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CINA>FILOSOFIA>CONFUCIANESIMO

Il Confucianesimo

Sommario - Sommario - I. Concezioni preconfuciane - II. La figura e l'opera di Conjucio - III. La figura di Confucio secondo la tradizione - IV. Il pensiero conjuciano - V. Il continuatore di Confucio: Mencio - VI. Xunzi e la disputa sulla bontà della natura umana - VII. L'ordine sociale confuciano - VIII. Il confucianesimo nella storia cinese - IX. Il confucianesimo e la Cina moderna e contemporanea.

Col nome di confucianesimo si intende quel complesso di dottrine filosofiche, a carattere prevalentemente etico-morale, il cui maggiore esponente è stato Confucio (551-479 a.C.). Tale corrente di pensiero è più conosciuta, in Cina, col nome di "scuola dei letterati" (rujia), termine senz'altro più corretto: Confucio non può esserne considerato l'iniziatore né mai affermò di esserlo. Si tratta, infatti, di tutta una concezione del mondo e dei rapporti sociali che si era venuta formando fin dall'antichità più remota e della quale Confucio fu il sistematore, in un periodo di crisi e di particolare tensione della storia cinese. Il confucianesimo ebbe anche altri maestri oltre a Confucio - come Mencio (372-289 a.C.), Xunzi (289?-238? a.C.) e Zhu Xi (1130-1200 d.C.) - ma a lui comunque va il merito di avere fissato, per la prima volta, il canone dei libri classici sui quali si è fondata tutta la speculazione successiva. Giustamente, pertanto, tale scuola viene conosciuta in Occidente con questo nome, che è stato usato la prima volta dai missionari cattolici nel XVII sec.

Il confucianesimo è stato considerato anche come una delle religioni della Cina, insieme al taoismo, al buddhismo ed alla religione tradizionale delle campagne. Sebbene esso, come si vedrà, non si proponga di risolvere alcuno dei problemi che usualmente sono considerati come religiosi, quali quello della trascendenza o dei novissimi, né porti all'umanità alcun messaggio di salvezza, pure può essere ritenuto una religione nel senso sociologico così come lo considerò Max Weber: come tale esso ha influenzato profondamente il modo di vivere dei cinesi e, con la sua successiva diffusione, dei giapponesi, dei coreani e dei vietnamiti, contribuendo a determinare lo sviluppo stesso della storia dei rispettivi Paesi.

I. CONCEZIONI PRECONFUCIANE - Confucio e la sua scuola hanno esercitato su tutto lo sviluppo del pensiero e della letteratura cinese un'influenza tale che oggi è difficile distinguere il pensiero confuciano vero e proprio dalle idee filosofiche e religiose delle epoche precedenti. È tuttavia possibile ricostruire le linee generali del pensiero sul quale i confuciani inserirono la loro speculazione. Si tratta di idee e teorie sull'origine del mondo e dei rapporti tra le cose, idee e teorie che, accettate sostanzialmente dal confucianesimo, pure risalgono molto indietro nel tempo.

Secondo queste dottrine, peraltro fatte proprie anche dai taoisti, il mondo avrebbe origine dalla lotta reciproca e dall'unione di due principi fondamentali, yang e yin, rispettivamente principio maschile e principio femminile. Da questa unione dialettica deriva tutto il mondo sensibile il cui manifestarsi, risultato della lotta tra due opposti, segue una via ideale, il dao, nella quale tende immancabilmente a costituirsi, venire a mancare e ricostituirsi un equilibrio che, di per sé, è continuamente instabile. Yang, principio positivo, maschile, è il principio della forza, della luce e di tutto ciò che può esservi ricondotto; yin è il suo contrario, principio femminile, negativo, dell'oscurità e della debolezza in genere. L'un principio, però, non può fare a meno dell'altro né esserne completamente separato: il primo presuppone il secondo e viceversa, senza che mai uno dei due possa ottenere una vittoria definitiva o prevalere escludendo il suo contrario dialettico.

Una simile concezione deve probabilmente la sua origine al carattere agricolo della civiltà cinese. Il contadino cinese, da sempre sottoposto all'incertezza dei raccolti, considerò le forze della natura, di volta in volta, amiche e nemiche, positive o negative a seconda delle circostanze; la sua prosperità gli apparve chiaramente dipendere dal precario equilibrio di forze distruttrici ed animatrici, yin e yang, in continua e terribile lotta tra di loro. Il succedersi del dì e della notte, l'alternarsi delle stagioni, le stesse fasi della vita umana, animale e vegetale, la differenziazione dei sessi, la luce e l'ombra, sono tutti fenomeni riconducibili alla prevalenza, alterna e mai totale, di yang su yin e viceversa: la vita del cosmo è regolata da questi fattori ed ogni disordine sul piano celeste causa ed è causato da un disordine sul piano umano. Il comportamento dell'uomo dovrà modellarsi, quindi, su quello della natura e compito del governante sarà di fungere da tramite e da unificatore dei diversi piani attraverso i quali si articola la vita cosmica. L'ideogramma cinese che esprime il concetto di re, principe, governante (wang) è composto da tre linee parallele orizzontali (terra, umanità, cielo) attraversate da una verticale che sta a rappresentare, appunto, l'idea di questa azione unificatrice. L'etica che deriva da questa concezione del mondo e della vita è un'etica necessariamente moralistica: la natura è il modello al quale deve fare riferimento l'uomo per stabilire le sue regole di comportamento e ad essa egli dovrà costantemente adeguarsi. La famiglia e lo Stato intero, inteso come una grande famiglia, avranno un'importanza fondamentale nella concezione tradizionale cinese della vita.

