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Il giornalismo italiano e la Cina

di Giorgio Mantici

Un aspetto del mondo elettronico, postmoderno, è il rafforzamento degli stereotipi a proposito dell'Oriente. Televisione, film, e le risorse dei mezzi di comunicazione di massa in genere, costringono l'informazione entro schemi sempre più standardizzati. Per ciò che riguarda l'Oriente, la standardizzazione culturale ha aumentato l'efficacia della demonologia accademica e artistica ottocentesca dell'"Oriente misterioso".

Edward W. Said

Vorrei esordire con una dichiarazione polemica e quindi eccessiva: è mia opinione che il giornalismo che si produce in Italia (carta stampata, radio e televisione), soprattutto in campo culturale, sia il peggiore dell'Occidente. Mancano ad esso due qualità fondamentali: il rispetto nei confronti del destinatario (sia esso lettore, ascoltatore o spettatore), e la correttezza nel riportare i fatti1. Uno dei più grandi giornalisti viventi, Ryszard Kapuscinski, in un recente convegno sul giornalismo oggi, ha affermato che un elemento fondamentale «della nostra professione è il costante approfondimento delle nostre conoscenze. Vi sono professioni per le quali normalmente si va all'università, si ottiene il diploma e lì finisce lo studio. Per il resto della vita si deve semplicemente amministrare ciò che si è imparato. Nel giornalismo, invece, l'aggiornamento e lo studio costanti sono la conditio sine qua non. Il nostro lavoro consiste nell'indagare e nel descrivere il mondo contemporaneo, che è in continuo cambiamento. [...] Perciò bisogna costantemente studiare e imparare»2. In una intervista afferma inoltre: «Questo nostro lavoro richiede due qualità. La prima è lo spirito di sacrificio. Abbiamo una missione sociale: capire e far capire le culture, capire e far capire gli altri. [...] La seconda qualità è la serietà assoluta. Devi sapere che nella tua audience c'è sempre qualcuno che la sa più lunga di te. Se consenti anche a una sola persona di scoprire che tu menti, che sei stato banale, impreciso o superficiale, allora avrai perduto»3.

Il giornalismo italiano, in base alle affermazioni del tutto condivisibili di Kapuscinski, è un giornalismo che ha evidentemente perduto in quanto assai spesso mente, è banale, impreciso e superficiale.

Alcuni esempi. La menzogna come fondamento. Nel magazine de Il Corriere della Sera, «Io Donna» del 28 febbraio 1998, sotto la rubrica «Eventi» a firma di Mario Perazzi, si poteva leggere: «Quando, nel 1973, all'età di 92 anni, Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno Maria de los Remedios Cipriano de la Santissima Trinidad Ruiz Picasso morì, il suo amico Jean Cocteau disse: «Che delusione, credevo che quel vecchio caprone fosse immortale». Poi aggiunse: «Però, a pensarci bene, adesso che ne resta soltanto il mito è davvero diventato immortale».

Oltre alla sequenza pittoresca di nomi attribuiti a Picasso, la cosa più sorprendente è che quando nel 1973 Cocteau fece quelle affermazioni sulla morte dell'amico Picasso, egli stesso era morto da dieci anni (Milly-la-Forét 1963)...

La banalità, l'imprecisione, la superficialità. Il 26 febbraio 2000, Antonio Monda pubblica una corrispondenza da New York su la Repubblica, in occasione dei 75 anni della rivista The New Yorker. Leggiamo: «La scelta del nome The New Yorker, corredato dall'immagine di un raffinato signore in monocolo e bombetta...»; l'articolo di Monda è illustrato dalla riproduzione della prima copertina della rivista dove è ben visibile il dandy newyorkese che sfoggia un monocolo con cui osserva una farfalla e ha in testa un inconfondibile cappello a cilindro...
Questo secondo esempio è spia evidente non solo dell'imprecisione e della superficialità del giornalista (come si fa a scambiare un cappello a cilindro con una bombetta), ma anche, soprattutto, della poca professionalità con cui viene costruito il «prodotto» giornale, luogo in cui nessuno controlla nessuno e pertanto si può far commentare l'attualità a personaggi defunti, e far definire un cappello a cilindro - che oltretutto è ben visibile nella vignetta pubblicata con un certo risalto grafico - una bombetta...

Quando poi il giornalista italiano affronta gli «orienti», luoghi carichi di rapinosi esotismi, può capitare anche di peggio.

