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DOCUMENTI

"Dove va la Cina? (Terza parte)
Un altro volume di attualità politica: Grida, Cinque voci nella Cina di oggi"

di Letizia Rovati

Anche in questo numero della rivista ci è sembrato interessante prendere in esame, in una sorta di appuntamento con i lettori a cui speriamo poter garantire una certa periodicità, un'altra recente pubblicazione cinese, che in poco tempo è riuscita ad imporsi in un mercato editoriale ormai combattutissimo, che deve fare i conti, oltre che con mai dimenticate forbici della censura del Xuanchuan bu (il Dipartimento propaganda del Partito comunista cinese, l'organo che sopravvede e controlla la 'correttezza politica' di qualunque pubblicazione1) anche con le implacabili leggi della competitività editoriale, delle promozioni all'occidentale, delle classifiche di vendite2. Ma è anche il tamtam tra i lettori, insieme a sapienti rimbalzi provenienti da riviste 'bene informate' di Hongkong3, a mettere ulteriormente sotto il fuoco dei riflettori volumi particolarmente rilevanti.
È il caso, questa volta, di Grida: Cinque voci nella Cina di oggi (Huhan: Jinri Zhongguo de wuzhong shengyin, con la scritta in inglese, "Five voices in present China" che figura in testa all'accattivante copertina rossa). Pubblicato dalla Casa editrice di Guangzhou (ma stampato a Pechino) nel gennaio del 1999 (nel febbraio si era già arrivati alla seconda edizione, tirata in ottantamila esemplari, e duecentomila copie erano già state prenotate in venticinque provincie) il volume costituisce il più recente frutto della fortunata collaborazione editoriale tra i due giornalisti del Quotidiano del popolo, Jun Zhijun e Ma Licheng, che già l'anno scorso, pur in un clima politico molto diverso dall'attuale, avevano letteralmente scosso la scena culturale della capitale cinese con il loro Scontri: materiali autentici sui tre movimenti di liberazione del pensiero nella Cina attuale4. Oggi Jun Zhijun e Ma Licheng tornano ad affrontare i temi della controversa attualità politica cinese, partendo da un interessante assunto, che dichiarano esplicitamente nella prefazione: "A dire il vero, nel nostro Paese oggi assistiamo ad una situazione nella quale già convive una pluralità di voci (duozhong shengyin). Questa formula vuole dire che attualmente quello di cui oggi si discute non è più un pensiero in cui tutti debbono identificarsi, ma include anche alcune idee controverse. E ancor più, anche nei confronti di opinioni palesemente contrapposte, oggi è possibile sia ascoltarle che sostenerle, non è più come vent'anni fa quando [l'oppositore] si doveva 'schiacciare a terra, e ancora tenere ben fermo sotto il piede, in modo che non potrà mai più tirarsi su' " (p.1) . Affermazioni, queste, che per un lettore occidentale consapevole, attraverso i media internazionali, di quanto complessa e difficile sia la strada percorsa in Cina dal dissenso politico5, sembrerebbero suonare quantomeno parziali, quando non ipocrite, ma che assumono ben altro significato lette nel contesto dell'attuale realtà cinese: oltre ad illustrare in maniera scoperta l'agghiacciante clima politico in cui vivevano vent'anni fa gli intellettuali cinesi, costituiscono una presa d'atto consapevole e intelligente di quanto effettivamente in questi ultimi vent'anni l'atmosfera intellettuale e politica cinese sia mutata6, e confermano il tentativo di rinnovamento che viene testimoniato anche dalla intensa, e pure tanto dibattuta, attività editoriale di questi mesi. Mutamento che - gioverà ricordarlo ancora una volta - appare comunque sempre concesso ed ammesso negli ambiti dell'implicito e indiscutibile riconoscimento dell'autorità e della leadership politica del partito comunista cinese, come i due autori del volume in questione non mancano di rilevare poco più in basso: è vero, essi dicono, esistono voci diverse, noi ne abbiamo identificate cinque, ma non va dimenticato che nel tortuoso percorso di questi cinquant'anni di Repubblica popolare cinese, e soprattutto in questi ultimi vent'anni di riforme, "il popolo cinese ha ormai trovato la bandiera per edificare il proprio paese, cioè la teoria di Deng Xiaoping" (p.2), che diviene la "corrente principale della società" ....