II. LA FIGURA E L'OPERA DI CONFUCIO - Confucio (Kongzi o Kongfuzi, donde la latinizzazione Confutius) visse a cavallo tra il VI e il V sec. a.C. ed era originario dello stato di Lu (attuale Shandong). La sua vita si svolse in un'epoca di grandi trasformazioni politiche e sociali e la sua opera è stata diversamente giudicata, specie nei tempi moderni: chi ha voluto vedere in lui un riformatore progressista, il cui insegnamento tendeva a riformare i costumi perché fossero al passo coi tempi, e chi, invece, un pensatore reazionario che cercava di far girare all'indietro la ruota della storia, tentando di restaurare un ordine sociale che, in effetti, volgeva al tramonto.

Studioso attento e appassionato di tutto ciò che restava delle antiche tradizioni, iniziò ben presto a raccogliere attorno a sé dei giovani ai quali insegnava le sue dottrine, che consistevano soprattutto nel trasmettere la saggezza e gli esempi degli antichi ed alle quali, pertanto, non attribuiva alcun carattere originale. Usava infatti dire che trasmetteva soltanto ciò che gli antichi avevano pensato e praticato e lo studio consisteva per lui soprattutto nella ricerca di modelli di comportamento tratti dal passato, quando le virtù non erano ancora state offuscate.

Il suo insegnamento verteva essenzialmente sull'arte del governo e sul comportamento personale socialmente inteso. Il problema politico, del reggimento dello Stato, era effettivamente di capitale importanza a quel tempo, quando la Cina assisteva ad un fenomeno di progressiva parcellizzazione del potere statale, col sorgere e l'affermarsi di principati praticamente indipendenti dal re della dinastia Zhou (1027-221 a.C.) che conservava a Luoyang, la capitale, un potere soltanto di nome. Però Confucio non poté sperimentare che una sola volta le sue capacità di amministrare, tra il 501 e il 500, quando il duca di Lu, il suo paese natale, gli conferì alcuni incarichi tra cui quelli di ministro della giustizia e di intendente dei lavori pubblici. Nonostante le amplificazioni della tradizione, che vuole che in questo breve periodo lo Stato fosse amministrato in maniera perfetta (tanto che le leggi penali, mentre egli era ministro della giustizia, non venivano più applicate per mancanza di delinquenti e di delitti) e che Confucio fosse estromesso, alla fine, dal governo soltanto per effetto di basse invidie e malevole insinuazioni calunniose, in realtà non riuscì ad ottenere il successo politico nel quale aveva sperato, scontentando praticamente tutti col suo rigoroso formalismo.

Deluso e disgustato tornò all'insegnamento privato, peregrinando nei diversi Stati della Cina, raccogliendo discepoli sempre più numerosi (fino a tremila, dice la tradizione) e dedicandosi alla raccolta di testi antichi, in poesia ed in prosa, dei quali compose due antologie, il "Classico della poesia" (Shijing) ed il "Classico dei documenti" (Shujing), che raccolgono tutti quei testi che egli considerava consoni al suo insegnamento. Dopo alcuni anni di peregrinazioni tornò a Lu, dove scrisse una storia in forma aridamente annalistica del principato, "Primavera e autunno" (Chunqiu), che è servita di modello, insieme ai commentari che vi furono aggiunti nelle generazioni successive, a tutta l'annalistica cinese successiva. Gli ultimi anni li trascorse dedicandosi allo studio del "Classico della mutazione" (Yijing), cercando di comprendere, attraverso la combinazione di linee intere e spezzate, simboleggianti rispettivamente il principio yang ed il principio yin, il senso della vita e la situazione cosmica attuale. Terminò i suoi giorni a Lu.

Mentre in vita non aveva avuto che delusioni, dopo la morte gli vennero conferiti gli onori più grandi che ad un uomo sia stato concesso mai di ottenere e nel corso dei secoli, quando il confucianesimo divenne dottrina ufficiale dello Stato cinese, gli venne tributato un vero e proprio culto, anche se di carattere esclusivamente civile. Postumamente gli vennero conferiti titoli onorifici di ogni tipo ed ai suoi discendenti, giunti oggi alla sessantacinquesima generazione, onori e cariche particolari che ne fecero una stirpe privilegiata, di una nobiltà che traeva origine non dall'esercizio delle armi ma dalla cultura.

