscita dalla clandestinità sia possibile dopo la dimostrazione di possedere un regolare lavoro, un appartamento adeguato, un reddito certo o accertabile e così via. Purtroppo la stragrande maggioranza degli immigrati non ha niente di tutto questo. Pensare che esista sui grandi numeri una situazione diversa è una pura finzione. Di conseguenza, i cinesi hanno risposto alla finzione con altrettante finzioni. Hanno prodotto certificazioni di lavori fintamente regolari, di appartamenti esistenti solo sulla carta, di "prove di presenza" contraffatte. Il Decreto Dini, che non riconosceva agli immigrati la possibilità di lavoro autonomo ha costretto, per esempio, molti piccoli imprenditori cinesi a comprare false assunzioni come lavoratori dipendenti presso ditte cinesi già regolari. Le norme sui ricongiungimenti familiari e quelle della L. 98/40 hanno fatto sì che migliaia di immigrati dovessero in qualche modo procurarsi un numero enorme di contratti di affitto in una città come Prato dove la crisi degli alloggi è nota e affligge gli stessi italiani. Forse il legislatore non aveva di fronte a sé molte strade per individuare la "regolarità" degli immigrati e il suo compito era oggettivamente difficile. Ma, dall'altra parte, è altrettanto vero che la situazione di gran parte degli immigrati è oggettivamente "irregolare".

Lo scontro fra queste due contraddittorie realtà, quella immaginata dalla legge e quella effettivamente esistente, ha di conseguenza rafforzato fra gli immigrati la visione dicotomica della nostra società alla quale abbiano sopra accennato, a scapito della fiducia nelle istituzioni. Si sono però rafforzati anche tutti quegli elementi negativi propri della marginalità. Gli immigrati cinesi, cosa a loro molto congeniale, hanno capito che tutto si può comprare e che in fondo è molto più facile e redditizio fingere che adeguarsi davvero a percorsi di regolarizzazione contraddittori o addirittura impossibili. La regolarizzazione prevista dalle Legge 98/40 ha messo in luce un fenomeno che merita molta attenzione : la diminuzione delle domande di permesso di soggiorno per lavoro autonomo. Fino al Decreto Dini, uno dei problemi presentati con maggior frequenza dai cinesi alle istituzioni era quello della possibilità di poter avviare piccole imprese che, come abbiamo già detto, rappresentano la forma di attività economica dominante della diaspora e lo scopo ultimo della catena migratoria. Niente ci fa pensare che questa situazione sia cambiata ed anzi sappiamo che, sempre parlando del caso pratese, l'attività economica dei cinesi si svolge attraverso numerose e minuscole ditte di carattere familiare. Molti cinesi probabilmente hanno di fatto rinunciato alla regolarizzazione della loro posizione data la complessità di percorsi burocratici nebulosi e contraddittori.19 Siamo quindi autorizzati a pensare che un buon numero di piccoli imprenditori ritenga più conveniente ricercare una propria autonomia imprenditoriale con accordi all'interno della comunità, scelta che comporta il rafforzamento e il potere delle gerarchie interne e rende impossibile l'uscita dalla marginalità.

La chiusura all'interno delle proprie dinamiche etniche favorisce altri due processi contrari al corretto inserimento nella nostra società. L'azione di tutela sindacale dei lavoratori dipendenti si è fatta in queste condizioni molto più difficile e, anche in questo campo, l'utilità dei propri valori tradizionali viene riaffermata e spinge i cinesi ad accettare regole di lavoro molto particolari. Il rapporto di lavoro si basa su un semplice patto molto "cinese" dove gli utili derivanti dalla prestazione di manodopera (regolata dal cottimo) sono divisi nel migliore dei casi al 50% col datore di lavoro, mentre al dipendente spettano anche il pagamento dei contributi previdenziali e oneri vari, compreso a volte una percentuale sul lavoro del commercialista che si presta a fare delle buste paghe del tutto teoriche; al datore di lavoro però compete, in genere, il reperimento dell'alloggio.20 Proprio a causa della irregolarità complessiva delle aziende e degli stretti margini di profitto è difficile l'avvio di una vertenza sindacale condotta secondo i nostri parametri. I lavoratori cinesi di fronte alla prospettiva di provocare grandi difficoltà per le aziende e impediti dai numerosi legami che li fanno dipendere dalle loro gerarchie interne per la regolarità formale della loro posizione rispetto alle leggi (o perché protetti nella loro clandestinità), stanno sempre più preferendo ricorrere ai meccanismi di mediazione interna piuttosto che all'intervento dei sindacati. Le aziende, da parte loro, hanno in effetti margini di manovra molto ridotti perché gli imprenditori, pur essendo abili e tenaci (specialmente nelle condizioni poste dal lavoro in nero), non possiedono la professionalità e le conoscenze per individuare forme d'impresa idonee a farli uscire dalla irregolarità conservando sufficienti margini di profitto. Molto spesso i consiglieri degli imprenditori sono "commercialisti" che con schemi rozzi di gestione aziendale influiscono sull'amministrazione di centinaia di piccole imprese, ricavando discreti utili ma contribuendo a mantenere le imprese nella marginalità21.

In questa situazione, caratterizzata dalla marginalità e dal bisogno di procurarsi con il denaro i requisiti richiesti dalla legge, la comunità cinese è stata avvicinata da una serie di persone prive di scrupoli che approfittando della intrinseca ricattabilità di molti cinesi e delle loro aziende, intrecciano ai loro danni un numero non irrilevante di truffe o raggiri facilitati dal fatto che i cinesi, specialmente all'inizio della loro attività, non sono al corrente di tutti gli aspetti, leciti o meno, che regolano da noi la circolazione del denaro. Molti, specialmente qualche anno fa, sono stati i casi di assegni falsi, ordini non pagati, cambiali non regolari che i cinesi ci hanno fatto conoscere. Non tutti questi casi sono stati denunciati all'autorità, sempre a causa della posizione irregolare delle aziende, ma anche quei pochi casi denunciati difficilmente hanno visto gli organi inquirenti agire con quell'energia che sarebbe dovuta derivare da una piena consapevolezza della importanza del problema.22 Oltre alle truffe subite, sono stati denunciati dai cinesi molti atti di aggressione, piccoli furti o estorsioni, ad opera soprattutto di piccole bande di giovani italiani. Le molestie e i furti di orologi o telefonini sono molto di più di quelli denunciati alle autorità di pubblica sicurezza o di quelle riportate dalla stampa, a testimoniare una crescente sfiducia nella tutela che le nostre istituzioni sono capaci di offrire. Nei primi mesi del 1999, alcuni cinesi, a nome di una loro associazione, hanno convocato una conferenza stampa per denunciare la gravità del fenomeno che dimostra l'esistenza di crescenti tensioni etniche.23

Allo sviluppo di queste dinamiche sorte nel rapporto fra società d'accoglienza e immigrati si assommano le conseguenze di altri fattori propri della dimensione storica dell'immigrazione cinese di fine secolo.

