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RICORDO DI G. BERTUCCIOLI

Ricordo di un maestro

 

Con un misto di imbarazzo e tristezza mi accingo alla fine a scrivere il necrologio del "professore", l'unico appellativo con il quale tutti noi allievi lo abbiamo chiamato nei lunghi decenni trascorsi al suo fianco. Di queste pagine abbiamo parlato tante volte, tante volte si era raccomandato che fossimo noi due, Marina Miranda ed io, a scriverle e tali e tante erano le raccomandazioni e i consigli che ci dava in proposito che il nostro imbarazzo, misto a tristezza, ci impediva di registrare completamente i suoi desideri. Così riassumo in queste poche pagine anni e anni di racconti, aneddoti e confessioni, rimandando ad un'altra sede una trattazione più estesa della sua vita e delle sue pubblicazioni.
Così recitava a memoria il "professore" pochi giorni prima della morte: "Mors, optima rerum, tu retegis sola errores, et somnia vitae discutis exactae. Video nunc quanta paravi, ah miser, in cassum; subii quot sponte labores, quos licuit transire mihi. Moriturus ad astra scandere quaerit homo; sed Mors docet omnia quo sint nostra loco." Morte, ottima fra tutte le cose, tu sola rendi manifesti gli errori nostri, e sgombri i sogni in cui è scorsa la vita. Veggo ora quante cose, ahimè misero, ho procacciato invano; quante fatiche ho volontariamente incontrate, che avrei potuto evitare. Destinato a morire l'uomo tenta di scalare le stelle: ma la Morte c'insegna quale sia il luogo al quale appartengono le cose nostre.
Giuliano Bertuccioli era nato a Roma il 26 gennaio 1923 da una famiglia originaria di Fiorenzuola di Focara, nelle Marche, trapiantatasi a Roma alla fine dell'Ottocento. Il padre Virginio (1886-1968), funzionario al Ministero dell'Industria e del Commercio, e la madre Luisa Tiscornia (1886-1980), fin dalla tenerissima età spinsero il giovane Giuliano verso la diplomazia, carriera che aveva dato un certo lustro allo zio del "professore", Romolo, fratello minore di suo padre Virginio, il quale, entrato al Ministero degli Affari Esteri come ragioniere ne era uscito console generale. In verità il giovane Giuliano sognava di fare il professore di greco e latino e, vista la sua costituzione non particolarmente atletica, trascorse l'infanzia a studiare e mandare a memoria i classici greci e latini, la letteratura italiana e straniera. 
Tale prodigiosa e duratura era la sua memoria che in occasione di un viaggio in Germania nel 1998, ricordo che fu invitato a dire due parole per concludere un convegno internazionale, rifuggendo per carattere dalle espressioni di circostanza, recitò, davanti ad una platea di letterati tedeschi esterrefatti, in tedesco, all'impronta, un lungo brano tratto dal prologo del Faust, che mi confessò aver imparato in giovinezza. 
Il suo giovanile impegno fu sostenuto da due insegnanti, divenuti poi studiosi di chiara fama, che lo aiutarono a sostenere l'esame di licenza da privatista: Mario Manacorda e Tristano Bolelli. Ma erano soprattutto le lingue ad appassionarlo: studiò francese, inglese e tedesco e nel 1940, appena sedicenne si iscrisse all'IsMEO, dove nel giugno del 1942 conseguì il diploma di lingua cinese, studiando prima con il professor Lin e poi con Yang Fengqi. Nel frattempo, su consiglio paterno e controvoglia si era iscritto a Giurisprudenza. L'unica materia che lo appassionava era il Diritto Romano, comunque si laureò a soli 22 anni discutendo una tesi in Diritto Internazionale con il professor T. Perassi. Fu proprio in quei noiosi anni di giurisprudenza che incontrò il suo primo maestro di sinologia. Erano appunto i primi anni '40 e vagando per i corridoi di quello che ancora oggi è il Dipartimento di Studi Orientali dell'Università di Roma "la Sapienza", bussò all'ultima porta in fondo al corridoio di destra, in quella stanza trovò il professor Giovanni Vacca (1872-1953), che lo accolse felice per aver trovato uno studente che, dopo anni che nessuno si era affacciato a quella porta, mostrava un qualche interesse per quella remota materia. Proprio in quella stanza, oggi occupata dagli uffici della biblioteca del Dipartimento, molti di noi allievi del professore lo abbiamo incontrato per la prima volta, oltre quarant'anni dopo: sempre in piedi, fra la lavagna ed il grande tavolo rettangolare, dove era sempre seduta sua moglie, che tanto lo aiutava nell'insegnamento, circondato da scaffali di libri polverosi che egli tirava giù e sfogliava con una rapidità sorprendente. 