Il grande inviato speciale

Goffredo Parise (Vicenza 1929 - Treviso 1986) è stato uno dei grandi narratori italiani della seconda metà del XX secolo. Probabilmente tra i più grandi della sua generazione, dall'esordio folgorante con Il ragazzo morto e le comete (1951), fino ai due bellissimi Sillabario I (1972) e Sillabario II (1982).
Viene anche considerato un grande giornalista e (soprattutto) un grande inviato speciale nei luoghi «caldi» del mondo: Cina (1966), Vietnam (1967), Biafra (1968).
Eppure, le corrispondenze che, tra il giugno e l'agosto del 1966, egli invia al Corriere della Sera, e che successivamente pubblica da Longanesi in volume sotto il titolo Cara Cina, costituiscono un esempio, alle volte imbarazzante, del pessimo giornalismo che si produce in Italia:

Uno yen equivale a circa duecentosessanta lire: lo stipendio del presidente Mao è di trecento yen [...], quello di un lavoratore medio oscilla tra i sessanta e i cento yen [...]. L'affitto di casa va dai cinque ai dieci yen e comprende l'acqua e la luce4.

Questo enunciato, così formulato dall'autore, è passato indenne attraverso schiere di correttori di bozze e redattori di case editrici per oltre un ventennio (il Corriere della Sera prima, la casa editrice Longanesi poi, per finire con la casa editrice Mondadori che include Cara Cina nel secondo volume delle Opere complete di Parise, nella prestigiosa collana I Meridiani - la nostra Pléiade, come è noto... - nel 1989).

Immaginiamo ora una ipotetica corrispondenza dagli Stati Uniti di Parise (che pure ne ha fatte e, a detta di tutti, di eccellenti), in cui si legge:

Una sterlina equivale a circa milleottocento lire: lo stipendio del Presidente degli Stati uniti è di seicentomila sterline all'anno [...], quello diun lavoratore medio oscilla dalle cinquanta alle ottanta sterline alla settimana, l'affitto di casa tra le venti e le cinquanta sterline alla settimana.

Il lettore del Corriere della Sera si stupirebbe non poco di apprendere che la moneta corrente in America è la sterlina invece del dollaro, come pure l'occhio attento del correttore di bozze della Longanesi prima e della Mondadori poi, non lascerebbe imbrattare la pagina da uno strafalcione tanto improponibile. Per la Cina le cose vanno in modo differente, evidentemente. L'autore, che pure ha trascorso oltre un mese in quell'esotico paese, non si è accorto, per tutta la durata del soggiorno, che la moneta corrente - che pure avrà avuto per le mani - in Cina è lo yuan, mentre lo yen è la moneta corrente in Giappone, sempre 'Oriente' ma un po' più a oriente...

Il linguaggio, si dice, è una convenzione. Per esempio esiste una convenzione per cui Den Haag in italiano diventa L'Aia, mentre in inglese The Hague.

Per la medesima convenzione la capitale della Cina in italiano diventa Pechino e in inglese Peking; mentre, per la medesima convenzione, la città di Shanghai così rimane in italiano come in inglese.

Parise preferisce Sciangai, ma non oserebbe certo scrivere Nuiorc in luogo del più convenzionale New York. Il curatore de I Meridiani, che pure ha lasciato vivere, in tutto il libro, yen, decide di intervenire sulla (francamente brutta) Sciangai e la trasforma in Shangay, forse perché una y finale è più 'orientale', più'esotica', di una semplicissima i.

Un'altra convenzione linguistica, universalmente accettata, regola la trascrizione dei nomi propri cinesi. Nel 1966, quando Parise scrive le sue corrispondenze dalla Cina, il sistema scientifico di trascrizione più diffuso era il Wade-Giles, a cui tutti ricorrevano, tranne i francesi che ne avevano inventato uno più adatto ai francofoni. I nomi propri cinesi sono composti, nella maggior parte dei casi, da tre ideogrammi, più raramente da due. Il primo ideogramma (su questo avremo modo di tornare più avanti) è il cognome, mentre il secondo o il secondo e il terzo sono il nome proprio. Se ci troviamo di fronte a un nome composto da tre ideogrammi, è (accettata e diffusa) consuetudine trascriverlo come segue: Mao Tse-tung; mentre se il nome è composto da due soli ideogrammi, si trascrive senza far ricorso al trattino: Chu Teh.