Innanzitutto col passare degli anni, la natura strettamente familiare della catena migratoria si è modificata. Arrivano spesso giovani che non hanno nessun parente già presente in Italia; essi, privi della solidarietà familiare, si possono trovare in posizioni deboli e marginali rispetto agli emigranti di vecchia data. La solidarietà etnica è fortemente contrastata dalla concorrenza interna, inasprita a sua volta da difficoltà di tipo economico, come quelle presentatisi a Prato nel settore delle confezioni per l'alto numero delle ditte esistenti in un momento di crisi della domanda. Se la concorrenza è forte, il lavoro è poco, i costi per "acquistarsi" la regolarità alti, allora le difficoltà degli immigrati di far fronte ai debiti contratti per giungere in Italia diventano quasi insormontabili. Aumenta così la ricattabilità nei confronti delle reti che hanno permesso agli immigrati di arrivare in Europa. Oltretutto col passare degli anni e con l'ingrandirsi del business, queste reti tendono inevitabilmente a perdere la caratteristica iniziale di gruppi nati anche per motivazioni di solidarietà etnica, per diventare invece strutture che si preoccupano solo dei profitti che il transito degli immigrati procura. È probabile che alcuni segmenti delle reti per il passaggio degli immigrati si specializzino nella gestione del redditizio traffico assumendo le caratteristiche di organizzazioni prive di scrupoli che si criminalizzano sempre di più anche per i necessari contatti e legami con la malavita dei luoghi in cui operano.

Anche la società di partenza si è nel frattempo modificata. Le differenze sociali sono aumentate; all'interno di una stessa provincia, come lo Zhejiang o il Fujian, vi sono ritmi di sviluppo diversi che creano zone, sia urbane che agricole, emarginate e colpite dalla disoccupazione ed altre, invece, molto ricche e in rapidissimo sviluppo. Di fronte a nuove tensioni sociali, i valori collettivi e il controllo sulla società tipico dell'epoca maoista sono stati messi in crisi dalla Cina denghista; la criminalità nella Repubblica Popolare, per ammissione dei suoi stessi governanti, è in aumento. Tutto questo ha ovvie ripercussioni sui meccanismi che sono all'origine dell'emigrazione e l'emigrante più debole può divenire merce destinata all'arricchimento di affaristi privi di ogni scrupolo.24

In base ai dati desunti da anni di lavoro, non crediamo però, come lo stereotipo vuole, che il rapporto fra il cinese immigrato e il suo laoban, il datore di lavoro, sia un rapporto fra schiavo e padrone. Pensiamo invece che nella maggioranza dei casi si formino fra imprenditori e operai accordi, improntati ad una estrema flessibilità ma che sono accordi reciprocamente riconosciuti. Il dipendente sa che emigrando ha contratto un debito che deve restituire lavorando. Molti cinesi da noi interpellati ci hanno confermato che in due o tre anni di lavoro riescono a ripagare i loro debiti per essere poi in grado di avviare una propria attività, scopo ultimo del loro progetto migratorio. L'operaio inoltre non è legato esclusivamente ad un solo laoban; il suo rapporto con lui è elastico e viene quasi sempre rinegoziato più volte l'anno. Il lavoratore dipendente, una volta adempiuto ai patti stipulati, è libero di ricercare altrove condizioni di lavoro più favorevoli. Inoltre, proprio per l'estrema flessibilità del lavoro nelle ditte cinesi, gli operai passano da un'impresa all'altra anche nel giro di pochi giorni, a secondo delle necessità della produzione. Eventuali difficoltà e contrasti sono poi ammortizzati da intermediazioni e garanzie che scaturiscono da legami familiari e da altri tipi di "guanxi", cioè relazioni che presuppongono mutui benefici, la vera quintessenza dei rapporti sociali fra i cinesi. Dove, come a Prato, vi è un intervento delle Istituzioni e dei Sindacati, i meccanismi tradizionali di mediazione cominciano a venire affiancati, e a volte anche sostituiti, dalle nostre regole in materia di lavoro, a testimonianza della possibilità di superare una presunta barriera etnica e culturale. Negli ultimi due o tre anni tutti quei fattori ai quali abbiamo prima accennato (crisi economica, forte concorrenza, rapporti in nero con i committenti, mercato dei requisiti per la regolarizzazione), hanno rafforzato la posizione e il potenziale di ricatto dei datori di lavoro più forti.

Nella comunità di immigrati si sono quindi trovati a coesistere personaggi autorevoli e in posizioni di potere e con forti capacità di ricatto e una maggiore quantità di irregolari o di emarginati impoveriti dalle difficoltà economiche. Il giro di affari in nero ha favorito il contatto con ambienti privi di scrupoli della società d'accoglienza, attirati dalle opportunità che gli immigrati rappresentavano per mettere insieme facili e rapidi guadagni (per le regolarizzazioni e i ricongiungimenti familiari si è venduto ai cinesi di tutto: falsi contratti di comodato o di affitto, falsi certificati medici, false lettere per attestare la presenza in Italia, false promesse di assunzione ecc.). Tutto questo costituisce ovviamente un terreno adatto allo sviluppo di ambienti criminali sullo sfondo di una crescente sfiducia verso il nostro sistema. Infatti, nel corso degli anni durante i quali abbiamo operato e studiato nella comunità cinese di Prato, questa serie di fenomeni hanno esercitato un'influenza negativa sull'immagine che gli immigrati si sono fatti della nostra società. Di conseguenza, essi si stanno sempre di più chiudendo in se stessi con un processo simile a quello che in altri paesi ha generato Chinatown con tanto di criminalità organizzata.

A conferma dello sviluppo di fenomeni di autoreferenzialità etnica constatiamo che negli ultimi due anni si è accresciuto il ruolo delle associazioni fondate dagli immigrati stessi. Queste associazioni, forma di organizzazione tipica della diaspora, sono sorte dovunque i cinesi si siano insediati. L'importanza del loro ruolo è variato in conseguenza delle scelte politiche e culturali delle società di accoglienza. In alcuni casi, come per esempio negli Stati Uniti, esse sono diventate veri e propri strumenti di autogoverno delle comunità25. Non è comunque corretto, come fanno alcuni, considerare tout court queste associazioni come una sorta di cupola affine o vicina ai vertici delle organizzazioni mafiose. Esse rappresentano un fenomeno diverso e più complesso. Le associazioni sono innanzitutto espressione di una cultura e di una visione particolare dei rapporti sociali, regolati da gerarchie e divisione di ruoli.26 Chi assume cariche dirigenti nelle associazioni è considerato persona di prestigio e punto di riferimento per le autorità politiche sia in patria che all'estero, tanto che a volte per arrivare a ricoprire cariche importanti i candidati sono disposti a sborsare rilevanti somme di denaro. Le associazioni sono molto spesso legate all'origine geografica degli associati e tendono a rappresentare e tutelare gli interessi dei compaesani nei confronti anche delle autorità consolari o diplomatiche cinesi all'estero. A Prato, per esempio, sono state attive per alcuni anni due associazioni di cinesi provenienti dallo Zhejiang ed ultimamente ne è sorta un'altra di cittadini dello Fujian, di più recente immigrazione, che hanno sentito il bisogno di essere più rappresentati sia nei confronti delle locali autorità consolari cinesi sia presso le autorità italiane, soprattutto per quanto riguarda le pratiche amministrative per la regolarizzazione. I dirigenti delle associazioni tendono a riprodurre all'estero un ceto sociale tipico della società cinese, quello dei notabili che hanno da sempre costituito una sorta di cuscinetto fra l'autorità dello stato e la società. Sono a volte cinghia di trasmissione dei voleri dell'autorità e garanti dell'ordine sociale, altre volte contrappeso e limite alle decisioni dell'autorità stessa27.

