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I mingong
Le braccia nascoste del miracolo cinese

I mingong (民工) o “operai-contadini”, sono dei contadini che hanno lasciato il loro villaggio per lavorare in città. Li si vede spesso scendere dal treno, con dei grossi fagotti, decisi a trovare l’eldorado nelle grandi città.

Assenti dalle statistiche, i mingong, valutati 94 milioni nel 2003, sono oggi molto più numerosi. Si parla di circa 120 milioni (secondo le stime della ONG Human Rights in China – Diritti umani in Cina) di “contadini-operai” che sgobbano per costruire il miracolo cinese in condizioni inumane anche se per alcune fonti sono addirittura 180 milioni.

Popolano soprattutto le città e le zone costiere dove forniscono la totalità della manodopera manifatturiera. Nelle zone economiche speciali, i 5,5 milioni di lavoratori sono per il 70% donne con meno di 30 anni, sfruttate senza vergogna con dei salari sino a cinque volte inferiori al salario minimo.

30 milioni di mingong vivono nella sola provincia del Guangdong, principale base manifatturiera nel sud-est del Paese, 6 milioni a Shanghai e 5 milioni a Pechino. E ogni anno sono 10 milioni in più.

Il fenomeno risale agli inizi degli anni ’90: dopo la frenata provocata dai fatti di Piazza Tian’anmen, Deng Xiaoping rilancia le riforme economiche. In quegli anni la richiesta di manodopera nelle città è fortissima, ma l’industrializzazione del paese è solo parzialmente accompagnata dall’urbanizzazione.

Nelle città, i più fortunati sono impiegati nell’edilizia con contratto di lavoro, ma la maggior parte ha degli impieghi “informali”. Esclusi da qualsiasi protezione sociale, dall’accesso alle cure sanitarie, dal sistema educativo, eppure sono loro che “fanno girare la macchina”. Il sindacato ufficiale cinese, l’ACFTU (All-China Federation of Trade Unions), cinghia di trasmissione del potere, si vede dequalificato presso questo “esercito” di lavoratori, poiché incapace di prendersi carico delle loro rivendicazioni per delle migliori condizioni lavorative e dei salari equi. Perciò i migranti creano dei “collettivi sindacali” non riconosciuti ai quali si oppone il sindacato ufficiale.

Il ricercatore francese Jean-Louis Rocca dipinge un ritratto sociale della Cina contemporanea articolata attorno a due categorie di lavoratori in contrapposizione: la vecchia classe lavoratrice delle imprese statali e la nuova arrivata, pletorica, nata dall’esodo rurale. I primi, che costituivano la base sociale del regime e beneficianti di strutture di protezione sociale e di educazione, si vedono oggi come le vittime dello smantellamento dell’economia socialista. Sono pessimisti e disprezzano i migranti. Questi ultimi, i mingong, fuggono dalla miseria delle campagne. Per la maggior parte sono giovani e quasi sempre analfabeti. Considerati come dei sottocittadini, poiché non dispongono di certificati di residenza, supersfruttati nelle zone economiche speciali, accettano, nelle grandi città, gli impieghi rifiutati dalla classe operaia tradizionale. Sono i “carbonai” del miracolo economico cinese. Malgrado le loro condizioni difficilissime, essi però hanno la sensazione di essere in una fase ascendente.

Si trovano ovunque: agli angoli delle strade di qualsiasi grande città, brandendo dei piccoli cartelli sui quali è scritto il loro mestiere, nelle fabbriche di esportazione del sud, ma anche negli edifici in costruzione a Pechino. I più giovani sono anche impiegati nei servizi. Le centinaia di migliaia di saloni di acconciature e di massaggi, di karaoke e di ristoranti che popolano il paese girano grazie a giovani mingong.

La loro particolarità? I mingong sono dei “fuori classe”, come ha recentemente dichiarato l’Accademia cinese delle scienze sociali. Il loro lavoro è quello di operaio, ma il loro status giuridico resta quello di contadino: non beneficiano quindi di nessuna copertura sociale. Tra città e campagna, l’apartheid perdura in Cina, retaggio dell’economia pianificata in cui il mondo contadino e quello cittadino erano rigorosamente separati, essendo il primo al servizio del secondo. La sopravvivenza del sistema degli “hukou” (permesso di residenza) che lega le popolazioni rurali al loro luogo di nascita, ha consentito di mantenere un vasto serbatoio di manodopera a un costo bassissimo. “A parità di lavoro, un mingong guadagna meno di un operaio, lavora di più e non ha gli stessi diritti”, spiega Lu Xueyi, presidente dell’Associazione cinese di sociologia.

MingongI contadini cinesi hanno tre ragioni per lasciare le loro campagne: l’attrattiva di guadagni migliori, la mancanza crescente di terre a causa della crescita demografica e degli spostamenti forzati e un calo del livello di vita nelle campagne a partire dalla metà degli anni ’90. Risultato: nella città-vetrina del capitalismo cinese, Shenzhen, il 70% dei lavoratori è costituito da mingong provenienti dalle campagne dell’interno del paese e rappresenta il 35% della forza-lavoro del Guangdong. In quest’ultima provincia (capoluogo Guangzhou – Canton), la più ricca della Cina, il loro reddito mensile non raggiunge i 1000 yuan, contro una media di 1675 per gli operai con permesso di residenza. Lavorano spesso più di 70 ore settimanali (sette giorni su sette e un giorno di riposo al mese) quando l’orario legale massimo consentito è di 40 ore. In una logica di concorrenza internazionale, i dirigenti cinesi ricordano continuamente questo “vantaggio comparativo” per attirare gli investitori, modernizzare il paese e creare il più grande numero di posti di lavoro. Ma gli investitori stranieri e gli imprenditori privati cinesi non sono i soli a beneficiare del sistema. Anche le imprese statali vi hanno fatto ricorso. Dal 10 al 20% della loro manodopera è attualmente composta da mingong. Questi migranti sottopagati sostituiscono così gli operai cittadini vittime di licenziamenti attuati per migliorare la competitività delle imprese nazionali sovrabbondanti e poco produttive. Per gli operai delle città – a lungo privilegiati dal regime e che restano uno dei principali sostegni –, il governo ha organizzato programmi di pensionamento, reimpiego o di assicurazione contro la disoccupazione.

Cittadino di second’ordine e zoccolo dell’espansione cinese, il mingong non ha alcun diritto. Lavora a giornata oppure a cottimo spesso dalle 9 del mattino a mezzanotte, riceve un salario irrisorio, sovente senza alcun contratto. Può essere cacciato da un giorno all’altro, senza avere diritto ad una spiegazione. Condivide una minuscola stanza con quattro o cinque compagni di sventura o, spesso, alloggia sul luogo di lavoro, il che fa del datore di lavoro un vero padrone.

Questa precarietà impedisce ai mingong di beneficiare di una seppur minima sicurezza sociale. Devono assumersi le conseguenze e i costi di un incidente sul lavoro o di una malattia.

Inoltre, questi operai non rientrano nel censimento della popolazione urbana. Per questo motivo, non hanno accesso ai servizi pubblici come il sistema scolastico o i servizi sanitari. Inoltre, devono pagare tasse e imposte molto più elevate di quelle dei cittadini con permesso di residenza.

Patrizia Berzuini


Frammenti d'Oriente, settembre 2007

 

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