Parise, in tutte le sue corrispondenze come pure nel testo pubblicato in volume, trascrive i nomi propri cinesi come vengono pronunciati dall'interprete di turno che lo accompagna, ricorrendo a un uso disinvolto e arbitrario del trattino, cose queste che rendono ardua l'identificazione dei personaggi così nominati. Ecco dunque lo scrittore Kuo Mo-jo diventare Kuo-Mo-Cho (sembra uscito dalla Turandot di Puccini, piuttosto che da una storia della letteratura cinese contemporanea), mentre quando Parise cita Dostoevskij, la trascrizione è corretta e non un più semplice e orecchiabile Dostoieschi: lo scrittore russo è meno esotico e merita (forse?) più rispetto di un suo collega cinese...

Oltre tutto, nel corso del suo soggiorno cinese non si è accorto che in quei luoghi che gli facevano visitare in quel momento - estate del 1966 - era scoppiata la più devastante conflagrazione nel corpo politico?sociale della Cina contemporanea: La Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. A tal punto non aveva capito ciò che gli si srotolava attorno (come non aveva capito che la moneta cinese era lo yuan e non lo yen) da terminare il libro con una di quelle affermazioni 'poetiche' e (soprattutto) applicabili a più situazioni:

la Cina deve imparare dall'Occidente l'analisi e la sintesi: cioè la libertà. L'Occidente dalla Cina lo stile della vita e l'aiuto reciproco; cioè l'amore.

L'amore? Dalla Cina di «Bombardiamo il quartier generale»?

Parise, tra l'altro, si occuperà anche di Giappone, paese che visita più volte nei primi anni ottanta. Il 16 aprile del 1984, il Corriere della Sera pubblica una garbata stroncatura, firmata da Parise, del libretto di Roland Barthes sul Giappone, L'Impero dei segni, appena tradotto da Einaudi. La critica di Parise a Barthes è esplicita fin dal titolo sotto il quale è raccolta: «Troppo occidentale per l'enigma-Giappone». II ragionamento di Parise è che Barthes non ha capito quasi nulla del Giappone, in quanto ha adottato, nei confronti di questo misterioso paese, un approccio eccessivamente razionalistico, da occidentale appunto... Mentre, secondo il severo recensore, in Giappone «tutto è santori». La parola santori viene ripetuta più volte nel corso del breve articolo. Parise intendeva dire satori, ovvero l'illuminazione secondo il Buddhismo Zen; illuminazione che si raggiunge non attraverso un processo razionale, quanto piuttosto attraverso salti improvvisi di coscienza. Non si tratta, tuttavia, soltanto di una perfida consonante, la n, caduta casualmente (e quindi involontariamente) dalla penna dell'autore sul foglio, trasformando il satori in santori... Il Suntory (pronuncia: santori) è la più venduta marca di whisky giapponese (una delle poche cose che il viaggiatore Parise aveva riportato in modo corretto dal Giappone?). Pertanto: «tutto è santori in Giappone» equivale ad affermare, che so, «tutto è Sambuca Molinari in Italia»...

Il principe dei giornalisti

Indro Montanelli è il giornalista più famoso d'Italia. Forse l'unico giornalista (italiano) a godere di una fama da noi concessa solo ad attori e calciatori. Per i suoi novant'anni, è stato osannato proprio da tutti. Il suo compleanno ha azzerato rivalità professionali e incompatibilità ideologiche; gli è stato perdonato tutto: l'essere stato fascista, teorico della razza (ariana, naturalmente...), antifascista, monarchico, democristiano con il naso turato, insomma proprio tutto. È stato anche dichiarato il maestro indiscusso del giornalismo patrio, e additato alle giovani generazioni come fulgido esempio di buon giornalismo.

Ebbene, il 1° novembre del 1976, sul settimanale Oggi Illustrato, a pagina 9, nella sua oramai mitica «Stanza», si occupa dell'appena deposta moglie di Mao Jiang Qing (che lui trascrive con Ciang Cing, ancora una volta Puccini, dunque; ma al principe dei giornalisti non si deve certo richiedere rigore filologico...). Nei primi due paragrafi dell'articolo, Montanelli dichiara la propria totale ignoranza sulla Cina e sulle vicende cinesi di ieri e di oggi, e - da buon pedagogo affettuoso - dice:

E anzi vorrei mettere in guardia i lettori da ciò che ne leggono sui giornali, perché i giornali sono male informati, non essendoci in Occidente più nessuno che sia davvero al corrente di ciò che succede in Cina.

