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ECONOMIA E DIRITTO

Cina 2003: l’osservatorio del giurista

di Gabriele Crespi Reghizzi

1. Le origini del mutamento

La Cina è vicina - ma non nel senso proposto a suo tempo da Marco Bellocchio - perfino in aree dove, fino agli ultimi anni del secolo scorso, molti dubitavano della possibilità di un avvicinamento reale. Fra queste spicca, al primo posto, l'ampio territorio riservato, nella tradizione occidentale, al diritto.
II mutamento, le cui ragioni sono note, continua a stupire chi ricorda un Paese che fino al 1978 si vantava dei proprio nichilismo giuridico ed affascinava per l'apparente capacità di gestire un vasto territorio e una società complessa senza regole formalizzate e senza giuristi di professione.
Poi, a partire dal 1978 e inaspettatamente per molti, si è invertita la rotta, e al diritto, con molte delle sue istituzioni formali, è stato restituito un ruolo importante nella società ed una funzione specifica, peraltro ancora organizzativa più che limitativa del potere, sebbene storici e sinologi vedano anche in questo cambiamento una ulteriore manifestazione del pendolarismo ciclico e dell'intreccio indistricabile, nella storia del Paese, fra confucianesimo e legismo, governo dell'uomo e governo della legge.

Nel 1979 comincia, sostanzialmente ininterrotta fino ad oggi, l'evoluzione legislativa e giuridica della Cina post-maoista, indirizzata a sempre meno controversi obbiettivi di economia mista e poi (quasi) di mercato, e come tale assai più affine e comprensibile, almeno sulla carta, per il giurista occidentale.
Certo, la costruzione del nuovo ordinamento giuridico (nelle molteplici accezioni del vocabolo) avviene secondo modalità proprie e nel quadro di una serie ininterrotta di declamazioni simboliche e di formule politologiche ed ideologiche oscure, contraddittorie o volutamente polivalenti, ad uso dei governanti (ma anche come segnale ai governati) e dagli stessi periodicamente aggiustate: marxleninismo, pensiero di Mao, fase iniziale del socialismo, quattro modernizzazioni, legalità socialista e Stato di diritto, socialismo con caratteristiche cinesi, economia socialista di mercato, teoria delle tre rappresentanze etc. Le tesi del ricorso a queste formulazioni come uso linguistico o tecnica stilistica tipici del Paese, o del loro mantenimento come mero espediente retorico, sono vere, ma parziali o troppo premature, perché proprio esse, inserite nei documenti partitici e costituzionali della RPC, descrivono sinteticamente gli orientamenti del potere, tracciano elastiche frontiere alle libertà di individui, gruppi e comunità intermedie, o traducono ambiguamente la complessità dei rapporti fra Partito, Stato, classi e società.

2. Nuove realtà, nuovo approccio al diritto

D'altra parte è indiscutibile - ed è questa la prima delle grandi tendenze avvertite in venticinque anni di storia della RPC (dal 1979 ad oggi) - che il solco fra proclamazioni ideologiche collettivistiche o conservatrici e la realtà economica (e civile) del Paese si allarga ed approfondisce irresistibilmente: questa nuova realtà, veloce, duttile, frenetica, anticipa nei fatti future ed inevitabili riforme politiche e legislative.
II secondo fenomeno riscontrato è quello della adozione e pubblicazione sempre più intensa di leggi, norme e regole, centrali e locali, addirittura di una iperproduzione di diritto scritto, in palese contrasto con l'epoca anteriore al 1979. Di fronte a tante norme disponibili il rimprovero rivolto ai legislatori cinesi è tuttavia la mancanza di chiarezza circa il grado e il rango di queste norme e l'assenza di meccanismi di controllo dell'effettivo rispetto della loro gerarchia.