In Italia, il rafforzamento e la visibilità maggiore del ruolo delle associazioni, che sembrano ora godere anche dell'appoggio delle autorità consolari, sono indubbiamente sintomo di una forte pulsione verso l'autogoverno e la autoreferenzialità e quindi prova del fallimento della nostra società nell'assicurare le condizioni per un corretto inserimento degli immigrati. Alcuni episodi criminali verificatisi a Roma che vedevano la partecipazione di dirigenti di un'associazione spinge molti a dare di questo fenomeno una lettura in chiave solamente criminale, che riteniamo però riduttiva28. Appunterebbe l'attenzione sul paradigma etnico, creerebbe schemi troppo derivati da esperienze di altri paesi e farebbe dimenticare la necessità di valutare prima, e di correggere poi, altri fattori che spingono i cinesi verso l'autogoverno: l'inefficacia e le contraddizioni delle politiche verso l'immigrazione, il bisogno degli immigrati di difendere e accrescere il benessere e la ricchezza che il loro lavoro produce.

Il fenomeno delle Associazioni ha quindi bisogno di una lettura che tenga conto di quei molteplici elementi che abbiamo visto concorrere nel determinare le caratteristiche del fenomeno migratorio cinese: la dimensione etnico-culturale e la capacità di interpretarla, le interazioni con la società d'accoglienza e i mutamenti della diaspora cinese.

2.4 La criminalità. Osservazioni su alcuni casi

Il problema della criminalità, particolarmente complesso, è oggetto di studi più approfonditi che stiamo affrontando assieme ad altri ricercatori29. Qui ci proponiamo di verificare l'utilità di applicare in maniera più specifica le griglie interpretative fino a qui messe a punto e, di conseguenza, alle indagini di polizia. Per farlo in maniera sintetica ed esemplificativa intendiamo esaminare alcuni dati che sono emersi in un importante processo che si è concluso nel maggio di quest'anno a Firenze con la condanna in primo grado di alcuni cittadini cinesi in base all'art. 416 bis C.P e in un altro processo tenuto a Roma nel 1998 e conclusosi con la stessa condanna.30

Rimandando per un quadro generale e statistico della criminalità cinese in Italia ai saggi indicati nella precedente nota, ricordiamo solamente il basso tasso di criminalità fra i cittadini di origine cinese rispetto a quello di altri stranieri. I reati di cui sono accusati sono nella maggioranza dei casi connessi al traffico di clandestini, all'impiego di manodopera irregolare, seguono poi la falsificazione di documenti, l'istigazione alla corruzione, i sequestri di persona. In maniera maggiore rispetto ad altri immigrati, i cittadini cinesi sono accusati di reati associativi, associazione a delinquere e associazione a delinquere di stampo mafioso.

Ci limitiamo a questi brevi accenni, sottolineando che le sentenze (di primo grado) di Roma e di Firenze (come altre più recenti di Milano), potrebbero segnare l'affermarsi di una tendenza a considerare prevalente se non esclusivo il modello della criminalità organizzata di natura mafiosa per analizzare le attività criminali all'interno dell'immigrazione cinese, col rischio di lasciare in secondo piano, ai fini della conoscenza, della repressione e della prevenzione, molti aspetti di un fenomeno più complesso, meno rigidamente inquadrabile e in costante evoluzione.

Nel processo di Firenze contro Xiang Hezhi ed altri, la cui sentenza è stata emessa il 24 maggio del 1999, il Pubblico Ministero iniziava la sua requisitoria finale sottolineando l'estrema difficoltà dell'indagine che era stata alla base del processo. Gli investigatori, diceva il magistrato, si erano dovuti muovere in una realtà sconosciuta, quella appunto della cultura e dell'immigrazione cinese, definita un grande fiume giallo che scorre verso di noi. Un importante investigatore nel processo di Roma contro Lin Xia ed altri del 1998, diceva: "La comunità cinese è una comunità impermeabile, una comunità completamente isolata dal tessuto sociale e quindi non c'è da parte loro alcuna fiducia ....nelle forze di polizia. C'è un clima omertoso, a ciò si aggiunge un problema di lingua, una differente visione del bene e del male giuridico...".31

Queste citazioni ci sembrano molto adatte per provare la pertinenza di alcune delle riflessioni che abbiamo svolto per sottolineare l'importanza del tipo di approccio "culturale" nel determinare particolari atteggiamenti verso i fatti indagati. Nelle parole del magistrato e dell'investigatore c'è quasi un'assunzione di inconoscibilità, da cui di conseguenza scaturisce un senso di minaccia e, inevitabilmente, la caratterizzazione etnica del fenomeno : "la comunità completamente isolata dal tessuto sociale", il colore "giallo" che ancora una volta ritorna.

Il problema della conoscenza, della difficoltà di trovare gli strumenti per analizzare comportamenti e valori, la mancanza di una strumentazione culturale, di una metodologia adeguata è un elemento che è stato dominante in questi processi. Un investigatore che ha contribuito in maniera determinante a formare il quadro generale in cui collocare i fatti dell'inchiesta, ci diceva come era stato complesso arrivare a possedere un minimo di strumenti per capire un mondo fino ad allora completamente ignorato e sconosciuto. Ammetteva di aver dovuto da solo formarsi una nuova professionalità, partendo addirittura dall'acquisto in proprio di una cartina della Cina per poter almeno collocare nello spazio la provincia dello Zhejiang, luogo di origine degli indagati. Il problema della lingua si è dimostrato particolarmente complesso, a partire dalla disponibilità di interpreti (un interprete usato in una prima fase dell'indagine è passato poi al ruolo di imputato dopo aver rivestito quello di collaborante).