A questo punto, il lettore è avvertito che ciò che legge sulla Cina è del tutto inattendibile per il semplice fatto che nessuno in Occidente è "al corrente di ciò che succede in Cina". Subito dopo, Montanelli rassicura il lettore che, grazie a una magica proprietà transitiva, egli riuscirà a dire qualcosa sulla situazione cinese. Infatti, Montanelli ha avuto la fortuna di essere amico dell'unica persona, in Occidente, che conosceva veramente la Cina:
Uno solo ce n'era, ma è morto qualche anno fa. Si chiamava Edgar Snow, era americano, ma nato a Pechino da padre missionario, lì era cresciuto e aveva studiato, il cinese era un po' la sua lingua?madre, ed essendo uomo intelligentissimo e di mente molto aperta, ebbe anche il fiuto di capire Mao ai suoi debutti, di farselo amico, di seguirlo nella famosa e drammatica "Lunga marcia" condividendone le privazioni e i pericoli, e di diventarne il biografo.

Edgar Snow nasce a Kansas City (Missouri) nel 1905, il padre, James Edgar Snow, non era un missionario ma il proprietario di un giornale per allevatori e di una tipografia, il cui miglior cliente era il giornale locale, The Kansas City Star, che offrirà al ventiduenne Snow di lavorare come reporter. È l'inizio di una carriera straordinaria che porterà Snow nel 1928 in Cina, a Shanghai prima e a Pechino dopo, dove rimarrà per i successivi dodici anni, lavorando come corrispondente per diverse testate giornalistiche, London Daily Herald, New York Sun, Life, Sunday Evening Post. La lingua cinese era tutt'altro che la sua «lingua-madre» (prima di andare a Yan'an, Snow si preoccupa di trovare un interprete che lo accompagni, per il semplice fatto che «sebbene sapessi un po' di cinese, non era abbastanza per fare un lavoro professionale senza aiuto», sono sue parole)5, non partecipò alla «Lunga marcia» e non condivise affatto con Mao «privazioni e pericoli». Fece molto di più. Nel 1936, riesce a recarsi a Yan'an - dove i superstiti della «Lunga marcia», l'Esercito Rosso guidato da Mao, erano giunti dopo una fuga di diecimila chilometri a piedi, per evitare di essere sterminati dai soldati di Chiang Kai-shek -, incontra Mao e gli altri dirigenti comunisti cinesi, li intervista, li fotografa e ne scrive la storia in un libro, Red Star Over China (1938), che farà scoprire al mondo l'esistenza di un'altra Cina, la Cina dei «banditi rossi» (come venivano definiti dalla propaganda nazionalista di Chiang Kai-shek), la Cina di Mao Zedong.

Dopo averne, con disinvolta sicurezza e in poche righe, stravolto la biografia, Montanelli fa parlare il suo amico, morto quattro anni prima, e gli fa dire una sequenza incredibile di sciocchezze sulla Cina, su Mao e su Jiang Qing. Tutto l'articolo è una citazione (a memoria?) virgolettata di quello che Snow raccontava a Montanelli, quando quest'ultimo lo andava a trovare in Svizzera:

E così, una parola tira l'altra, mi raccontò la storia, di cui era stato il testimone oculare, dell'arrivo di Ciang Cing, allora nel '37, piccola attrice di teatro, nelle caverne dello Yenan [...].

Edgar Snow era stato a Yan'an nell'estate del 1936, dove incontra la seconda moglie di Mao, He Zizhen, non certo Jiang Qing, che arriverà a Yan'an solo nel 1938 e nel 1939 sposerà Mao. Difficile, anche per l'unico occidentale capace di comprendere la Cina, essere «testimone oculare» di un fatto mai accaduto.
La spudoratezza di Montanelli ha una sua gagliarda perentorietà che la rende addirittura attraente:

Qui Snow fece una pausa. Poi aggiunse: «Ora tutti i giornali d'Europa e d'America mi chiedono di scrivere cosa è successo e sta succedendo in Cina dalla rivoluzione culturale in poi. lo rifiuto perché sono abituato a documentare ciò che scrivo, e in questo caso non posso farlo».

Da ciò che Montanelli fa dire «al suo amico» Edgar Snow, questo ipotetico colloquio deve essere avvenuto alla fine degli anni sessanta. Ebbene Snow ha sempre seguitato a scrivere e a documentare ciò che scriveva sulla Cina, con frequenti viaggi in quel paese (dal 1960 fino alla sua morte nel 1972), di cui sono testimonianza Red China Today: The Other Side of the River (1961) e il bellissimo The Long Revolution, proprio sulla rivoluzione culturale, uscito nel 1972 pochi mesi dopo la morte dell'autore, di cui ampie parti erano state pubblicate, sotto forma di reportage, su Life e The New Republic.