Anche la qualità di questo diritto scritto è lentamente migliorata nel tempo, specialmente se guardiamo alle regole destinate agli operatori privati: meno ideologizzate, più chiare e più tecniche di un tempo, sebbene l'effettiva applicazione e il vero significato delle leggi continui spesso a dipendere dalla volontà e dalla interpretazione dei pubblici amministratori. La privatizzazione in tutte le sue forme non ha risparmiato il diritto sostanziale (e segnatamente l'impresa e il contratto), la giustizia (con un rinnovato ricorso all'arbitrato nel contenzioso commerciale interno e internazionale), le professioni giuridiche. In pochi anni, il Paese, sostanzialmente privo di giuristi, ha moltiplicato le scuole di legge e assistito ad un crescente interesse per lo studio della giurisprudenza (in Cina o se possibile all'estero), testimoniato un forte aumento dei giuristi d'impresa e, soprattutto, autorizzato o tollerato una imprevedibile ed impressionante proliferazione dei liberi professionisti.
Questa rapida giuridicizzazione (nel senso di professionalizzazione del diritto) del Paese ci ricorda gli Stati Uniti piuttosto che la Cina di sempre, e proprio questa trasformazione della RPC da società senza giuristi a società affollata (iperbolicamente...) da avvocati rappresenta a mio giudizio il mutamento più radicale e notevole del Paese e del sistema. È indubbio che anche la densità e il dinamismo delle nuove professioni private catalizzerà le riforme economiche e potrebbe incidere sulla forma di Stato, sul tipo di governo e sull'apparente monoliticità del potere.
C'è stata, forse meno marcata ma consapevole e bene evidente, una occidentalizzazione delle regole, in varie direzioni.

In primo luogo nel senso di riprendere modelli che non sono più quelli sovietici di un tempo, ma altri, occidentali (magari filtrati attraverso il diritto giapponese o di Taiwan) già parzialmente utilizzati nel passato; come il diritto tedesco, svizzero e francese, fonti di ispirazione o di riforme del diritto privato sia al tempo della rivoluzione del 1911 sia sotto il governo nazionalista. Ci si serve, quindi, prevalentemente di modelli di diritto a noi familiari, il diritto continentale codificato, un po' meno il common law. Perfino il diritto romano, in apparenza così remoto geograficamente e culturalmente, desta interesse nell'accademia ed influisce sulla definizione legislativa di istituti classici (negozio, obbligazione, contratto). Verrà poi l'influsso del diritto comunitario, del diritto commerciale uniforme e, in minor misura, anche di quello statunitense: quest'ultimo non tanto come metodo o struttura, quanto per alcuni suoi contenuti.
Ma occidentalizzazione vuol dire anche un numero crescente di addetti al settore che guardano al diritto occidentale, a prescindere dal suo stile anglo-americano ovvero romanista, come a un diritto di qualità superiore o almeno più progredito del diritto nazionale. Se ci fossero i mezzi, numerosi cinesi - l'affermazione può apparire un po' ardita - preferirebbero rivolgersi a un avvocato straniero, non solo per agire, in Italia, contro una società italiana, ma anche, magari, per un'assistenza o una consulenza legale in Cina.

Un altro fenomeno degno di nota è l'internazionalizzazione del diritto cinese (specialmente commerciale, bancario, finanziario). La Cina ha aderito da tempo, talora prima di Paesi europei, e molto seriamente a tante convenzioni internazionali multilaterali e bilaterali. Ricordo, in particolare, le maggiori convenzioni internazionali di diritto uniforme, come la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose mobili o l'importantissima Convenzione di New York sul riconoscimento e l'esecuzione dei lodi arbitrali resi all'estero; e penso inoltre ai molti accordi bilaterali che la Cina ha stretto anche con il nostro Paese e che riguardano da vicino gli scambi e gli investimenti: contro le doppie imposizioni, sull'incoraggiamento e la protezione degli investimenti e (meno noti come genere letterario) sull'assistenza in materia giudiziaria civile e penale. La Cina è rappresentata inoltre in tutti i grandi organismi finanziari internazionali e in tutti gli enti che creano soft law e formulano proposte di diritto uniforme (Unidroit, Uncitral, Camera di Commercio Internazionale ecc.). Numerosi giuristi stranieri insegnano nel Paese, e il diritto internazionale - nelle sue diverse specializzazioni - conquista continuamente posizioni nella ricerca e nella didattica.