Una volta compiuto questo doveroso omaggio, il volume si sviluppa poi in maniera interessante, e contiene notizie, riflessioni e spunti che vale la pena di esaminare in maniera più articolata.

La prima, tra le voci, è quella della " Corrente principale" (zhuliude shengyin). Con i toni asciutti e quasi ironici del reportage giornalistico, questa prima parte si apre con una folgorante immagine di piazza Tian'anmen nella primavera del 1978, dove il grande Mao, ormai imbalsamato nella teca di cristallo del suo imponente monumento funebre, deve assiste immoto all'arrivo di 5585 tra professori, scienziati, poeti, medici ... gli "intellettuali", che negli ultimi vent'anni erano stati chiamati "avanzi della vecchia società", "quelli che non sono riusciti a riformarsi", o ancora "il nono che puzza''7. Arrivano quasi timidamente, cercando di farsi notare il meno possibile, ed entrano quasi alla spicciolata nella grande sala dell'Assemblea del Popolo, dove in molti si riconoscono, ormai invecchiati, incurvati dagli anni e dalla storia, ma di nuovo nel cuore del Paese, tutti chiamati per un appuntamento importante, che ancora una volta cambierà radicalmente il corso degli anni a venire. E sarà davvero una nuova "rivoluzione" quella che da questo consesso di vecchi, carichi di acciacchi e di sapere, partirà in quel 18 marzo 1978 , data di apertura della Conferenza nazionale della scienza8. Qui infatti verrà finalmente e nuovamente legittimato il fatto che "anche gli intellettuali fanno parte della 'classe operaia' (gongren jieji), e anche chi lavora con il cervello come chi lavora con le braccia è un lavoratore (laodongzhe) per il socialismo" (p.9). E sarà proprio Guo Moruo, figura carismatica dell'intelligentsia cinese, che anche nei momenti più bui della rivoluzione culturale non aveva mai visto i propri libri completamente banditi dagli scaffali di biblioteche o librerie, l'inossidabile alfiere di questo esercito decrepito ma indomito. Altri intellettuali meno fortunati di lui, ma come lui ugualmente fieri, sono lì a battergli le mani, si guardano intorno, e contano le perdite. E il volume ricorda, tra gli altri, le figure di Gu Zhun e di Chen Yange, spiriti liberi e pensatori eretici di cui solo negli ultimi anni , e con fatica, si stanno finalmente pubblicando le opere (pp.11-13). Da qui si dirama nuovamente, vitale e piena di aspettative, questa compagine frammentata e attonita che riprenderà gradualmente, ma saldamente in mano, le redini della ricerca, dell'accademia, della cultura, per ripristinare nomi e gradi messi in discussione, livelli di fama e di stipendio, credibilità ed onori gettati nel fango.

Quegli anni vengono descritti con precisione e meticolosità, con l'ausilio di cifre sapientemente articolate, che danno la misura della portata della "rivoluzione", del processo che venne allora innescato. Tra le molte che il volume fornisce, vale la pena ricordarne almeno alcune: nel novembre 1977 le università reclutarono duecentomila nuovi studenti, servendosi per la prima volta dopo circa vent'anni, di un pubblico esame nazionale. Si presentarono in 5 milioni 700 mila, e 5 milioni e ottocento mila furono i giovani e meno giovani (in quegli anni non c'erano limiti di età per essere ammessi all'esame e numerosissimi erano gli 'intellettuali stabilitisi in campagna' forzatamente , che cercavano di tornare in città), che parteciparono alle selezioni sei mesi dopo, e l'anno successivo furono 6 milioni 400 mila (p. 17) … .