A questo punto bisognerà parlare anche delle galline di Ardengo Soffici.

Martedì 20 aprile 1999, con la scusa di celebrarne il novantesimo compleanno, Beniamino Placido dedica, su la Repubblica, un perfido e bellissimo articolo a Montanelli «Maestro di giornalismo». Placido racconta un episodio occorsogli negli anni cinquanta, quando andò a trovare, per intervistarlo, il grande scrittore?pittore Ardengo Soffici, nella sua bellissima casa di campagna di Poggio a Caiano. Finita l'intervista, Soffici accompagna il giovane giornalista alla porta per congedarsi e mentre attraversano il cortile della casa, domanda all'ospite di osservare bene il cortile e di non fare come quel suo «collega» Montanelli. Incuriosito, Placido domanda che cosa ha mai fatto Montanelli. Soffici gli dice che anche lui è venuto a intervistarlo, e ha scritto che il cortile è pieno di galline che razzolano; lo esorta poi a rettificare, almeno lui, che lì, in quel cortile, non ci sono affatto galline che razzolano.

Qui Placido si lancia in un (apparentemente) sincero elogio della maestria giornalistica di Montanelli:

Ecco come si fa questo mestiere, pensai. Si può anche inventare, pur di riassumere sinteticamente, efficacemente il reale. Si possono immaginare stuoli di galline razzolanti per descrivere lo stile volutamente dimesso, agreste dell'abitazione del pittore-scrittore Ardengo Soffici. Proprio in quei giorni avevo letto lo splendido saggio di T. S. Eliot sull'Amleto dove si proponeva - per la prima volta - il concetto di «correlato oggettivo». Il modo migliore di presentare un'emozione, argomentava Eliot, non è quello di descriverla banalmente, bensì quello di ricorrere a un «objective correlative»: trovare un insieme di oggetti. una situazione, una catena di eventi che riproducano al meglio quella emozione particolare. Proprio quello che Montanelli aveva fatto. Invece di perdersi in chiacchiere descrittive, allo scopo di riprodurre l'emozione suscitata in lui dalla casa di Soffici, vi aveva ambientato - arbitrariamente - delle galline. Che per soprammercato vi razzolavano. Bravo, Indro.

L'elogio è, per lo meno, insidioso. Shakespeare faceva il poeta, Montanelli fa il giornalista; il primo poteva 'inventare' la realtà, il secondo dovrebbe semplicemente registrarla per iscritto, in modo corretto...

Alcuni anni fa, il mondo del giornalismo americano venne sconquassato da uno scandalo clamoroso. Una brillante giornalista venne insignita del prestigiosissimo Premio Pulitzer per il giornalismo, per un lungo reportage su un bambino nero drogato, che aveva commosso milioni di lettori. Successivamente, quello stesso premio le venne tolto, perché si scoprì che l'articolo era troppo ricco di "objective correlatives", ovvero era inventato. C'è un'etica anche nel giornalismo, almeno in quello americano...

Il critico cinematografico "filologo"

Il 24 ottobre del 1987, il giorno dell'uscita sugli schermi italiani de L'ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, il critico cinematografico del quotidiano Il Manifesto scrive, sul suo giornale (a pagina 11), una recensione, a dir poco entusiastica, del film. L'attacco è folgorante, quasi con le lacrime agli occhi:

Più erotico di Ultimo tango, più struggente del Conformista, epico come neppure 900. È L'ultimo imperatore, la biografia di Pu Yi, oltre due ore e mezzo di poesia dipinta in ideogrammi da Bernardo Bertolucci, birichino ma rispettoso della Cina, della sua storia e dei popoli su cui è planato con una macchina da presa mai così ronzante e materica. Un labirinto di metamorfosi: di una dinastia, di una rivoluzione e di un autore.

Dopo questo incipit, trasudante ammirazione e devozione da cinéphile militante, Roberto Silvestri prosegue:

L'ultimo imperatore, un film che brilla. Caldo, eterno, lo Shining, splendente, di Bertolucci.

I cinesi per dire luminoso (inteso come aggettivo), brillare (verbo infinito) e splendore (sostantivo), dicono solamente ming. La caduta della dinastia Ming racconta proprio la biografia dell'ultimo imperatore Ming della Cina, con molti flash-back e riempiendo il tessuto narrativo di tutte le suggestioni che il cinema ci ha dato [...] e ci darà.