3. Una rete giuridica globalizzata

Ormai, dunque, la RPC è irreversibilmente entrata in una rete giuridica, e non soltanto economica, globalizzata. È molto difficile fare marcia indietro anche per un'altra ragione, che io definisco come una sorta di reciprocità sostanziale. La continua espansione e il crescente stabilimento all'estero di cittadini ed imprese cinesi - sicuramente con il beneplacito o la tolleranza delle autorità - può limitare e di fatto limita la libertà d'azione del Governo (o comunque di chi fa e disfa leggi e convenzioni) per timore di ritorsioni o ricadute negative su queste masse di commercianti residenti od operanti fuori dal Paese, su questo "impero coloniale" che domina alcune economie asiatiche e che rappresenterebbe il 70/75% degli investimenti stranieri nella PRC. Inoltre, questa diaspora cinese si è abituata a, e domanda un, tipo di diritto che è il diritto nostrano, e non avrebbe ormai senso optare per un diritto diverso.

Decentramento o accentramento normativo? Qui non è agevole indicare una tendenza ferma, c'è piuttosto un moto alternativo. Qualche anno fa avremmo detto che il pendolo favoriva le periferie (almeno quelle più potenti o più ricche) nonché, naturalmente, le SEZ (zone economiche speciali), i porti, le aree a sviluppo economico e tecnologico avanzato; e, più in generale, i territori o i settori dove si consentiva la sperimentazione di sottosistemi giuridici parziali più favorevoli alla località e/o agli investimenti esteri. Proprio in queste aree sono state applicate in via provvisoria e sperimentale ed ante tempus regole di diritto commerciale (societario, assicurativo, finanziario, bancario, borsistico, fiscale) che inizialmente valevano solamente per i rapporti parzialmente estranei all'ordinamento, cioè ai quali partecipasse un'entità straniera, non ai rapporti meramente interni. Ma col passare del tempo questo diritto commerciale speciale e sperimentale, se l'esperimento riesce ed è giudicato positivo, diventa regola generale, viene trasformato in legge e diventa applicabile ormai a tutte le imprese nazionali, non unicamente alle imprese straniere od estero-vestite (FIE).

Presto, però, il decentramento potrebbe subire una limitazione o una inversione di rotta, perché l'adesione della Cina alla WTO comporta - come dirò oltre - l'impegno di amministrazione uniforme delle regole commerciali in tutto il Paese (senza troppe eccezioni), con grave minaccia, a lungo andare, per questi sottosistemi giuridici od economici privilegiati (anche dal punto di vista dell'investitore straniero). Ma la vittoria (per esempio in campo tributario) arriderà davvero al governo centrale? Su questa domanda politica importante le scommesse sono aperte - Hong Kong, come è noto, si trova in una situazione ambigua e non fa regola - ed è sintomatica fra le tante, la recente notizia che alcune autorità locali avrebbero anticipato Pechino nella vendita (anche a stranieri) di quote di maggioranza di grandi aziende sotto il proprio controllo.

II comparatista non può non compiacersi di un altro fenomeno quasi rivoluzionario, la rivalutazione del diritto privato (civile e commerciale) e la sua progressiva redazione in forma scritta; e ciò in contrasto con la tradizione cinese, confuciana o maoista, nella quale il posto centrale, nel diritto legislativo, era occupato da norme penali e amministrative. Nella Cina classica prevaleva infatti l'idea che la società non abbisognasse di troppe leggi - salvo norme repressive in epoche di crisi - cosicché la materia che noi chiamiamo diritto privato era lasciata tradizionalmente agli usi, agli statuti corporativi o ai riti, o era riflessa solo parzialmente e indirettamente nelle regole penalistiche. Quanto al maoismo, esso si occupò ben poco del diritto civile e commerciale, data la sostanziale assenza di proprietà privata, imprese private ed autonomia negoziale. Solo nel 1986 vennero adottati dei laconici e un po' sibillini "Principi generali di diritto civile", e solo negli anni '90 si optò decisamente per la codificazione del diritto civile. All'adozione del codice civile unificato - il primo della RPC - manca soltanto ('intesa sui diritti di proprietà, in particolare - come vedremo tra breve - con riguardo alla proprietà e all'uso del suolo.
Tra le grandi tendenze di questo quarto di secolo deve ancora essere ricordata la demonopolizzazione, fondata sul pluralismo economico e finalizzata alla libera concorrenza. Benché il Paese si trovi tuttora in una fase di transizione - descritta talora come semi-corporativa -stanno faticosamente sparendo, o riducendosi, grandi monopoli del passato: si pensi al monopolio del commercio estero e al sistema delle società statali di trading. Sotto questo profilo l'adesione alla WTO, che impegna la Cina a consentire entro tre anni a quasi tutte le imprese, anche non residenti o registrate nel Paese, il diritto di commercio, ossia di esportare e di importare liberamente, è stata soltanto un acceleratore di una riforma da tempo avviata. Invece nel sistema cinese precedente (derivato dal modello sovietico) poche decine di grandi società statali monopolizzavano l'attività commerciale verso l'estero o dall'estero per settori merceologici determinati.