III. LA FIGURA DI CONFUCIO SECONDO LA TRADIZIONE - Confucio ci viene presentato dalla tradizione come l'uomo della regola e dei riti. Di semplicità estrema in privato, in pubblico assumeva atteggiamenti solenni e formali. Nel tempio degli antenati e a corte si esprimeva sempre con sommo rispetto. Parlava coi funzionari inferiori con fermezza e con quelli superiori con amabile libertà: nei confronti del principe era pieno di venerazione e rispetto. Particolarmente osservante del protocollo, in ogni occasione, uniformava il suo vestiario alle regole ed alle circostanze, con grande cura dei particolari. Quando doveva fare un'offerta rituale, si preoccupava di purificarsi prima con un bagno e di osservare l'astinenza da tutti i cibi che avrebbero potuto dare al suo corpo cattivi odori. Anche nel bere e nel mangiare Confucio era regolato. Non mangiava nulla di ciò che, secondo le concezioni igieniche del suo tempo, pensava potesse nuocere alla salute. Anche nel bere badava a limitarsi al fine di non giungere mai a perdere conoscenza e dominio di sé. La quantità di carne che mangiava doveva essere pari alla quantità di verdura. Faceva grande uso di zenzero perché si diceva che rischiarava l'intelligenza. A tavola non voleva discutere di problemi gravi in quanto diceva che bisognava occuparsi solo di ciò che si sta facendo. Attento in tutto alle regole, era particolarmente osservante di quelle relative al lutto, nel quale si esprimeva concretamente la virtù della pietà filiale, che considerava uno dei fondamenti del comportamento umano.

Aveva un concetto molto elevato di se stesso. Per spiegare il suo insuccesso nella vita politica, dato che dopo la breve esperienza di Lu nessun principe l'aveva più chiamato a svolgere funzioni pubbliche, diceva che la storia ha conservato il ricordo d'un gran numero di persone che furono celebri a causa della loro virtù, ma che non ebbero pari successo nella vita pratica. L'unica cosa di cui l'uomo è veramente padrone è il suo cuore, il suo modo di sentire, mentre il successo e l'insuccesso dipendono dalle circostanze. L'insuccesso, inoltre, non può essere considerato di per se stesso un male, perché talvolta può essere un mezzo per ritemprare l'animo ed il carattere. Anche l'ambiente, secondo Confucio, esercita un grande influsso. Possono esistere persone che, sotto un sovrano saggio, pervengono ai più grandi onori e vedono riconosciuta la loro virtù; le stesse, sotto un tiranno, finirebbero sul patibolo. Successo ed insuccesso, prosperità e disgrazia non sono affatto la misura del valore intrinseco dell'uomo, che si misura invece sulla base della cultura e dell'aderenza alle regole, ai riti.

IV. IL PENSIERO CONFUCIANO - A parte la cronaca del principato di Lu, intitolata "Primavera ed autunno", a Confucio non può essere direttamente attribuita alcuna opera. né la tradizione ci parla di altre opere scritte da lui e che non ci sono pervenute. I libri classici del confucianesimo sono essenzialmente i "Cinque classici" (Wujing) ed i "Quattro libri" (Sishu). I primi sono costituiti, oltre che dalla "Primavera ed autunno", dalle antologie raccolte da Confucio (v. sopra), dal "Classico dei mutamenti", che era preesistente, e dalle "Memorie sui riti" (Liji) che è opera più tarda e raccoglie norme di comportamento che la sua scuola volle attribuire a Confucio. Anche i "Quattro libri" non sono sicuramente opera del maestro: di questi uno, il Mengzi, riferisce esplicitamente i discorsi e le idee d'uno dei maggiori continuatori del suo pensiero, gli altri, cioè la "Grande scienza" (Daxue), il "Giusto mezzo" (Zhongyong) e i "Dialoghi" (Lunyu), composti molto tempo dopo la sua morte, non sono peraltro esenti da interpolazioni e aggiunte. Come è difficile distinguere il pensiero di Confucio da quello delle epoche precedenti, così è altrettanto arduo sceverare quali elementi del pensiero a lui attribuito siano in realtà frutto della speculazione dei suoi discepoli. Egli era considerato il maestro per eccellenza, tanto che l'espreszione zi yue, cioè "il maestro disse", assunse lo stesso valore dell'ipse dixit degli aristotelici in Occidente, per cui spesso per dare maggiore valore ad una affermazione non si esitava ad attribuirla al filosofo di Lu, anche se era stata concepita ed elaborata secoli dopo la sua morte.

Quella che dovrebbe essere l'opera dalla quale potrebbe emergere più chiaro il pensiero di Confucio, cioè i "Dialoghi" , manca di ogni sistematicità, ed anche i titoli che i commentatori hanno voluto dare ai diversi capitoli corrispondono solo parzialmente al contenuto. Lo stesso può dirsi di un'altra opera che, anche se non inserita tra i libri del canone confuciano, è ugualmente autorevole, i "Discorsi familiari di Confucio" (Kongzi jiayu). Ambedue le opere sono delle raccolte di brevi dialoghi, aforismi, risposte a domande, disposte tutte senza un ordine preciso, adatte per citazioni estemporanee, ma lontane da un'organica esposizione di un sistema di pensiero.