Ebbene l'ideogramma di ming è il segno del Sole unito a quello della Luna. Funge nello stesso momento da verbo, nome e aggettivo. Per dire 'il luccichio del film', insomma si scriverebbe in cinese: 'il sole e la luna del film'. E questo film luccica.

La Luna Bertolucci l'ha già toccata, nella sua pellicola più introversa, noiosa e respingente. Ora, in piena fase solare, ottimistica, rende omaggio alle due facce della luccicanza, compresa quella del sole, con un film vivo e plastico come la natura, per nulla formalista, molto concreto.

C'è di che rimanere stupefatti sia di fronte a una prosa tanto immaginifica e barocca, sia di fronte alla competenza filologica con cui Silvestri smonta e rimonta l'ideogramma cinese ming.

Certo tutto quel luccichio è un poco esagerato e forse ha confuso lo spettatore Silvestri che, abbagliato da tanto «Shining», non ha seguito bene la storia narrata da Bertolucci (forse troppi flash-back?), visto che Pu Yi è l'ultimo imperatore dell'ultima dinastia cinese, ovvero della assai poco luccicante dinastia Qing (1644?1911) e non della luccicantissima dinastia Ming (1368?1644).

Il grande scrittore

Luigi Malerba è uno scrittore di straordinario talento narrativo, di cui ha dato prova nei romanzi, come pure nei bellissimi volumi di filastrocche e favole per bambini. È stato più volte in Cina, paese che ama e di cui ama, suppongo, la storia e la cultura.

Il 5 febbraio del 1998 appare, su la Repubblica, un suo articolo allarmato - e allarmante - fin dal titolo: «Se il computer ammazza l'ideogramma». Iniziamo subito male:

[...] Oltre a un'antica vocazione della Cina all'isolamento, una seconda Grande Muraglia è sempre stata la lingua, una barriera ancora difficile da superare nei rapporti con l'Occidente. Ma quali sono oggi i nuovi orizzonti della lingua cinese incalzata dalla modernità? è noto che per scrivere il cinese non si può usare una normale macchina da scrivere. In cinese le parole non sono scomponibili in lettere o in sillabe dal momento che a ogni parola corrisponde un ideogramma. Una macchina da scrivere cinese dovrebbe avere un numero di tasti corrispondenti a un intero vocabolario e quindi una tastiera più grande di un tavolo da biliardo.

Lasciamo perdere l'"antica vocazione all'isolamento", che appunto è "antica" e non proponibile per la Cina di oggi che è fin troppo aperta, e veniamo alla lingua cinese. Essa può costituire una barriera se non la si conosce, come pure la lingua russa, giapponese, hindi, tibetana, fino all'inglese e al francese: barriere, o Grandi Muraglie, che si abbattono (più o meno facilmente) con lo studio. Per scrivere il cinese non si può usare una macchina da scrivere nostra, basta usare una macchina da scrivere cinese, che non solo esiste ma non ha una tastiera grande come un tavolo da biliardo, per il semplice fatto che non deve contenere un intero vocabolario, ma poco più di cinquemila caratteri (tanti sono quelli usualmente adoperati per comunicare), e funziona come una sorta di macchina compositrice. Non è poi assolutamente vero che in cinese "a ogni parola corrisponde un ideogramma"; per esempio: libro in cinese è shu, mentre biblioteca è tushuguan, parola questa composta da tre caratteri.

Il computer ha affrontato e in parte risolto il problema. È stato creato recentemente un programma ad uso dei cinesi che funziona più o meno così: si scrive sul computer in caratteri latini la parola che come suono corrisponde, sia pure in modo sommario, all'ideogramma cinese [...]. A questo punto compare sul video l'ideogramma equivalente, ma il più delle volte ne compaiono dieci o anche venti. Chi scrive sceglie fra questi l'ideogramma giusto e procede con lo stesso sistema a formare gli altri ideogrammi. Il computer insomma non sa il cinese ma lo trascrive. Il procedimento esige che lo scrivente conosca non solo l'alfabeto latino ma sappia comporre i suoni relativi agli ideogrammi secondo il modello del pidgin, e cioè secondo la convenzionale trascrizione fonetica del cinese.