Un ultimo significativo mutamento concerne il contenzioso (specialmente commerciale) e i modi di risoluzione delle controversie. In un contesto di crescita esponenziale della litigiosità, la Cina, o meglio gli imprenditori e i professionisti cinesi, sembrano avere abbandonato il favore tradizionale per le trattative amichevoli, il negoziato diretto fra le parti, la conciliazione, che salva la faccia ai litiganti e mira al compromesso. I più chiedono ormai una precisa decisione delle controversie ad opera di un terzo esterno al contratto, giudice od arbitro che sia.
Come mai? Forse con un po' di esagerazione, è innegabile che i cinesi si sono arricchiti, sono economicamente interessati, talora hanno disponibilità anche all'estero, vogliono esercitare tutti i propri diritti e vogliono incassare. Sono quindi tornati a servirsi degli strumenti tradizionali (processuali o arbitrali), più rigidi e formalizzati, di risoluzione delle controversie, a scapito di una conciliazione che, almeno sulla carta, sta diventando molto di moda in Italia e in Europa ma vieppiù appare in Cina come un mero omaggio alla tradizione o una formula rituale o di stile. Questa tendenza è ben visibile anche nell'arbitrato, una opzione quasi inevitabile nei contratti transnazionali. Quanto alla domanda di giustizia interna, va detto però che essa si scontra ancora con nodi atavici, non agevoli né rapidi da sciogliere: la dipendenza politica ed economica dei magistrati dal potere centrale o locale e la preparazione tecnico-giuridica inadeguata di molti giudici.

4. Proprietà ed uso

L'area dei diritti di proprietà è quella in cui il legislatore cinese ha risolto meno brillantemente i suoi problemi, soprattutto perché non ha finora voluto liberarsi da dogmi, impostazioni e concettualizzazioni del passato, ereditati dal marxleninismo sovietico, nonostante il progressivo alleggerimento se non deperimento dei medesimi.
Dopo l'ultima riforma costituzionale del 1999, che ha ratificato l'ingresso dell'economia privata nell'economia socialista ed autorizzato lo sviluppo di diversi, imprecisati tipi di proprietà (anche privata e capitalistica) "simultaneamente alla proprietà pubblica" al di là del pasticcio lessicale il messaggio politico è chiarissimo - il PCC ha deciso quest'anno di rivalutare ulteriormente il diritto di proprietà privata in generale e la sua posizione tuttora subordinata, almeno astrattamente, rispetto alle altre vecchie forme di proprietà (statale, collettiva, personale) del modello socialista classico. Ormai "inviolabile" (come finora soltanto la proprietà "di tutto il popolo") e protetta dalla legge (se acquistata legittimamente) da espropri o requisizioni, la proprietà privata (siyou caichan) occuperà dal prossimo marzo nella Costituzione della RPC - di cui è preannunciato un ulteriore emendamento - una posizione autonoma e rafforzata.

Non è neppure da escludere che fra non molto, come è accaduto in tutto l'Est europeo, il diritto di proprietà venga riunificato e disciplinato unitariamente a prescindere dalla natura del soggetto (Stato, collettivi, persone giuridiche e fisiche private) o dei beni (mezzi di produzione o di consumo) che ne costituiscono l'oggetto.
Sulla carta, l'ostacolo principale sembra il regime della proprietà del suolo. La terra, nella RPC, resta formalmente in mani pubbliche: dello Stato (eufemisticamente "di tutto il popolo"), oppure di organismi collettivi rurali non perfettamente identificabili.
In realtà il pragmatismo cinese è riuscito ad evitare che ciò penalizzasse lo sviluppo del mercato immobiliare, la cantieristica, i restauri, la compravendita di case e appartamenti. Qui hanno giovato - e questa è un'altra caratteristica notevole, più vera in Cina che altrove - la differenza del law in the books dal law in action, del diritto scritto dal diritto vivente, e le tradizioni legali di Hong Kong. Per un verso, infatti, ai fini pratici si è sostituito il diritto di proprietà con il diritto di uso; i diritti di uso del suolo sono diventati molto più importanti del diritto di proprietà. A partire dal 1988, con una modifica costituzionale ex post - perché sempre in Cina prima si cambiano le norme operative e poi magari si cambia la Costituzione - si dichiarò che la terra restava sempre di proprietà statale o collettiva, mentre i diritto di uso del suolo potevano ormai essere concessi in locazione, compravenduti, permutati e perfino trasmessi in via successoria.