Dopo un breve passaggio all'Istituto Universitario Orientale di Napoli, dove assunse l'insegnamento della lingua cinese, e la nomina ad assistente volontario presso la cattedra di Storia e Geografia dell'Asia Orientale all'Università di Roma, sul finire del 1945 gli si presentò l'occasione che avrebbe cambiato il corso della sua vita: la possibilità di unire lo studio della lingua e della cultura cinese con l'opportunità di avviarsi alla carriera diplomatica. Così il 1° novembre 1946 si imbarcò a Taranto sull'incrociatore coloniale Eritrea, al seguito dell'Ambasciatore Sergio Fenoaltea, destinato a ricoprire l'incarico di "impiegato locale di prima categoria con mansioni di interprete" presso l'Ambasciata d'Italia a Nanchino. 
L'appena ventitrenne "professore" a Nanchino iniziò la sua formazione di sinologo "militante", impegnandosi alacremente a tradurre nella vita reale tutto il bagaglio di conoscenze che aveva appreso durante la sua formazione "teorica". Un aneddoto che spesso raccontava era quello relativo ad un italiano che era stato condannato a morte dal governo cinese. Chiamato il giorno del suo arrivo a tradurre la condanna stilata in perfetto stile classico, il "professore" mal interpretò il testo riferendo all'Ambasciatore che il tapino era stato invece graziato. Quando si accorse dell'errore commesso e ne ebbe informato l'Ambasciatore, questi - egli raccontava - riferì l'accaduto alle autorità cinesi, che per non porre in cattiva luce l'Ambasciatore, che nel frattempo aveva già comunicato la notizia in patria, si convinsero a tramutare la condanna in un provvedimento di espulsione. Negli anni di Nanchino si dedicò allo studio della lingua cinese parlata e scritta, sotto la guida di una giovanissima ragazza cinese, che sarebbe poi diventata sua moglie, la quale lo spingeva a memorizzare poesie e prose classiche in grande abbondanza. Riuscì così in pochi anni ad aggiungere alla sua formazione classica occidentale, una poderosa conoscenza mnemonica della letteratura cinese classica, rimasta ineguagliata fra i sinologi occidentali del suo tempo. Divenuto professore tentò in ogni modo di spingerci sulle sue orme, costringendoci a memorizzare un gran numero di poesie e prose classiche, con risultati non sempre soddisfacenti, tentativo che - per mantenere viva la tradizione - ancora perseguo con i miei allievi, con risultati ancora più deludenti.
Rimase a Nanchino fino all'agosto del 1950, quando caduto il governo del Guomindang, giunti i comunisti a Nanchino e fondata la Repubblica Popolare Cinese il 1 ottobre 1949, fu incaricato di chiudere la nostra Ambasciata, bruciando l'archivio e sottoponendosi a un lunghissimo viaggio per uscire, via treno, dalla Cina, raggiungendo Hong Kong dopo oltre tre mesi di viaggio, durante i quali fu oggetto delle malversazioni dei giovani funzionari comunisti sospettosi nei confronti di un occidentale capace di scrivere e parlare la loro lingua e che mal celava la sua ritrosia nei confronti di un regime che non vedeva certo di buon occhio le citazioni classiche con il quale il giovane straniero infarciva le sue conversazioni. 
Giunto in Italia, essendo riuscito fortunosamente a portare in salvo quello che sarebbe divenuto il nucleo fondamentale della sua straordinaria biblioteca di testi cinesi, il 18 maggio 1952 vinse il concorso in diplomazia, riuscendo così a coniugare i desideri famigliari e la sua inclinazione personale. Nel settembre 1953 giunse a Hong Kong, dove ricoprì gli incarichi di vice console e poi di console fino all'agosto del 1960. Se gli anni di Nanchino furono il periodo della formazione sinologica "militante", la permanenza ad Hong Kong, città ricca di biblioteche e residenza di grandi studiosi cinesi, gli consentì di raccogliere il materiale per quella che sarebbe diventata la sua prima grande opera, la Storia della Letteratura Cinese (Nuova Accademia, Milano 1959), ristampata in una nuova edizione nel 1968 (Sansoni Accademia, Milano). In un'epoca nella quale pochi erano i sinologi che avevano accesso alle fonti bibliografiche cinesi ed occidentali, in grado quindi di produrre opere di vasto respiro, la sua storia della letteratura fu così giudicata da uno dei massimi sinologi occidentali del XX secolo; scriveva infatti Paul Demieville in una lettera del 12 gennaio 1969: "Je vous félicite cordialement de votre nouvelle histoire de la littérature chinoise qui, avec la grosse et utile bibliographie et tout le reste, est tellement au progrès sur la première déjà excellente. Je n'en vois guère de meilleure pour le moment en aucune langue d'Occident".