Il programma di cui parla Malerba non è ad uso dei cinesi - lo adopera chiunque nel mondo ha a che fare con la Cina e la lingua cinese -, funziona in modo leggermente diverso da come lo scrittore lo descrive e, soprattutto, il sistema di trascrizione a cui si ricorre non è il pidgin ma il pinyin. Il Pidgin è proprio un'altra cosa. È una lingua franca, inventata nel XVII secolo sulle coste cinesi da mercanti e avventurieri di lingua inglese e dai cinesi con cui commerciavano. «Pidgin» sembra sia una corruzione fonetica del vocabolo inglese «business», quindi il Pidgin-English era la lingua per fare commerci in Cina, che mescolava parole cinesi con parole inglesi (ma anche vocaboli spagnoli e portoghesi), come venivano pronunciate dai cinesi, e che si diffuse poi in tutto l'Oriente e il Sudest asiatico, fino a toccare l'Australia. Molte delle parole cinesi incorporate nel Pidgin, sono tuttora in uso - o comunque comprensibili - per chi parla inglese: amah, governante, chow chow, cibo, mangiare, taipan, capo, boss. Le parole inglesi incorporate nel Pidgin venivano trascritte come i cinesi le pronunciavano:flin, friend, Melican, American, tinkee, to think.

Il Pinyin, invece, è un sistema di trascrizione degli ideogrammi cinesi in alfabeto latino, inventato negli anni cinquanta in Cina, e che dal 1979 ha sostituito l'allora più diffuso sistema di trascrizione Wade-Giles (un esempio per tutti: in Pinyin i tre caratteri che compongono il nome del presidente Mao si rendono con Mao Zedong, mentre in Wade-Giles diventano Mao Tse-tung, Cina è Zhongguo in Pinyin, mentre Chung-Kuo in Wade-Giles). (N.d.r. Vedi la pagina dedicata ai sistemi si trascrizione)

E infine:

Il risultato di questo procedimento è che i cinesi se vogliono scrivere con il computer dovranno familiarizzarsi con l'alfabeto latino e finiranno per imparare a scrivere in una lingua occidentale. [...] L'ultima botta all'orgoglio nazionalista cinese sarà probabilmente il progressivo abbandono della scrittura ideografica. [...] Ma il processo di occidentalizzazione della scrittura sembra irreversibile e gli ideogrammi cinesi a lungo andare sembrano destinati a entrare nel vasto e nobile cimitero delle lingue morte.

Il sistema di trascrizione Pinyin viene insegnato nelle scuole elementari cinesi fin dalla seconda metà degli anni cinquanta, molto prima, pertanto, dell'avvento del computer. E poi, io conosco l'alfabeto latino e l'alfabeto inglese ma non per questo ho imparato a scrivere in qualche lingua occidentale (che so, in danese, per esempio)...
Oltre tutto, esistono due motivi assai cogenti che impediscono - e impediranno anche in futuro - l'abbandono della scrittura ideografica. Il primo è che in cinese il significato di una parola, quando questa viene pronunciata, è dato dal tono. Nel cinese parlato esistono quattro toni che conferiscono valore semantico al fonema. Esistono anche molti ideogrammi omofoni, che si pronunciano allo stesso modo e con lo stesso tono. Per esempio: ma (primo tono) significa «madre», mentre un altro ma (sempre primo tono) significa «pulire»; nella loro forma scritta ciò non costituisce alcun problema, poiché abbiamo di fronte due ideogrammi completamente diversi, ciascuno col proprio significato; quando tuttavia pronunciamo ma (primo tono), sarà soprattutto il contesto linguistico nel quale è inserito a far optare chi ascolta per un significato o per l'altro.

La lingua scritta cinese è ciò che determina l'unità linguistica per un miliardo e trecento milioni di cinesi. In Cina esistono centinaia di dialetti e di pronunce differenti, ciò che rende difficile la comunicazione linguistica orale tra regione e regione. Un esempio tra i tanti. I due ideogrammi che compongono Hong Kong, significano «porto profumato»; ma Hong Kong è come i cantonesi pronunciano quei due caratteri. Quegli stessi due caratteri vengono pronunciati da un abitante di Pechino Xianggang, ma significano sempre «porto profumato» e indicano sempre lo stesso luogo.

Questi sono i due motivi principali per cui è assai improbabile che il computer ammazzi l'ideogramma.

La rettifica dei nomi

In Cina (come in Giappone e come anche in Ungheria) è usanza radicata che il cognome preceda il nome proprio; cosa questa che produce titoli di testa sui giornali italiani (come pure negli articoli che si srotolano sotto quelle incaute titolature), quando si tratta di personaggi provenienti da quell'esotico e sconosciuto pianeta, a dir poco imbarazzanti e di certo non degni di un paese come l'Italia che è stato tra i primi in Occidente a 'scoprire' (culturalmente?) la Cina (i nomi sono sempre gli stessi: Marco Polo, Matteo Ricci...).