Da tutti questi testi, comunque, risulta che Confucio non volle mai interessarsi di questioni soprannaturali e che trascendessero l'esperienza umana. Non v'è, nel confucianesimo, alcuno spunto soteriologico. L'uomo potrà realizzare se stesso e i suoi valori soltanto nella società ed il fine ultimo della vita umana viene considerato in funzione dell'attività che ogni singolo svolge nella sua posizione sociale che, pur se suscettibile di miglioramento, è sempre, al momento, fissa e ben determinata.

Per raggiungere le finalità proprie alla posizione ed agli obblighi sociali di ciascuno, sarà necessario che la conoscenza umana si fondi su qualcosa di fisso, di inequivocabile, che non lasci adito a dubbi (la tradizione dice che Confucio a quarant'anni non ebbe più dubbi!) e ciò potrà realizzarsi soltanto se ogni cosa, ogni fatto sarà conosciuto realmente per quello che è, se i nomi saranno corrispondenti all'oggetto cui si riferiscono. Si tratta della cosiddetta "rettificazione dei nomi" (zhengming), chiave di volta di tutto il pensiero confuciano. Essa garantirà la conservazione dell'ordine sociale, in accordo con le leggi della natura. "Se i nomi non vengono rettificati, le parole non sono in accordo con la realtà delle cose; se le parole non sono in accordo con la realtà delle cose, gli affari non possono essere portati a compimento; se gli affari non sono portati a compimento, i riti e la musica non vengono coltivati; se i riti e la musica non vengono coltivati, le punizioni non vengono assegnate nel modo giusto; se le punizioni non vengono assegnate nel modo giusto, il popolo non sa come muovere le mani ed i piedi. Perciò il saggio nomina solo ciò di cui può parlare, parla solo di ciò che sa fare: nelle parole del saggio non ci può essere nulla di inesatto" ("Dialoghi", XIII, 3). È evidente, dal passo riportato, l'importanza attribuita da Confucio all'osservanza dei riti ed all'armonia musicale, che garantiscono la realizzazione dell'ordine nella società, ordine inteso come aderenza a regole di comportamento armoniche. Le punizioni esisteranno soltanto come correttivo al disordine. Il popolo saprà sempre come comportarsi, se educato all'osservanza dei riti e alla musica. Tutto ciò sarà la conseguenza necessaria della "rettificazione dei nomi", vera e propria coincidenza tra parole e fatti.

Per realizzare, in pratica, tale coincidenza, occorre dedicarsi, secondo Confucio, allo studio delle tradizioni, dalle quali si potrà trarre la capacità di comprendere il significato di tutte le cose e, in particolare, si potrà raggiungere la consapevolezza dei propri doveri. Per questo Confucio si dedicò a fondo allo studio della storia, scrisse un libro storico, raccolse documenti storici: la storia, da lui paragonata a uno specchio, è l'unica fonte alla quale può attingere l'umanità per conoscere se stessa. Nei grandi dell'antichità e nelle loro opere possono essere ritrovati i modelli di comportamento del presente. A questa ammirazione e rispetto per tutto ciò che appartiene al passato va riconnesso il culto degli antenati, tradizionale in Cina ed accettata pienamente dal confucianesimo, e la pratica della virtù della pietà filiale (xiao) che impronta di sé tutti i rapporti familiari. I doveri dell'uomo, secondo Confucio, consistono soprattutto nel praticare le due virtù fondamentali della "rettitudine" (yi) e dell'"umanità" (ren). Rettitudine consiste nel seguire l'imperativo che impone ad ogni persona di osservare i doveri derivanti dalla sua posizione sociale. Umanità è la virtù della sensibilità tipica dell'uomo, che consiste nell'amare il prossimo al quale non si deve mai fare ciò che non si vorrebbe fatto a se stessi. Si tratta di virtù eminentemente sociali (Granet), che non si possono coltivare altro che in contatto con altri uomini e nell'ambito di una società civile.

Per identificare i doveri prescritti dalla virtù della rettitudine è necessaria un'adesione completa al mondo ed alle sue manifestazioni. Per modello della società umana verrà assunta la famiglia, forma primitiva e spontanea di associazione naturale tra uomini. Lo Stato verrà concepito come una grande famiglia, il monarca sarà "padre e madre" (fu-mu) per i sudditi e questi gli dovranno rispetto, amore ed obbedienza come figli. I singoli individui, a loro volta, dovranno essere attivi socialmente, sia nella famiglia che nello Stato. Essi non potranno in alcun modo sottrarsi ai doveri connessi con la loro posizione sociale né potranno adempierli in vista di un profitto personale: per Confucio l'uomo deve fare e "fare per niente". La pace e la prosperità del popolo e del Paese si realizza soltanto se ciascuno compie disinteressatamente il proprio dovere.