Tornato in Italia, fu nominato Direttore dell'Istituto per l'Oriente della Fondazione Cini a Venezia, incarico che resse fino al 1962, quando parti come Primo segretario presso l'Amabasciata d'Italia a Tokyo, dove fu nominato poi consigliere fino al dicembre del 1967. Nei sei anni trascorsi a Tokyo imparò il giapponese, approfondendo la letteratura cinese grazie allo studio delle fonti giapponesi. Qui scrisse il volume Qui Tokyo (Milano 1973).
Frattanto nel 1966 fu ternato ad un concorso per professore straordinario di lingua e letteratura cinese e, ritornato in Italia, fu nominato, nel gennaio del 1968, professore presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli. La contestazione studentesca e l'evidente salto da Tokyo a Napoli, lo spinsero a rinunciare all'incarico dopo appena cinque mesi e, riassunto nei ruoli di Ministero degli Affari Esteri, fu chiamato a dirigere l'Ufficio V della Direzione Generale degli Affari Politici. In questa veste, in assoluto riservo, senza che neppure i suoi più stretti famigliari ne fossero a conoscenza, nell'aprile 1969 venne inviato a Parigi per partecipare alle trattative che avrebbero poi condotto, nel novembre dello stesso anno, allo stabilimento delle relazioni diplomatiche fra l'Italia e la Repubblica Popolare Cinese. 
Nello stesso 1969 viene nominato Ambasciatore d'Italia a Seoul, dove rimane sette anni fino al dicembre 1975, quando è nominato Ambasciatore ad Hanoi e dal 1976 concorrentemente anche Ambasciatore presso la Repubblica Democratica del Vietnam del Sud, fino all'aprile del 1978. A Saigon, per la seconda volta nella sua vita, è chiamato ad assolvere l'ingrato compito della chiusura di una rappresentanza diplomatica, dovendo dare fuoco all'archivio della nostra rappresentanza a Saigon. Dal maggio 1978 all'ottobre del 1981 ricopre infine la sua ultima missione diplomatica, come Ambasciatore d'Italia a Manila. Dopo la grande passione intellettuale per Cina e per il Giappone, minore traccia sembra sia rimasta delle sue, peraltro assai lunghe, permanenze in Corea, Vietnam e Filippine, ciononostante tali sedi costituiscono sempre per lui un'opportunità per studiare le lingue e le culture locali, soprattutto dal punto di vista delle relazioni culturali e diplomatiche che quei paesi avevano avuto con la Cina, il Giappone e l'Italia. Fluente in cinese e giapponese, oltre che in inglese, francese, tedesco e russo, in una sola occasione ricordo di aver assistito ad una sua breve conversazione in coreano. 
Dopo lunghi tentennamenti - finalmente per noi - nel dicembre 1980 vince il concorso per la cattedra di lingua e letteratura cinese presso l'Università di Roma "la Sapienza" e, dimessosi dai ruoli del Ministero degli Affari Esteri, nel novembre 1981, dopo quasi quarant'anni da quel suo primo ingresso in quella stanza in fondo al corridoio a destra, eredita l'insegnamento che era stato del suo maestro Giovanni Vacca. 
Si apre così una nuova fase della sua vita, il periodo dell'insegnamento e della trasmissione delle sue conoscenze alle decine di studenti che hanno avuto la fortuna di seguire le sue lezioni fino al 1993, quando è collocato fuori ruolo, restando poi per altri due anni fino al collocamento a riposo avvenuto il 31 ottobre 1995.
Gli ultimi vent'anni della sua vita, gli anni dell'accademia, sono assai produttivi scientificamente, pubblica numerosi volumi e oltre cento articoli e voci enciclopediche su argomenti disparati: dalle ricerche sul taoismo, del quale era annoverato fra i massimi studiosi europei, alle felicissime traduzioni di brani e opere di letteratura cinese classica e vernacolare, fino alla ricerche sui missionari italiani in Cina nei secoli XVII e XVIII, ricerche che porterà avanti fino agli ultimissimi giorni di vita, quando nel letto dell'ospedale era ancora intento alla revisione del terzo volume delle opere Martino Martini, missionario gesuita in Cina nel XVIII secolo, lavoro al quale si era dedicato per molti anni con pazienza e dedizione totale.
Sempre prodigo di consigli umani e scientifici, di citazioni a memoria in cinese, latino, greco, inglese, francese, tedesco, italiano e romanesco (amava moltissimo il Belli di cui ricordava a memoria decine di sonetti), è morto in un letto di ospedale, fra gente comune, pur essendo lui stato un maestro, ma soprattutto un uomo, assolutamente fuori dal comune.