La differenza rispetto alla proprietà è dunque sottile. E ancora più sottile, se teniamo presente che la Cina in queste sue impostazioni non si è solo allineata su modelli totalitari o autoritari di socialismo o statalismo, ma anche sul common law di Hong Kong, con la nota contrapposizione anglosassone fra freehold e leasehold, fra il diritto di proprietà pieno (un tempo della regina, dei nobili e del clero), e il diritto di proprietà a tempo, di cui la maggior parte dei cittadini britannici ancora si avvale. Nel regime attuale - tracciato da leggi sulla amministrazione e la concessione dei suoli rurali ed urbani periodicamente modificate (e tolleranti di variazioni regionali) - la durata dell'uso è differenziata (30-70 anni) a seconda dello scopo (commerciale, industriale, edilizio o abitativo), ma tutta questa tematica è oggetto di estese discussioni.
Oggi il proprietario di un appartamento a Pechino potrebbe domandarsi cosa accadrà, alla scadenza del settantennio, al suo diritto d'uso dei suolo. Probabilmente la concessione (il lease) potrà venire rinnovata o meno, come succede in Inghilterra. Ma fino a quella data è già di conforto la soluzione odierna (derivata dal diritto sovietico), consistente nel riconoscimento della supremazia della proprietà dei fabbricato rispetto alla proprietà dei suolo.
Nella prospettiva descritta i contenuti dell'imminente emendamento costituzionale sono di buon auspicio: non solo l'esproprio di beni di proprietà privata, ma la revoca dei diritto d'uso dei suolo (urbano o rurale) obbligherà ad un indennizzo.

5. Dal piano al mercato: i contratti e le imprese

Fino al 1993 la Cina era un Paese ad economia di piano, come lo era stato fino al 1990 l'URSS. II piano era fonte di obbligazioni contrattuali e criterio di riferimento o parametro di misura necessario per la validità dei contratti nel settore pubblico; stipulazione, esecuzione, modificazione e risoluzione di tali contratti non potevano avvenire in contraddizione con gli obbiettivi economici fissati dai piani. A tal punto si distingueva il settore pianificato dal settore libero che si emanarono due leggi diverse sui contratti: una (1981) sui contratti nazionali od interni (pianificati) ed una, più liberale, sui contratti transnazionali o relativi al commercio estero (1985).
Nel 1993 la pianificazione economica vincolante viene eliminata, ma alla dicotomia "socialista" dei contratti, sempre più distante dalla realtà economica e giuridica cinese, si rinuncerà soltanto nel 1999 mediante l'adozione di una grande legge sui contratti consistente in 420 articoli. Nel nuovo testo unico le definizioni, il regolamento, il numero e la qualità tecnica delle disposizioni dedicate al contratto in generale (una scelta romanista ed europea) e ad alcune figure nominate di contratti confermano che, anche in questo caso, ci si è imbarcati sulla nave dell'Occidente.

Certo, rimangono alcune norme un po' preoccupanti, per esempio la possibilità di subordinare validità, modificazione e risoluzione dei contratto alle autorizzazioni o registrazioni da parte di organi amministrativi indeterminati. Si tratta di un residuo dei passato, e di una regola ancora vigente per i contratti di trasferimento di tecnologia e per quelli relativi agli investimenti esteri in forma societaria. II principio che qualsiasi operazione di investimento straniero debba essere autorizzata od approvata (lo stesso vale per modifiche e disinvestimento) resta in vigore, ma viene applicato in modo più duttile, rapido e superficiale. In particolare, nei settori incoraggiati degli investimenti stranieri - il cui "Catalogo" è alla seconda edizione - l'approvazione è quasi automatica, l'autorità di tutela limitandosi solitamente a verificare se l'oggetto sociale rientri nel campo degli investimenti favoriti. D'altra parte non si può nemmeno comprendere la menzione (art. 126), in una legge civilistica - se non rammentando la perenta categoria dei negozi anti-statali nella legislazione dei Paesi socialisti - del dovere dell'Amministrazione statale dell'industria e del commercio (e di altri organi amministrativi imprecisati) di "controllare i contratti allo scopo di impedire che essi vengano utilizzati a danno dello Stato o di interessi pubblici".
I temi legati all'impresa sono, come è naturale, quelli di maggiore interesse per gli operatori economici, ma sono anche quelli più esplorati.