Il "fare" confuciano si estrinseca per mezzo dei riti (li) che sono un complesso di norme che regolano i rapporti umani, indicando la strada giusta da seguire, in ogni occasione. Per ogni rapporto umano e sociale sono stabiliti dei riti. In particolare vengono prese in considerazione cinque tipi di relazioni sociali, alle quali possono essere ricondotte per analogia tutte le altre. Esse sono quelle tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra fratello maggiore e fratello minore, tra marito e moglie e tra amico e amico. Non si tratta mai di un rapporto di parità: anche nella relazione tra amico e amico si distingue l'amico più anziano da quello più giovane. Per ciascuna di queste relazioni Confucio, e più di lui la sua scuola, codificò regole di comportamento assai rigide, limitative della libertà e dell'autonomia dell'individuo. Nel sistema confuciano, infatti, l'unica libertà per l'uomo è quella di migliorarsi in vista della piena adesione del suo comportamento al modello propostogli dal complesso dei riti.

Questo miglioramento può giungere fino alla perfezione totale. Gli uomini sono tutti, più o meno, dotati delle medesime qualità, salvo alcuni, gli shengren, termine che può essere tradotto con "santi". Tutti gli altri sono simili per qualità naturali e diversi soltanto in ragione delle abitudini contratte. Per tutti è possibile, quindi, elevarsi ed il mezzo è lo studio che può trasformare un "uomo comune" (shuren) in "uomo superiore" (junren). L'"uomo superiore" è quasi all'altezza del "santo", con la differenza che mentre questi è tale per virtù innata, l'altro raggiunge la sua posizione "studiando a fondo la letteratura ed impadronendosi dei riti" ("Discorsi", VI, 25). A questi uomini, che si sono perfezionati e migliorati attraverso lo studio, può essere affidato il governo della cosa pubblica e l'amministrazione: di qui l'origine del funzionario-letterato, scelto attraverso un sistema di esami, che fu tipico della Cina confuciana.

V. IL CONTINUATORE DI CONFUCIO: MENCIO - Meng Ke o Mengzi, il filosofo Meng, conosciuto in Occidente come Mencio, dalla latinizzazione Mentius del nome e dell'appellativo, viene considerato come il principale continuatore di Confucio, anche se non ne fu discepolo diretto, essendo vissuto oltre cent'anni dopo la sua morte. Il libro che comprende i suoi discorsi è stato inserito nel canone dei classici confuciani ed è, infatti, uno dei "Quattro libri". Mencio sviluppa soprattutto due punti della dottrina confuciana: la politica ed il problema della natura umana e dei suoi sentimenti innati. Anch'egli, come Confucio, trascorse la vita insegnando e fu consultato più volte da re e principi del suo tempo, senza però mai assumere cariche pubbliche.

Confucio aveva insegnato che il sovrano deve curare innanzitutto il benessere del popolo. In Mencio questo principio si amplia e l'accento viene posto sui diritti del popolo. Esso infatti è l'elemento più importante di uno Stato; seguono gli spiriti della terra e delle messi (cioè il complesso dei rapporti economici e di produzione) e infine il sovrano che ha il compito di garantire l'armonia per tutti. Se il sovrano viene meno ai suoi doveri, si squalifica, perde la qualità di sovrano, ogni ribellione contro di lui è legittima ed egli può essere scacciato e messo a morte. Infatti il potere deriva al sovrano da un espresso "mandato celeste" (tianming) che, come gli è stato dato, così può essergli tolto; il mandato è concesso soltanto nell'interesse del popolo. Questa teoria, già presente nel "Classico dei documenti" e pertanto accettata da Confucio, viene sviluppata ed esposta particolarmente da Mencio.

Per governare secondo le virtù confuciane di rettitudine e umanità, escludendo ogni preoccupazione di profitto, il principe deve occuparsi del benessere e dell'educazione dei suoi sudditi. Non si può esigere un comportamento corretto da un popolo affamato: il primo problema da risolvere è, pertanto, quello economico. Il grano, nei magazzini familiari, deve essere abbondante ed i vecchi debbono portare abiti di seta. Il problema economico, inoltre, si risolve con una adeguata divisione del lavoro: a coloro che sostenevano la tesi estremista per cui era dovere del sovrano coltivare anch'egli la terra con le sue mani, Mencio opponeva l'argomento che, come esistono artigiani specializzati che filano la seta e tessono le stoffe necessarie per la fabbricazione dei vestiti, così pure debbono esistere delle persone che si dedicano esclusivamente all'arte del governo. Il lavoro, per Mencio, si suddivide in due tipi fondamentali: manuale e intellettuale; coloro che effettuano il lavoro intellettuale occupano la posizione più elevata, ad essi compete il dovere e il diritto di governare.

Se da una parte è necessario assicurare il benessere economico del popolo, questo deve anche essere educato. Secondo Mencio ogni uomo possiede in sé i semi delle virtù, ma questi debbono germogliare e svilupparsi. Questo potrà essere raggiunto soltanto con lo studio che consentirà, a chiunque vi si applica, di raggiungere il pieno possesso e la pratica delle virtù fondamentali.