La mancanza di nozioni appropriate sulla lingua cinese ha creato, nel dibattito processuale come nelle indagini, una vera e propria babele intorno ai nomi delle persone coinvolte. Del tutto assente qualsiasi riflessione organica sull'uso corretto dei sistemi di trascrizione e sull'impiego particolare che fanno i cinesi del nome proprio e dei soprannomi; completamente ignorato il ricorso agli ideogrammi come unico metodo certo per l'identificazione dei nomi.32 La difficoltà del passaggio dall'italiano al cinese rende, secondo noi, necessaria una riflessione anche sull'uso del solo interprete di madrelingua nei procedimenti giudiziari e nelle indagini. Sarebbe necessario il contemporaneo uso di un interprete italiano, e non solo, per aiutare la soluzione dei problemi di natura linguistica.33 Risultava infatti evidente nel dibattito la difficoltà di tradurre non solo la lingua ma molto spesso i concetti e i contenuti che stavano dietro a certe parole.

Specialmente nel campo del diritto, ma anche in quello dei valori della vita individuale e familiare, la diversità fra noi e i cinesi è tale che la reciproca comprensione ha bisogno di un'opera anche di intermediazione culturale.34

Il senso della famiglia e del gruppo, la gerarchia e il ruolo degli anziani hanno fatto da sfondo alle vicissitudini processuali e certamente hanno influito, come una sorta di aggravante per così dire naturale o culturale (e comunque onnipresente), per ricostruire quell'ambiente sociale nel quale poi è stato indubbiamente più facile e plausibile arrivare all'incriminazione per associazione di stampo mafioso.

Nel processo di Firenze è stato esplicitamente portato a prova della mafiosità degli imputati il fatto che alcuni di essi fossero coinvolti in un intervento, a nome di un'Associazione di cittadini cinesi, nel contrasto familiare fra due coniugi. Non si vuole assolutamente entrare nel merito di questa affermazione (che peraltro nel contesto in cui sono stati presentati i fatti può essere aderente alla realtà dei fatti) ma, visto le cose che abbiamo detto in precedenza, un giudizio del genere non può essere né scontato né automatico.35

Nello stesso modo crediamo che sia assolutamente da evitare qualsiasi automatismo nel giudicare un altro aspetto messo in luce dal dibattito processuale di Firenze, e relativo, questa volta, al rapporto fra immigrati e società locale. La pubblica accusa aveva autorizzato delle indagini patrimoniali a carico del maggior indiziato, accusato di esser il capo di una famiglia mafiosa. Dalla analisi dei movimenti bancari, i versamenti nei conti correnti delle ditte intestate all'imputato risultavano caratterizzati da somme in contanti o assegni senza beneficiario o con molte girate. Il PM considerava questo come prova evidente dei traffici illeciti in cui i cinesi in questione erano coinvolti. Basti pensare invece a ciò che abbiamo detto circa la qualità dell'inserimento economico dei cinesi nel tessuto produttivo locale per considerare questa situazione ovvia e normale : gran parte delle piccole imprese cinesi si muove nel lavoro nero e in situazione di mercato estremamente marginale, dove è normale l'uso del contante o di assegni non regolari. Ovviamente anche in questo caso non vogliamo e non possiamo dare un giudizio di merito sul ragionamento dell'accusa; intendiamo solo sottolineare come in effetti, potrebbe essere molto facile formulare giudizi parziali se non si è svolto prima un ragionamento metodologico corretto.

Gli esempi che abbiamo ora finito di esporre possono apparire per certi aspetti discutibili. Essi non sono inseriti in analisi più complete ed esaurienti (che intendiamo rimandare a prossime trattazioni) ma hanno comunque il merito, secondo il nostro parere, di sottolineare come vi sia bisogno di conoscere e di interpretare meglio il contesto etnico-culturale e come, soprattutto, non debbano essere lasciati solo sullo sfondo i rapporti fra società d'accoglienza e immigrati: la comunità cinese, nonostante il suo alto grado di autoreferenzialità non vive "isolata dal tessuto sociale" come ha detto l'investigatore sopra citato.36

Proprio su questo ultimo aspetto vorremo ancora soffermarci.

L'impostazione del processo di Firenze ci sembra abbia creato un'immagine della criminalità cinese troppo caratterizzata da una sorta di autoreferezialità. I gruppi ritenuti mafiosi sono stati presentati in lotta e in antagonismo fra loro per il mantenimento di un potere le cui finalità non ci sembrano mai essere state esplicitate a fondo e con chiarezza. Il traffico di clandestini, le estorsioni e il gioco d'azzardo, il tris di attività sempre menzionato dai collaboranti per descrivere le attività delle bande, è stato come un ossessivo ritornello che ha contribuito a presentare le attività criminali quasi avulse sia dal contesto complessivo dell'immigrazione sia dalle dinamiche esistenti fra immigrazione e società d'accoglienza. Per evidenziare forse la natura delle azioni criminali si è operato una sorta di astrazione che, salvo rari accenni, non è riuscita a calare il contesto criminale nel cuore vero delle comunità di immigrati cioè le attività economiche e imprenditoriali. Lo scopo del potere mafioso, se è mafioso, non può che essere il controllo delle attività economiche e di conseguenza il controllo sociale e politico della comunità nella quale i mafiosi intendono agire. Ci pare quindi che le indagini e i processi abbiano appena sfiorato questo terreno che presuppone attività e mezzi più differenziati e raffinati. Inoltre, sfumandosi l'analisi su queste tematiche, sono rimasti totalmente fuori dall'attenzione altri importanti legami che le comunità di immigrati hanno con la società d'accoglienza. I traffici di clandestini sono sicuramente un campo d'azione remunerativo per i gruppi criminali. Ma il commercio di manodopera è solo uno strumento per l'attività imprenditoriale dei cinesi. È un sostegno per così dire fisiologico alla diaspora, un mezzo per arrivare ad affermare le potenzialità e i progetti economici degli immigrati. È un'attività che ha sicuramente regole e logiche proprie (anche spietate) ma che è, a sua volta, legata a bisogni e finalità diverse. Oltretutto il legame fra il clandestino e colui che organizza l'ingresso nel paese di arrivo o di transito consiste in una sorta di contratto riconosciuto valido da ambo le parti. Contravvenire alle regole del patto può essere pericoloso, ma anche questo fa parte dell'accordo concluso con mutuo beneficio37. Ritenere che esiste un rapporto ineluttabile ed automatico fra l'organizzazione del traffico di clandestini ed un'attività di tipo criminale-mafioso nell'ambito dell'immigrazione cinese può portare, nelle indagini di polizia, a delineare scenari parziali e a sottovalutare l'importanza di altri fenomeni che condizionano dall'esterno il traffico di manodopera, con conseguenze sia sul piano delle indagini stesse che su quello della prevenzione. La qualità e la quantità del traffico di manodopera è condizionato da fattori propri del mercato in cui operano le ditte cinesi e dei mutamenti sociali nei luoghi da dove partono gli immigrati. Il vero potere sui clandestini non si acquisisce solo tramite il trasporto del clandestino, ma soprattutto nel controllo di quel mercato che abbiamo detto esistere per il possesso dei requisiti che permettono la regolarizzazione. La condizione di clandestino è un passaggio nella vita dell'immigrato, il cui scopo principale è la regolarizzazione. Sempre il già citato investigatore del processo di Roma ha detto che i "clandestini si stanziano su determinate aree geografiche, dispongono di strutture entro le quali si nascondono e vivono la loro vita completa all'interno di questa comunità". Portare alle estreme conseguenze un'analisi del genere comporta la creazione di quel modello interpretativo che sottintende la centralità del rapporto schiavo-padrone, che nella nostra opinione, per i fatti da noi conosciuti e prima esposti, è più uno stereotipo che una realtà. Per un altro verso, questo modello sottovaluta le dinamiche che si creano nel flessibile e mobile scenario in cui si muove il lavoro dei cinesi e nel quale si radicano le più forti motivazioni ad agire nell'illecito.