Nel diritto nazionale, imprese individuali, familiari e private (capitalistiche) sono ormai diventate politicamente corrette, grazie alla loro miracolosa inclusione nel settore socialista collettivo e alla qualificazione delle stesse come importante componente dell'economia socialista di mercato (1999). Quanto alle imprese costituite o partecipate in Cina da soggetti non residenti, è noto che nel 1979 i cinesi hanno inventato una triade di imprese ad investimento estero (FIE), battezzate come società a capitale misto, società a capitale interamente straniero (WFOE) e joint ventures di natura contrattuale. Senza entrare qui nei dettagli, questi veicoli allora unici e necessari per la canalizzazione degli investimenti esteri hanno lungamente costituito, in assenza di una disciplina generale delle società di capitale a responsabilità limitata, un embrione del futuro diritto societario, limitato tuttavia ai casi di partecipazione straniera non inferiore al 25% (in vistoso e prammatico contrasto con le normative sulle società miste di quegli anni, che in altri Paesi socialisti stabilivano limiti massimi, non minimi, alla partecipazione estera).

L'entrata in vigore, nel 1994, di una legge generale sulle Spa e le Srl non ha abrogato il regime speciale (al contempo privilegiato e maggiormente controllato) delle FIE, ma il divario fra le due discipline si è progressivamente e fortemente ridotto, specialmente dopo l'abolizione (nel 2000) degli obblighi di equilibrio valutario, approvvigionamento sul mercato interno, investimenti in alta tecnologia ed esportazione di parte del prodotto per la costituzione o l'esercizio di alcuni tipi di FIE.
Come si è già visto in passato nella legislazione e nella dottrina di altri Paesi socialisti, permane una certa confusione fra le nozioni di impresa (qiye), persona giuridica (faren) e società (gongsi), che trova le sue spiegazioni nella politica e nella storia. Pertanto non stupiamoci troppo di apprendere dalla legge sulle Spa e le Srl (art. 17) che "le attività delle organizzazioni di base del partito comunista cinese all'interno della società si svolgono in conformità con lo Statuto del PCC".

6. Nuove regole per il commercio internazionale

L'adesione della Cina alla WTO rileva in questa sede non in ordine agli infiniti impegni specifici assunti dalla RPC in tema di dazi, di dogane, di servizi o di trips, legati ad una rigorosa tempistica e soggetti a un continuo monitoraggio, bensì per le sue sicure implicazioni per tutto il diritto commerciale del Paese e per le sue probabili conseguenze (catalizzatrici delle riforme) per il suo sistema giuridico complessivo.
Mi limito qui a menzionare alcuni grandi principi (relativi al commercio in generale), contenuti nel Protocollo di adesione alla WTO, che possono apparire in forte contraddizione non solo con la filosofia giuridica (o piuttosto con la concezione antilegalistica) storicamente prevalsa in Cina, ma anche con le caratteristiche attuali del socialismo cinese (sia pure sui generis, camaleontico e a geometria variabile), della forma di Stato e del tipo di governo della RPC. Fra questi è indispensabile ricordare in primo luogo il dovere di amministrazione uniforme, imparziale e ragionevole di leggi, regolamenti ed altri provvedimenti centrali e regionali (attinenti a, od incidenti sul, commercio di beni o servizi, i trips o il controllo dei cambi) in tutto il Paese; questo obbligo è accompagnato dall'impegno di costituire un meccanismo che consenta ai cittadini e alle imprese di segnalare alle autorità nazionali i casi di applicazione non uniforme del regime commerciale in tutto il territorio nazionale.
Ancora più importante è l'obbligo di trasparenza normativa, in un Paese già caratterizzato da un elevato numero di norme segrete o riservate.