VI. XUNZI E LA DISPUTA SULLA BONTÀ DELLA NATURA UMANA - Secondo Mencio la natura umana è intrinsecamente buona, in quanto ogni uomo possiede i semi delle virtù e non ha che da farli sviluppare. Sull'argomento Confucio non si era mai pronunciato, ma le teorie di Mencio non vennero pacificamente accettate. Anche se questi portava l'esempio delle reazioni spontanee di solidarietà e di aiuto che prova chiunque quando vede un bambino cadere in un pozzo, pure esistevano molti altri argomenti atti a provare il contrario. Di questi fu il propugnatore Xunzi, vissuto una generazione dopo Mencio. Xunzi aveva passato gran parte della sua vita impegnato in cariche pubbliche e non dedicandosi esclusivamente o quasi all'insegnamento, come Confucio e Mencio. Aveva quindi esperienza e pratica dell'umanità. Sulla base dell'esperienza Xunzi poteva affermare, nel capitolo XXIII della sua opera, che la natura umana è intrinsecamente cattiva, che l'uomo tende spontaneamente al male e che tutto ciò che c'è di buono in lui discende dall'educazione acquisita. Se esistono dei "semi", contrariamente a quanto penava Mencio, essi sono di tutt'altra natura. L'uomo nasce con l'amore per il lucro, è per natura collerico e rissoso, le passioni dei sensi lo dominano ed asserviscono completamente, se non frenate. Quelli che a prima vista potrebbero sembrare "semi" del bene, come l'amore per i propri figli, non sono altro che istinti che egli ha in comune con gli animali. Però l'uomo possiede qualcosa che gli animali non hanno, l'intelligenza, e grazie ad essa egli può elevarsi, coltivando se stesso e sforzandosi di diventare buono, utile a sé ed agli altri.

Anche per Xunzi, quindi, lo studio è di capitale importanza; ma per coloro che non riescono a studiare e non possono perciò migliorarsi, si può ugualmente fare qualcosa, emanando leggi e regolamenti che, imposti e fatti osservare con la forza, garantiscono che tutti si comportino secondo umanità e rettitudine. I saggi hanno il compito di indirizzare l'umanità verso il cammino della virtù. Mentre Mencio e Confucio avevano sempre ammirato l'antichità come un modello al quale si doveva cercar di tornare, Xunzi introduce l'idea del progresso storico, guidato dagli uomini colti e superiori che indirizzano gli altri uomini verso il bene. Dalle dottrine di Xunzi, che destarono aspre polemiche in seno alla scuola confuciana, si sviluppò la scuola dei cosiddetti "legisti" (fajia), propugnatori del governo non più attraverso i riti ma attraverso le leggi, che contribuirono in modo determinante alla nascita di uno Stato meritocratico e centralizzato, quale fu quello che si costituì nel III sec. a.C., l'impero cinese, durato fino a pochi decenni or sono.

VII. L'ORDINE SOCIALE CONFUCIANO - Il confucianesimo si prestò in modo particolare a consolidare, sostenere e proteggere l'ordine politico e sociale dell'impero cinese e la sua influenza non è ancora scomparsa dalla Cina, se esponenti come Liu Shaoqi e Lin Biao hanno potuto, alcuni decenni fa, essere tacciati di "confucianesimo" (vedi Campagna anti-Confucio). Da quando divenne dottrina ufficiale dell'impero all'inizio della nostra era, esso fu l'ideologia che permise il consolidarsi di quello Stato burocratico centralizzato che, fondato dai legisti, trovò nei confuciani coloro che ne utilizzarono le strutture. La teoria delle relazioni confuciane, applicata non solo all'ambito familiare ma a quello più vasto dello Stato e perfino all'ordine internazionale, la pratica delle virtù, l'osservanza dei riti furono garanzia di conservazione e di stabilità che nulla riuscì a scalfire, neanche l'avvento del buddhismo che pure conquistò a sé le grandi masse popolari.

La famiglia ed il clan gentilizio furono per secoli alla base della struttura sociale della Cina. Sulla base del popolo minuto incolto, gli "uomini comuni" di cui aveva parlato Confucio, si innalzava la piramide amministrativa al cui vertice si trovava l'imperatore, depositario del "mandato celeste", tramite fra terra, umanità e cielo. L'imperatore cinese, però, non esercitava il suo potere direttamente; egli si avvaleva di uno stuolo di funzionari, selezionati per merito in base ad esami che garantivano da un lato la loro cultura, dall'altro l'adesione personale all'ideologia dominante. Questa fu almeno la tendenza principale, anche se spesso si giunse all'acquisto delle cariche, ma sempre come forma di reclutamento parallelo.