Le considerazioni ora svolte sono più che altro il frutto di un ragionamento che si è sviluppato dalle premesse metodologiche esposte nelle parti precedenti ed hanno principalmente la funzione di illustrare, come più volte ripetuto, la necessità di ampliare gli strumenti di analisi. Le informazioni tratte dal nostro lavoro con i cinesi, e che abbiamo parzialmente riportato in queste pagine, tendono a confermare la validità dell'approccio da noi proposto soprattutto dal punto di vista dell'analisi. L'attività di repressione e di contrasto è ovviamente per molti aspetti diversa da quella rivolta allo studio e alla conoscenza della criminalità come fenomeno inserito in un quadro sociale più ampio. Ma nel caso della criminalità cinese, riteniamo che anche le indagini di polizia giudiziaria (con ciò che questo comporta per processi di formazione del personale) debbano tenere conto della necessità di affinare le categorie analitiche, proprio per evitare il rischio che le indagini non riescano a coprire tutta la complessità del fenomeno e le dimensioni della sua pericolosità. Non vorremmo infatti che le osservazioni fatte a proposito di indagini e processi appaiano come una sorta di ridimensionamento del problema della criminalità di origine cinese. Siamo infatti convinti che, a differenza di qualche anno fa, questo fenomeno possa diventare più rilevante e pericoloso perché esso tende ora a svilupparsi all'interno di quel processo di separazione e di autoreferenzialità più ampio che stanno attraversando le comunità cinesi a causa dei molteplici fattori in precedenza esposti. Tale processo è accompagnato dal rafforzarsi di forti differenzazioni sociali all'interno delle "comunità".

Anche la letteratura sulla criminalità cinese, oltre alle informazioni da noi raccolte, ci pare suggerire l'utilità di approcci molto articolati. La sola presenza di vaste e rigide organizzazioni verticistiche, parte organica di un universo dominato dalla mafia delle Triadi, è ritenuto un po' una forzatura da parte di alcuni che parlano invece dell'esistenza di strutture più agili e informali, che si formano anche occasionalmente, fra uomini legati da appropriate guanxi, intorno alla prospettiva di un business.38 Organizzazioni in fondo più moderne, meno legate all'antico cliché delle triadi ma ben più agili nell'adattarsi alle occasioni e alle contraddizioni offerte dall'interazione fra comunità d'immigrati e società d'accoglienza, in un complesso intreccio che necessita appunto di studio e di accurati strumenti metodologici.