Da quando i cineasti cinesi hanno cominciato - dalla seconda metà degli anni ottanta - a frequentare i festival cinematografici occidentali e a vincere importanti riconoscimenti internazionali, sui giornali italiani si sono scritti fiumi di inchiostro su Yimou e Kaige, autori di film famosi come Lanterne rosse e Addio mia concubina. Eppure quegli stessi (coltissimi) critici cinematografici non oserebbero scrivere sugli autorevoli giornali per cui lavorano, di Bernardo autore de L'ultimo imperatore o di Warren regista di Reds (a meno di non voler comunicare al lettore un grado notevole di intimità amicale con il regista in questione, o di essere una mezza?calza malata di snobismo, ciò che gli inglesi definiscono, appunto, un namedropper). Qualsiasi responsabile della pagina degli spettacoli di qualsiasi giornale italiano, aggiungerebbe d'ufficio a Bernardo e a Warren i cognomi inspiegabilmente eliminati dal critico cinematografico: Bernardo Bertolucci, Warren Beatty...

Nessuno ha, fino ad oggi, fatto lo stesso con Zhang Yimou e Chen Kaige, cineasti provenienti da un'altra galassia...

Non va assolutamente meglio quanto si ha a che fare con personaggi politici di cospicua importanza nelle faccende mondiali, provenienti sempre da quell'inconoscibile pianeta che è per noi la Cina.

Proviamo a immaginare un prestigioso quotidiano nazionale che titola: «Bill, libera Silvia Baraldini!» e come sottotitolo: «Rifondazione comunista attacca il presidente americano in visita in Italia». Scoprire che il disinvolto uso di Bill sta, ovviamente, per il più corretto Presidente Clinton, può significare solo una volontà dispregiativa nei confronti dell'«Illustre ospite»...

Nessuno, probabilmente, si è stupito nel leggere su la Repubblica del 21 marzo 1999, a pagina 14, un titolo come: «Zemin, libera quei vescovi» accompagnato da un sottotitolo che legge: «Il Vaticano attacca il presidente cinese in visita in Italia». Il presidente cinese fa di cognome Jiang e di nome proprio Zemin, come il presidente americano fa di cognome Clinton e di nome Bill, l'unica differenza è che tutti sanno del secondo e nessuno del primo.

Ma ciò che rende quel titolo oltre che imbarazzante, soprattutto assurdo, è che nella stessa pagina 14 è pubblicata una corrispondenza da Venezia (prima tappa del viaggio italiano del presidente Jiang) di Renata Pisu, in cui si legge: «D'altra parte quello che il presidente Jiang (cognome) e Zemin (nome personale) proprio non riesce a capire è perché in Italia i giornali lo chiamino per nome, cioè Zemin: loro in Cina non chiamano il nostro Scalfaro, con un confidenziale Oscar Luigi. No, loro sono più formalisti, di certo più educati, ovvero più preparati».

Se l'uso disinvolto del nome proprio invece del cognome imbratta le pagine dei giornali italiani, non va certo meglio quando quei misteriosi nomi e cognomi vengono pronunciati da illustri (considerati anche colti, spesso) giornalisti televisivi pubblici e privati. Costoro morirebbero di vergogna se gli accadesse di pronunciare nel corso di un telegiornale che so " Il Dr. Freud" così come è scritto (tutti sanno del resto che la pronuncia corretta di quell'austero cognome è "Froid"); mentre nessuno si è accorto che il cognome del presidente cinese Jiang si pronuncia "Gian" e non come hanno ripetuto imperterriti più e più volte quei giornalisti televisivi famosi, "lang" ... Ma la Cina è un altro pianeta, dopo tutto...


1 Per una trattazione più ampia dell'argomento qui affrontato, rimando al mio saggio "La Sindrome Cinese", in Prometeo, anno XVII, n. 68, dicembre 1999, pp. 38?51.
2 Cfr. R. Kapuscióski, Il cinico non è adatto a questo mestiere, Roma, Edizioni e/o, 2000, pp. 30?31.
3 Cfr. P. Rumiz, "Intervista a Ryszard Kapusciriski", in la Repubblica, 27 novembre 1999.
4 Cfr. G. Parise, Cara Cina, Milano, Longanesi, 1967, p. 61.
5 Cfr. E. Snow, Random Notes on Red China, Cambridge (Mass.), Harvard University Press. 1957, p. vii.


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