Una tradizione che durò ininterrotta per secoli faceva sì che l'imperatore esprimesse la sua volontà solo approvando o respingendo le richieste che, sotto forma di appositi memoriali, gli venivano inviate dal basso e relative ai problemi che i funzionari inferiori non si sentivano in grado o non ritenevano di poter risolvere. In pratica egli era il primo funzionario dell'impero e la sua azione, come quella di ogni altro funzionario, consisteva nel "rettificare i nomi", nel dare cioè la giusta interpretazione, caso per caso, applicando alla realtà quotidiana i principi che la tradizione confuciana era venuta fissando e codificando. Manuali dell'arte di governo furono, essenzialmente, i libri di storia, che fornivano gli esempi, i precedenti da seguire perché si realizzasse l'osservanza del dao, della via che portava al giusto equilibrio tra tutte le forze della natura e, fra esse, del genere umano.

Nella pratica sociale, i riti erano l'equivalente del dao. Una serie di norme minuziose regolava l'attività di ciascuno stabilendone il giusto comportamento. Nella società ciascuno aveva il suo posto, doveva dare il dovuto e riceverlo, senza possibilità di deroghe.

La classe colta era quella che deteneva effettivamente il potere. Erano gli uomini che si erano potuti innalzare grazie a quello studio su cui tanto avevano insistito sia Confucio sia Mencio sia Xunzi: essi conoscevano i riti e la scienza del governo, possedevano i testi di storia e potevano così rendere operante il mandato celeste dell'imperatore, per mantenere il sistema in giusta armonia. Questa classe di letterati praticamente monopolizzò la cultura (che d'altro canto poteva essere appresa soltanto da chi avesse condizioni economiche tali da potersi mantenere agli studi) e fornì per secoli i quadri dell'amministrazione centrale e periferica: funzionari-letterati privi di specializzazioni tecniche, ma dotati di ampia cultura umanistica e filosofica. Su questa classe, formatasi ai principi del confucianesimo, si fondò per secoli quel sistema amministrativo che fu il pilastro centrale dell'impero cinese e del quale non sono completamente scomparse, neanche oggi, le vestigia e le impostazioni.

VIII. IL CONFUCIANESIMO NELLA STORIA CINESE - L'affermazione della scuola legista, derivata dal pensiero di Xunzi, portò nel III sec. a.C. alla formazione di uno Stato burocratico centralizzato che fu accompagnata anche da una violenta persecuzione contro la scuola confuciana, i cui libri vennero proibiti nel 213 a.C. mentre i suoi seguaci venivano perseguitati. Il confucianesimo, però, essendo ideologia della conservazione, che proclamava doversi sempre e comunque sostenere il potere costituito, venne ritenuto utile e adattato a nuove esigenze dalle dinastie successive. Già nel II sec. a.C., Jia Yi (198-165 a.C.) scrisse un violento saggio di condanna degli errori che, ispirandosi all'ideologia legista, avevano commesso, a suo parere, gli imperatori della dinastia unificatrice Qin. I suoi giudizi vennero recepiti dalla maggior parte degli autori successivi, interi brani del suo saggio vennero inseriti nello Shiji ("Memorie dello storico") di Sima Qian (145-86 a.C.) e così furono accettati dalla storiografia ufficiale.

Gli imperatori della dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.), dopo alcune esitazioni iniziali, elevarono il confucianesimo a dottrina ufficiale dello Stato e da allora il dominio ideologico della scuola dei letterati non conobbe che deboli e temporanee eclissi. Le trasformazioni sociali e politiche cui era andata incontro la Cina al tempo dell'unificazione (proprietà privata della terra, centralizzazione burocratica dell'amministrazione, selezione meritocratica dei funzionari) si consolidarono nelle loro grandi linee ed il confucianesimo se ne fece difensore.

L'altra dottrina autoctona cinese, il taoismo, riuscì ad avere un certo successo politico soltanto per un breve período, nell'VIII sec d.C., quando nel 741 i classici del taoismo vennero equiparati a quelli confuciani nella preparazione richiesta agli esami di Stato. Ma il taoismo, che proclamava la fuga dal mondo e la ricerca dell'immortalità attraverso l'ascesi, non poteva, per sua natura, avere rilevanza nella gestione del potere.

Il buddhismo, religione straniera, convertì il popolo e non pochi elementi della classe dirigente, prospettando la possibilità di nuove vite migliori di quella attuale e addirittura l'annullamento, fine di ogni sofferenza. Esso venne accolto e praticato nelle corti barbariche che dominarono il nord della Cina tra il IV e il VI sec. d.C. ed anche ne furono devoti seguaci diversi imperatori e ministri fin quasi all'età moderna, ma non fu mai riconosciuto come dottrina dominante dello Stato se non per un brevissimo periodo, ad opera dell'imperatrice Wu, tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII sec., durante la dinastia Tang. Fallito il suo tentativo, essa venne considerata un'usurpatrice e venne trattata, dalla storiografia confuciana, alla stregua d'un mostro sanguinario, capace d'ogni nefandezza.