MONDO CINESE N. 105, SETTEMBRE 2000

Note

1 La cifra è riportata in Benton G. e Pieke F. The Chinese in Europe, Macmillan Press, London, 1998. Questo recente lavoro contiene una delle migliori sintesi del problema con i contributi di importanti studiosi, quali Li Minghuan e Flemming Christiansen.
2 Per questa esposizione abbiamo la sintetica ed efficace ricostruzione di Frank Pieke nella sua utilissima introduzione alla già citata opera alla quale rimandiamo per approfondimenti.
3 Luigi Tomba ha esposto questi problemi nella sua relazione al convegno tenutosi a Prato l'11-12 aprile 1997 sul tema "Immigrazione cinese e istituzioni locali. Tre esperienze a confronto: Ungheria, Olanda, Italia" organizzato dal Centro Ricerca e Servizi per l'Immigrazione del Comune di Prato da noi diretto. Oppure vedi Tassinari A., Tomba L., "Zhejiang-Pechino, Zhejiang-Firenze. Due esperienze migratorie a confronto", in La Critica Sociologica, N° 117-118, 1996.
4 Il fatto di rivolgersi ai cinesi immigrati col termine comunità non deve far ignorare le diversità dei loro vari insediamenti territoriali e soprattutto l'esistenza di contrasti di interesse fra strati sociali differenti che compongono la diaspora e caratterizzano, come tutte le altre immigrazioni, anche quella cinese.
Le differenzazioni sociali all'interno delle "comunità" sono anzi un fenomeno di importanza crescente.
5 L'esperienza di Prato è quella che più abbiamo studiato, dato che dal 1993 il Comune di Prato per affrontare il problema dell'immigrazione si orientava per l'istituzione di un organismo che si doveva occupare dei molteplici aspetti connessi all'immigrazione. Nasceva così un Centro in collaborazione con l'Università di Firenze (Centro Ricerca e Servizi per l'Immigrazione) strutturato per essere da una parte uno strumento di ricerca, dall'altro un punto di erogazione di servizi agli immigrati, dove i dati per la ricerca venivano desunti dall'analisi di tutti i problemi posti dagli immigrati durante l'erogazione dei servizi di consulenza (3000-4000 consulenze annue per più di mille utenti. Dati e analisi più dettagliate sono pubblicate in reports annuali). Il momento empirico che sta alla base di questo studio è costituito appunto dal contatto continuo con gli immigrati che ha reso possibile, con migliaia di consulenze loro fornite in lingua cinese, avere a disposizione un'enorme mole di dati. A Prato si è sviluppato, per iniziativa del Comune e della Prefettura, anche un coordinamento fra tutti gli enti interessati all'immigrazione che ha anticipato di due anni lo strumento del coordinamento territoriale previsto dalla Legge 98/40. I dati raccolti provengono anche dall'analisi dei problemi posti dall'immigrazione nelle varie istituzioni ed enti del territorio. L'aspetto statistico e demografico è stato affrontato con una apposita banca dati territoriale.
6 Per il ragionamento di Christiansen vedi il suo saggio "Chinese Identity in Europe" nell'opera sopra citata di Benton e Pieke, pp. 42-63, oppure il suo intervento al Convegno sull'immigrazione cinese in Europa tenutosi a Prato nell'aprile 1997 e sopra citato.
7 La ricerca è stata svolta dal Centro Ricerca e Servizi per l'Immigrazione di Prato, in particolare ad opera della Dott.sa A. Marsden e dell'autore, ed ha avuto per oggetto le cronache locali delle seguenti testate "La Nazione", "Il Tirreno", "La Repubblica", "L'Unità" di Firenze e Prato dal 1988 al 1994, seguita da un'altra ancora da elaborare completamente sulla stampa di rilevanza nazionale dal 1994 al 1997. Parte dei risultati della ricerca sono comparsi su A. Marsden, " Le comunità cinesi viste dalla stampa: informazione e stereotipi " in A. Ceccagno (a cura di) "Il caso delle comunità cinesi: Comunicazione interculturale ed istituzioni", Armando Editore, Roma, 1997 oppure nelle analisi pubblicate annualmente dal Centro di Prato.
8 A. Marsden,op. cit. p.272.
9 Ibidem, p. 212
10 Il riferimento all'identità culturale cinese per tracciare il quadro della criminalità era particolarmente sottolineato dalla tendenza ad attribuire tout court alle società segrete derivate dalle Triadi il controllo della malavita organizzata dando per scontato anche la presenza degli antichi e tradizionali riti di iniziazione e della antica simbologia. La certezza dell'origine etnica dell'attività criminale organizzata si ritrova anche in uno studio di qualche anno fa messo a punto dalla DIA; in esso si asseriva che proprio lo scarso numero di crimini attribuiti ai cinesi era il risultato della capacità criminale della mafia cinese di celare la propria esistenza.
11 Possiamo qui solo accennare al problema. La trascrizione dei nomi anche da parte delle autorità cinesi che rilasciano i passaporti comporta a volte degli errori. È possibile comunque con delle semplici tabelle scoprire gli errori di trascrizione in Pinyn, ma la correzione dell'errore può esser solo fatta ricorrendo al carattere da trascrivere. Abbiamo avuto modo di esporre diffusamente tale problema in uno studio compiuto su richiesta della Prefettura di Firenze ed inviato al Ministero degli Interni. In tale scritto si analizzava un metodo di controllo della trascrizione suggerito sperimentalmente dalla DIA che abbiamo però ritenuto troppo complesso e di difficile applicazione. Come esempio di metodi errati usati da forze di polizia, si può ricorrere ad una recente fotografia uscita su "Il Venerdì" di "La Repubblica" del febbraio del 1999, dove si vede un cinese che tiene in mano una lavagnetta dove gli agenti che lo hanno fermato gli hanno fatto trascrivere in caratteri latini il suo nome. Tale metodo avrebbe avuto un'utilità se al cinese fosse stato anche chiesto di scrivere in caratteri cinesi il proprio nome, facendo poi controllare la trascrizione da un interprete. La trascrizione sulla lavagnetta (arrangiata sul momento dal cinese che probabilmente anche in buona fede aveva tentato una corretta trascrizione), non era infatti riconducibile a nessun metodo conosciuto ed era quindi assolutamente inservibile. Solo con un'apposita formazione si possono far superare queste difficoltà agli operatori delle forze di polizia. Non è ovviamente necessario che essi imparino il cinese, ma solo che facciano proprie alcune nozioni sulla Lingua cinese e sui metodi di trascrizione.
12 A Prato, il Centro del Comune, la Caritas e la CISL che hanno punti di consulenza che operano in lingua cinese, così come il Comune e la CNA di Bologna, registrano migliaia di consulenze ogni anno. Il Centro di Prato pubblica ogni anno relazioni dove sono monitorate e analizzate queste consulenze. Gran parte delle richieste dei cinesi riguardano problemi relativi alla loro regolarizzazione, al lavoro, alla scuola e alla casa. Dalla loro analisi risulta evidente una precisa volontà di inserirsi regolarmente e per lungo periodo nel tessuto sociale e produttivo della nostra società. È significativo che una delle loro più comuni richieste è quella di poter frequentare corsi di lingua italiana. Si rimanda per queste documentazioni alle pubblicazioni annuali del Centro di Prato. I dati statistici sulla popolazione straniera di Prato e quelli relativi alle consulenze sono interrogabili sulla rete civica di Prato, (Prato multietnica; www.comune.prato.it/immigra).
13 Il trentennio maoista ha ancora di più allontanato i cinesi dal diritto, considerato come vestigia dell'inegualitarismo dello stato borghese, mentre l'enfasi che si dava alla "politica" o alla "produzione al primo posto" sottolineavano una visione estremamente pragmatica dello sviluppo. Con Deng Xiaoping e il suo invito ad arricchirsi rivolto alle famiglie cinesi, si realizza una continuità ancora maggiore con la cultura tradizionale.
14 La solidarietà familiare spiega in molti casi la facilità che spesso mostrano i cinesi di disporre di capitali. Molti di loro ci hanno detto che le famiglie nella Cina di oggi, caratterizzate da un forte sviluppo, non hanno difficoltà insormontabili a mettere insieme somme relativamente importanti. Ovviamente questo non riguarda tutte le famiglie, esiste un'emigrazione povera e una con capitali.