Federico Masini

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Vorrei aggiungere solo poche righe che spero interpretino il sentire di quanti altri tra noi, allievi diretti e indiretti, Gli sono stati vicini in questi anni. 
Anni in cui siamo stati costantemente attratti e affascinati da quella eccezionale cultura sinologica, che si fondava su di una solida formazione umanistica occidentale e che riusciva realmente a padroneggiare i cosiddetti "quattro generi", dalla letteratura ai classici confuciani, dalla filosofia alla storia. E, sebbene lo negasse fortemente con grande modestia, conosceva anche le lingue di altri paesi asiatici dove aveva soggiornato in qualità di diplomatico.
Non solo attraverso gli scritti, ma in maniera diretta ha condiviso con noi le Sue conoscenze, trasmettendoci le curiosità intellettuali, coinvolgendoci nei molteplici interessi, stimolandoci alla continua ricerca. Siamo stati una platea attenta e mai annoiata alle Sue lezioni e conferenze, durante le quali riusciva a tener costantemente vivo l'interesse del pubblico e a farlo spesso sorridere, grazie ad un innato e spiccato senso dell'umorismo.
Con grande disponibilità e affetto si è sempre prodigato nell'aiutarci, guidando i nostri passi incerti, incoraggiandoci nelle ricerche, aprendoci le porte della Sua biblioteca, fornendoci introvabili indicazioni bibliografiche, riuscendo a risolvere i quesiti sinologici più improbabili.
Chi di noi ha avuto il piacere di incontrarLo nel corso dei frequenti viaggi in Estremo Oriente, attraverso i Suoi occhi e ricordi è spesso riuscito a vedere la Cina di un tempo, quella che non c'è più, materializzando quasi le vecchie mura di Nanchino o ricostruendo il reale aspetto di templi taoisti resi ormai irriconoscibili.
Potremmo dire che Egli rappresentava per noi la cultura cinese ed era, in un certo senso, quella stessa Cina che aveva così profondamente fatta propria. Ai nostri occhi incarnava per così dire l'archetipo del "dotto del lontano Occidente", che riesce a mediare dal di dentro tra culture e mondi diversi; una funzione simile, dal punto di vista culturale, a quella degli studiosi gesuiti dei secoli passati. Il Suo era, però, uno spirito profondamente laico e disincantato, con cui guardava alle nostre come alle loro superstizioni.
Lui che sapeva tanto è riuscito a insegnarci come bisogna "sapere di non sapere", condizione indispensabile per migliorarsi sempre e progredire veramente. Ce l'ha insegnato con l'esempio, continuando costantemente a studiare fino all'ultimo, persino in ospedale. Ce l'ha insegnato con l'autoironia sottile, con il riuscire a non prendersi mai terribilmente sul serio; una qualità, questa, che Gli ha dato la capacità di riconoscere talvolta anche i probabili errori. 
Se potesse essere vero che lo spirito degli studiosi si reincarna nei libri, spererei ci fosse dato un giorno di ritrovare quel Libro.

Marina Miranda

 

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