Dinastie d'origine straniera e perfino rivoluzionari giunti al potere trovarono nel confucianesimo un potente appoggio. Il mongolo Qubilai, divenuto imperatore della Cina, non esitò a confucianizzare il suo Stato ed a scegliere per la dinastia che aveva fondato il nome Da Yuan, tratto da una citazione del classico confuciano Yijing (e abbreviato poi in Yuan). Il fondatore della dinastia Ming (1368-1644) aveva iniziato la sua scalata al potere come rivoluzionario, capo di ribelli contadini, ma diventato imperatore adottò in pieno l'ideologia confuciana e giunse al punto di considerare Mencio un autore pericoloso, tanto da farne pubblicare un'edizione espurgata dalla quale erano soppressi i passi sul rovesciamento del mandato celeste.

La dinastia mancese dei Qing (1644-1911) considerò anch'essa il confucianesimo dottrina ufficiale dello Stato. L'imperatore Kangxi (1661-1722) emanò nel 1670 un "Editto sacro" composto di sedici massime confuciane. Suo figlio Yongzheng (1722-1735) lo commentò ed amplificò, ordinando che tutti i mandarini lo spiegassero al popolo all'inizio ed alla metà di ogni mese: questa pratica di indottrinamento della popolazione restò in uso fino alla caduta dell'impero.

IX. IL CONFUCIANESIMO E LA CINA MODERNA E CONTEMPORANEA - La visione che Confucio aveva di un mondo in decadenza, per salvare il quale era necessario ripristinare le virtù degli antichi sovrani, il rinvigorimento da lui propugnato dei valori morali propri del passato, il messaggio inteso a fare ritorno ai riti che avevano caratterizzato e regolato i rapporti umani fin dal tempo dei re Wen e Wu della dinastia Zhou, la sua concezione gerarchica e conservatrice dei rapporti sociali, fecero sì che il suo pensiero venisse considerato un ostacolo alla modernizzazione della Cina, all'inizio del XX secolo.

Gli esami di Stato confuciani vennero già aboliti poco prima della fine dell'impero, nel 1905, e anche se il culto di Stato continuò ancora per pochi anni, la sua sorte era ormai segnata.

Nel 1917 la rivista Xin Qingnian ("Gioventù nuova") pubblicò degli articoli, a firma di Wu Yu e Chen Duxiu, che mettevano in discussione la validità della dottrina confuciana, specie in relazione con le nuove esigenze della Cina. Il "Movimento del 4 maggio" (1919), dal quale prese le mosse tutto il rinnovamento della vita culturale cinese di questo secolo, condannò senza esitazioni Confucio e il suo pensiero, riversando sul prestigio e sul predominio ideologico che tale dottrina aveva esercitato per tanti secoli gran parte delle responsabilità per lo stato di arretratezza sociale e di debolezza politica, interna e internazionale, in cui si trovava la Cina a quel tempo.

Successivamente il confucianesimo conobbe momenti di ripresa e si giunse di nuovo, talvolta, perfino a praticare di nuovo le cerimonie ufficiali interrotte con la caduta dell'impero. Ma a ripristinare, per brevi periodi, queste usanze anacronistiche, furono Yuan Shikai, quando nel 1916 tentò di ripristinare l'impero a proprio vantaggio, ed i giapponesi nel 1934, quando posero sul trono dello Stato-fantoccio del Manciuguo l'ex-imperatore della dinastia Qing, quello stesso che aveva dovuto lasciare il trono ed istituire la repubblica nel 1911.

Il regime del Guomindang tentò un rilancio delle virtù confuciane negli anni '30, con il movimento della "Nuova Vita", inteso a contrastare la crescente influenza del marxismo. I comunisti, dopo la fondazione della Rpc (1949), ebbero inizialmente un atteggiamento favorevole al confucianesimo, le cui massime erano state spesso citate dai due maggiori ideologi del partito, Mao Zedong e Liu Shaoqi. Si fecero strada due diverse interpretazioni del confucianesimo, una che vedeva in Confucio un pensatore " progressista " per i suoi tempi e quindi da ammirare e studiare con atteggiamento positivo, l'altra che vedeva nella sua dottrina l'espressione degli interessi d'una classe che stava perdendo l'egemonia e che cercava disperatamente di conservare o restaurare i suoi privilegi, una dottrina reazionaria, quindi, da condannare senza esitazioni.

La natura cosiddetta "reazionaria" del confucianesimo era del resto stata già posta in luce da Lu Xun, il maggior letterato della Cina moderna, in un famoso saggio pubblicato nel 1935, ed il prestigio di Lu Xun ebbe non poca influenza nel favorire il trionfo di questa seconda tendenza.
Una delle campagne della Rivoluzione culturale fu quella di critica a Confucio e Lin Biao (pi Lin pi Kong) del 1972-'73 e fu, in ordine di tempo, l'ultima grande campagna contro il confucianesimo, condotta anche a livello di massa. Durante questa campagna ebbe il suo trionfo la scuola capeggiata da Yang Rongguo che vedeva appunto in Confucio un pensatore a carattere decisamente reazionario.

Piero Corradini
La Cina Contemporanea, a cura di Giorgio Melis e Franco Demarchi

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