15 Vogliamo citare a questo proposito un aneddoto che ci pare abbastanza significativo. Una coppia di giovani cinesi, clandestini che hanno attraversato periodi di estrema difficoltà nel tentativo di regolarizzarsi, andato dopo lungo tempo a buon fine, avevano chiamato il proprio figlio, nato quando il padre era assente dall'Italia per un provvedimento di espulsione, col nome italiano del santo patrono della città in cui abitavano e col nome cinese composto dal carattere Yi col quale si scrive Italia e col carattere Zhong col quale si scrive Cina. Quasi tutte le famiglie cinesi iscrivono all'anagrafe i propri figli con un nome italiano e, nella tradizione cinese, il nome proprio ha anche un significato augurale.
16 Basti pensare che solo con i recenti provvedimenti normativi si prevede la necessità di tradurre in varie lingue le norme che riguardano gli immigrati. Da poco abbiamo visto circolare opuscoli del Ministero dell'Interno redatti in più lingue e diffusi a livello nazionale, fra le quali non è presente, per quanto sappiamo, il cinese. Sarebbe fra l'altro più logico ed economico che vi fosse un servizio di traduzione centralizzato per divulgare i più importanti provvedimenti e soprattutto le loro interpretazioni piuttosto che impegnare centinaia di istituzioni locali a produrre materiale tradotto, con interpretazioni a volte non omogenee.
17 Vedi per questo aspetto anche C. Marotta, "L'immigrazione clandestina in Italia" in "Per Aspera ad Veritatem", Roma, Anno III, N°7, 1997.
18 Il settore delle confezioni e della maglieria, costituito quasi per la totalità da imprese cinesi (intendendo quelle di proprietà di cittadini cinesi o che hanno cariche sociali rivestite da cinesi, circa 1000 nel 1998 contro le circa 500 del 1997) sta superando per produzione la zona di Arezzo, tradizionalmente la più forte nel settore in Toscana e sta raggiungendo i livelli di alcuni comparti dell'Emilia. Le poche e principali ditte committenti sono italiane.
19 Secondo informazioni direttamente ricevute o anche da quelle trasmesseci da altri enti o istituzioni che forniscono assistenza agli immigrati (Caritas, Sindacati ecc.) è voce diffusa fra i cinesi che nelle forze dell'ordine vi sono persone disposte a farsi pagare favori per il disbrigo delle pratiche burocratiche. Possiamo solo riportare queste voci senza prove evidenti della loro veridicità. Nell'aprile del 1999 è comparsa sulla stampa la notizia di un'indagine avviata in Lombardia su questi problemi. Nell'aprile 2000, un'altra importante inchiesta, ancora in corso, su irregolarità e corruzione circa la concessione dei permessi di soggiorno e le documentazioni all'uopo prodotte, è stata avviata a Firenze. Ciò confermerebbe le voci e le informazioni da noi raccolte. Si può dire che fra gli immigrati esiste però una specie di listino clandestino sulle varie documentazioni che si possono acquistare dai soggetti più vari, semplici cittadini o impiegati presso qualche istituzione: accelerazione di pratiche, acquisto di falsa documentazione medica, falso contratto di affitto, piante di appartamenti non effettivamente abitati ecc. Accanto a questi falsi ci sono quelli prodotti all'interno della comunità stessa: documenti, buste paga ecc. Un business che, nella sola Prato, si calcola in miliardi, un giro di denaro che facilmente può portare alla nascita o al rafforzamento di strutture criminali in complicità anche con la malavita locale.
20 Questo sistema che cozza apertamente con i principi che regolano il mercato del lavoro è invece in sintonia con l'esperienza concreta e con alcuni valori tradizionali dei cinesi. Nell'epoca maoista ma anche nel periodo attuale, e per certi aspetti anche in esperienze pre-guerra, è stato in vigore in Cina il sistema della "danwei" cioè "l'unita di lavoro", secondo il quale la fabbrica o la Comune Popolare o l'Ufficio, appunto il luogo di lavoro del cittadino, erano responsabili di tutti gli aspetti della vita del lavoratore e fornivano direttamente ad essi oltre che un salario (generalmente basso) anche vitto, alloggio e servizi sociali. Tradizionalmente poi, i rapporti sociali nella produzione sono stati sempre orientati dal principio dell'armonia piuttosto che da quello di una legittima conflittualità, e ciò ha evidenti conseguenze sulle dialettiche sindacali che sono perlopiù risolte con accordi garantiti dall'autorità.
21 Nel caso pratese è mancata una iniziativa incisiva delle Associazioni dell'artigianato e della piccola industria per avvicinare in maniera produttiva le piccole aziende cinesi che rimangono in mano a pochi commercialisti che in alcuni casi sembrano privi di scrupoli. Il mancato intervento delle Associazioni è spiegabile con la difficoltà che esse hanno di intervenire a favore delle aziende cinesi perché nella base dei loro associati l'ostilità verso i cinesi è un fenomeno di dimensioni non trascurabili. Nonostante che i cinesi abbiano coperto spazi produttivi lasciati vuoti dall'imprenditoria locale, permane lo stereotipo dello straniero che è venuto a portare via il lavoro.
22 Sulla rilevanza di questo fenomeno si veda, oltre le analisi annuali del Centro di Prato, anche i volumi di A. Ceccagno, sinologa e operatrice del Centro, riportati in bibliografia, dove l'argomento è trattato in maniera più estesa e dettagliata.
23 Per gli immigrati, le forze di Polizia rappresentano la prima e la più importante fra le nostre istituzioni. Le forze dell'ordine rappresentano agli occhi degli immigrati lo Stato. La fiducia verso la nostra società dipende moltissimo dal tipo di rapporto che viene a crearsi con la polizia. Sarebbe a questo fine importantissimo che gli immigrati vedessero le forze dell'ordine impegnate in maniera più efficace a tutela dei loro diritti. Anche nei primi mesi del 2000, si sono verificate a Prato forti tensioni con i cinesi con varie aggressioni a cittadini orientali. Vi è stato anche un caso di una aggressione ad un negozio di italiani da parte di cinesi che potrebbe far pensare a forme di ritorsione o autodifesa. La tensione è cresciuta con il consolidarsi della presenza cinese in una specifica zona della città, dove vi sono numerose e diversificate attività commerciali e produttive di cittadini cinesi, compresi anche circoli ricreativi riservati.
24 Molti sequestri ed estorsioni sono compiuti a danno di clandestini per opera di gruppi che si rubano fra di loro "la merce". Ultimamente abbiamo assistito all'arrivo di nuovi immigrati irregolari senza che vi fosse nei luoghi di arrivo la necessità di ulteriore manodopera. Probabilmente sono le "organizzazioni" che alimentano il traffico solo per i propri interessi mettendo in giro, come è successo negli ultimi mesi del 1999, voci di future regolarizzazioni. Le reti hanno anche a disposizione gli emarginati delle comunità della diaspora e quelli creati dalle contraddizioni dello sviluppo economico della madrepatria da impiegare come manodopera criminale. Nel processo di Firenze è evidente, a questo proposito, come le difficili condizioni di vita e di lavoro nella società d'accoglienza abbiano spinto giovani a preferire il rischio delle attività irregolari o criminali.
25 A favorire questo processo negli Stati Uniti sono stati vari fattori fra i quali l'ostilità etnica verso i cinesi e l'isolamento delle comunità. In America il Chinese Exclusion Act del 1882 sancì l'isolamento delle comunità degli immigrati cinesi considerati incapaci di essere assimilati, incivili e troppo attaccati alle loro tradizioni. Le Chinatown sorte sia all'est che all'ovest si autogovernarono attraverso associazioni familiari o legate al luogo di origine e da associazioni più rappresentative le Zhonguo Gong Suo (Assemblea Pubblica Cinese) chiamate dagli americani CCBA (Chinese Charitable Benevolent Association) che rappresentavano l'effettiva forma di governo delle comunità. I1 loro potere fu presto scalzato da quello delle Tong, associazioni legate alle società segrete grazie all'appoggio del Partito Nazionalista Cinese, il Guomindang, interessato all'appoggio finanziario della malavita. Nel modello americano, il fattore politico è stato molto importante.