L'adesione alla WTO comporta che la Cina possa dare esecuzione solamente a norme che siano state preventivamente pubblicate e rese accessibili agli utenti, Stati esteri aderenti alla WTO, imprese e cittadini di tali Stati. Non solo, ma la Cina si impegna anche a pubblicare regolarmente in un'unica gazzetta ufficiale tutte le norme interessanti le materie regolate dalla WTO e, in linea di massima, a consentirne anche un commento da parte di organismi determinati prima che esse entrino in vigore. Un ulteriore e gravoso impegno consiste nel mettere a disposizione (entro 90 giorni dall'entrata in vigore) tutti gli atti normativi afferenti alla materia valutaria, alla proprietà intellettuale e al commercio di beni e servizi in una delle tre lingue ufficiale della WTO. Nè si dimentichi che la RPC si è obbligata a trasmettere prontamente alla WTO tutti gli atti normativi concernenti le aree economiche speciali (molti e mutevoli!), le modificazioni apportate a tali atti, e le variazioni di numero, denominazione e confini geografici di dette aree.
Si aggiunga - su un piano diverso ma non meno rilevante - che il Governo cinese si è impegnato a pubblicare ed aggiornare l'elenco degli organi amministrativi competenti a rilasciare autorizzazioni o approvazioni.

Non meno importante è l'obbligo di assicurare, ossia di mettere a disposizione degli interessati, un controllo giurisdizionale sulla azione amministrativa (naturalmente, nelle materie contemplate dalla WTO). Per un Paese dove la pubblica amministrazione ha goduto di una discrezionalità illimitata, e dove la burocrazia ancora gestisce elasticamente l'attuazione delle leggi, si tratta di un impegno significativo. In particolare, contro ogni decisione amministrativa ritenuta illegale o infondata deve essere possibile un ricorso a un tribunale indipendente, autonomo e disinteressato, e contro la decisione di questo tribunale deve esistere la possibilità di (almeno un) appello davanti a un organo della giustizia ordinaria, obbligato a procedere con trasparenza e a motivare per iscritto la propria sentenza.
Riuscirà la giustizia interna, tallone di Achille del sistema giuridico nazionale, ad evitare la contaminazione di queste prescrizioni innovative, proprie di Stati fondati sulla tripartizione dei poteri?
Da ultimo, l'adesione al Protocollo comporta il divieto di discriminazione, ossia l'obbligo di assicurare ai cittadini e alle imprese straniere ed alle FIE un trattamento non meno favorevole di quello offerto alle persone fisiche e alle imprese nazionali in ordine all'approvvigionamento di beni e servizi, ai prezzi e all'accesso a beni e servizi forniti da enti statali centrali e periferici e da imprese pubbliche. Ciò vale anche - salvo deroghe esplicite eventualmente contenute nel Protocollo - con riguardo alle misure preferenziali riservate alle imprese operanti all'interno delle aree economiche speciali.
Volutamente ignorati, perché fuori tema, i meccanismi provvisori di controllo e salvaguardia previsti nel Protocollo, va in conclusione ricordato che, aderendo alla WTO, la Cina si è assoggettata allo schema speciale escogitato dalla WTO per la risoluzione delle controversie commerciali fra Stati, e del quale la RPC si è già avvalsa nel celebre caso dei dazi USA sull'importazione di acciaio (vincendo anche in secondo grado) insieme ad altri Paesi.

Ma cittadini e imprese non possono avviare direttamente questo meccanismo, programmato del resto per gravi infrazioni e per macrocontroversie. Inoltre mi pare che in un Paese dove ogni giorno avanzano privatizzazione ed economia di mercato sia sempre più difficile imputare al governo violazioni, inadempimenti, scorrettezze, illeciti commessi per lo più da soggetti economici largamente indipendenti, e sia incongruente attendere dai governi (o soltanto dai governi) rimedi contro tali condotte. L'imprenditore straniero sta imparando o deve imparare (anche dal suo omologo cinese...) a credere maggiormente nel contenzioso privato e meno negli interventi politici o governativi, e a servirsi più spesso anche in Cina dei rimedi classici, quali i ricorsi amministrativi, la giustizia ordinaria e l'arbitrato, ai quali ricorre nella maggior parte del mondo.

MONDO CINESE N. 117, MAGGIO-AGOSTO 2004

 

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