26 Dobbiamo qui ritornare al concetto di "guanxi", un sistema di relazioni tra individui e famiglie basato su un sistema di reciproca utilità che ha sempre rappresentato in Cina l'ossatura di tutte le relazioni sociali. I "guanxi" stabiliscono amicizie, alleanze, riconoscono gerarchie, sono una rete di rapporti che garantiscono tradizionalmente i cittadini da un'autorità che è sempre stata dispotica. La costruzione di una buona rete di "guanxi" è un obbiettivo primario dell'azione di singoli e famiglie. Al vertice del sistema di "guanxí", gerarchicamente, ci possono essere le associazioni.
27 Le associazioni comunque, in linea di massima e fino a prova contraria, non possono essere considerate rappresentative di tutta la comunità, esse sono in genere espressione degli imprenditori o di alcuni gruppi di immigrati. Le istituzioni italiane spesso tendono invece a fare di una associazione l'interlocutore rappresentativo di tutta la comunità, ignorando così le differenze sociali e la diversità di interessi presenti all'interno della diaspora.
28 Si veda l'indagine della Procura di Roma condotta dal Dott. Giovanni Salvi oggetto della sua relazione al convegno di Campi.
29 Stiamo lavorando da tempo a questa ricerca insieme al Dott. Stefano Becucci tramite uno studio dei maggiori processi e delle più importanti indagini compiute in Italia che hanno avuto per oggetto crimini commessi da cittadini di origine cinese. Una parte dei risultati della ricerca, caratterizzati da un approccio criminologico, sono già apparsi in due saggi di Becucci : "I gruppi criminali cinesi: primi risultati di una ricerca" in A. Coluccia, (a cura di) "Immigrazione. Riflessioni e ricerca", Giuffrè, 1999 e "La criminalità cinese in Italia tra stereotipo e realtà" in "Quaderni di Sociologia" vol. XLII, 1999.
30 Il processo di Roma contro Lin Xia, Xu Long e altri si è concluso con sentenza di condanna per l'art. 416 bis CP il 2-11-1998 e quello di Firenze contro Xiang Hezhi è terminato il 24-5-1999 sempre in base allo stesso articolo.
31 Udienza del 27-3-1997 del processo contro Xu Long a Roma.
32 Secondo noi, il problema dei nomi ha sollevato molte incertezze su alcuni fatti mentre è risultata evidente la completa impreparazione sul significato di lingua non alfabetica. Esemplare a questo proposito una lunga discussione, peraltro di un certo rilievo ai fini processuali, su alcune girate nel retro di un assegno. La corte non sapeva attribuire il giusto significato a dei "simboli" tracciati su un assegno e si chiedeva se fossero sigle o altro, dimostrando appunto di non possedere strumenti adeguati per capire che nella lingua cinese, "un simbolo" è un ideogramma e quindi un cognome completo. In un altro caso, durante la deposizione un teste asseriva di non avere la certezza di chi fosse un individuo del quale gli si proponeva un nome, distorto dalla pronuncia di chi lo interrogava e dalla incerta trascrizione in caratteri latini. Il testimone ad un certo punto affermava in cinese, rivolto all'interprete, che c'era un individuo con un nome simile di cui lui conosceva la pronuncia in dialetto e in mandarino. L'interprete, mentre noi potevamo direttamente ascoltarlo, senza tradurre alla corte perché nel frattempo avvocati e giudici stavano discutendo fra loro, chiedeva informalmente al testimone se sapeva scrivere quel nome. Il testimone rispondeva di no dicendo molto probabilmente una cosa non vera, perché conoscendo la pronuncia dialettale e quella mandarina doveva sapere come si scriveva il nome, perché il collegamento fra dialetto e lingua nazionale è appunto la scrittura. Nel processo, i personaggi coinvolti erano per lo più identificati con un numero corrispondente a fotografie di album preparati dagli inquirenti.
33 A questo proposito sempre durante il processo di Firenze si verificava un episodio che comprovava la validità di questa nostra opinione. Un teste, dopo una lunga deposizione tradotta dall'interprete cinese, rispondendo alla domanda di un avvocato asseriva di non essere assolutamente in grado di capire il Putonghua, cioè la pronuncia mandarina della lingua cinese, e nessuno in aula poteva osservare che da mezz'ora il teste stava conversando in mandarino con l'interprete.
34 Spesso nel processo di Firenze accadeva anche che dei testi non si riconoscessero perfettamente in alcune affermazioni che avevano dato in precedenti interrogatori, non tanto per una volontà di ritrattare quanto detto ma proprio, secondo noi, per il fatto che alle semplificazioni delle traduzioni si erano via via aggiunte forzature sui significati, rese inevitabili dall'uso di punti vista non correttamente tarati sulle diversità culturali.
35 Abbiamo notizie di altri interventi simili portati avanti da associazioni operanti nell'area pratese, addirittura con l'appoggio della autorità consolare. Ovviamente tutto ciò contrasta fortemente con i principi del nostro ordinamento e soprattutto con la tutela della donna e dei minori, ma non può essere automaticamente ascritto a comportamenti mafiosi perché può essere un atteggiamento in piena armonia con la tradizione di controllo sociale operata dall'autorità cinese che si può esercitare fuori della Cina anche tramite i "notabili" locali.
36 Stessa udienza citata alla nota 31.
37 Nel processo di Firenze si parlava del commercio di clandestini affermando che esso avveniva in due modi, un modo "nero" e un modo "bianco", un modo violento e un modo consensuale. Non è stata purtroppo tentata una analisi maggiore sul rapporto fra questi due modi, ma certamente ipotizzare per migliaia di persone percorsi migratori che comportano rapimenti, violenze, estorsioni ecc, pare francamente eccessivo. Non c'è dubbio però, anche da quello che direttamente ci risulta, che si esercitano qualche volta forme di violenza, anche sulle donne.
38 Per la letteratura vedi per es. Chu Yiu-Kong, "lnternational Triad Movements", Research Institute for the Study of Conflict and Terrorism, 1996.
Ci ha particolarmente colpito a questo proposito il fatto seguente negli atti di un processo del 1996 sempre a Firenze (contro Fu Lirong) alla fine della prima importante inchiesta contro la criminalità cinese svolta a Firenze, si accertava un sequestro di persona ai danni di un cinese ritenuto dai sequestratori responsabile del fallimento di un trasporto di clandestini in Puglia e sospettato di collaborare con la polizia nel corso delle indagini. La cifra richiesta per la liberazione dell'ostaggio equivaleva alla somma che i sequestratori dovevano pagare alla malavita pugliese per la complicità nel trasporto dei clandestini. Questa richiesta si colloca più nell'ottica di chi vuol essere ripagato per un affare fallito piuttosto che in quella di una organizzazione mafiosa che si sente tradita e che non si accontenterebbe certo di un rimborso in denaro. Anche la verticistica organizzazione internazionale che nel processo di Firenze viene sempre ricordato come sfondo a tutti gli avvenimenti, rischia, secondo noi, di indurre a indagare verso una sola direzione che appare grave e minacciosa ma potrebbe finire per essere addirittura troppo semplicistica. Anche il tradizionale simbolismo triadico, che dovrebbe suggellare il quadro del dominio delle triadi, appare nei processi di Roma solo occasionale (i gladioli rossi come simbolo di minaccia) mentre dai racconti di alcuni imputati si parla di affiliazioni del tutto informali. Anche le reti per il transito dei clandestini, lo ripetiamo, secondo le nostre informazioni, sono piccoli gruppi, agili e autonomi, anche se ora più disposti alla violenza. A proposito di nuovi sviluppi, sembra che agisca fra Milano, Firenze e Roma una società Finanziaria formata da Italiani e Cinesi, che sfruttando falsi annunci pubblicitari in cinese su giornali cinesi per immigrati, stia proponendo forse prestiti ad usura per l'acquisto di appartamenti. Alcuni cinesi stanno dunque riempiendo un vuoto lasciato dalle nostre banche sfruttando l'irrisolto problema della casa.

 

 


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