E ancora, per raccontare il percorso di quegli anni della "corrente principale", gli autori tracciano uno spregiudicato profilo di Hua Guofeng, (segretario del PCC della transizione al postmaoismo) definito "un eroe creato dai media" (pag. 25), voluto cioè dall'onnipotente Dipartimento propaganda del partito per assicurare un passaggio atraumatico, attraverso una figura docile ma sbiadita, verso la completa e più solida vittoria di Deng Xiaoping. Anni che videro anche il primo tentativo di Hu Yaobang, divenuto nel 1977 capo del Dipartimento organizzazione del PCC, di dare alla vita politica del partito comunista una impronta meno verticistica e più democratica. Si ripercorre la importante opera, da lui fortemente voluta e in molti casi personalmente condotta, di riapertura di casi giudiziari, e di revisione di condanne politiche su membri del partito e importanti personalità, che a partire dagli anni '50 erano stati allontanati dal lavoro e dalle famiglie, quando non condannati alla detenzione o al laogai (la 'rieducazione attraverso il lavoro manuale'). Il volume riporta questi dati (p.57) :tra il marzo del '77 e il dicembre del '78 vengono riabilitati circa due milioni di quadri che erano stati accusati di essere zouzipai (seguaci della via capitalistica, definizione della metà degli anni '70), e che ben 552.877 youpai fenzi "elementi di destra", epurati alla fine degli anni'50, possono riacquistare i propri diritti politici e riprendere una vita normale, e più di 4 milioni e quattrocentomila tra "latifondisti, contadini ricchi, controrivoluzionari e cattivi elementi" (secondo le classificazioni adottate nella fase iniziale della RPC) hanno finalmente visto cancellato il proprio 'peccato originale', la propria origine di classe, la qualifica politica che aveva per anni discriminato politicamente intere famiglie e clan. Un grandioso processo, quello che Hu Yaobang mise in atto, che coinvolse più del 20 % degli alti quadri del partito, e circa tre milioni di funzionari degli strati intermedi e inferiori, e che contribuì in maniera determinante a creare intorno alla sua figura quel consenso diffuso e generalizzato che sfocerà poi, in occasione delle sue esequie, nelle manifestazioni di piazza della primavera dell'89 (ma di tutto questo nel volume non fa neppure un accenno)…

Un capitolo è dedicato anche all'ascesa politica di Wan Li, nel 1977 segretario del PCC dell'Anhui, e che diverrà poi negli anni '80 il Presidente dell'Assemblea Nazionale del popolo. Dalla regione da lui diretta infatti, partiranno gli esperimenti di privatizzazione delle campagne che arriveranno alla metà degli anni '80 allo smantellamento delle "Comuni popolari" del periodo maoista, e alla nuova regolamentazione dell'economia agricola attraverso i contratti di responsabilità su base familiare. La sua figura di moderato, di pensatore "liberale", gli consentirà di affiancare degnamente le misure di ripresa e di ristabilimento dell'economia lanciate da Deng Xiaoping in quegli anni (pp.67-84).

Seconda è la "Voce del dogmatismo" (jiaotiaozhuyi de shengyin): qui si ripercorrono gli anni delle lotte contro la tendenza dell'ultrasinistra a mantenere ed esacerbare le connotazioni dell'era maoista contro le aspirazioni e le istanze rinnovatrici della "corrente principale". Metodicamente vengono smantellate come "dogmatiche" tutte le accuse di "seguaci della via capitalistica" che nel corso degli anni '80 i riformisti guidati da Deng dovettero fronteggiare. Si citano pubblicazioni, articoli, editoriali, commenti e critiche, si fanno nomi e date , si raccontano retroscena di pubblicazioni… Quale shock deve essere ancora oggi per un vecchio quadro del partito, temprato in anni di autocensure e di "centralismo democratico" agli imprevedibili funambolismi verbali della retorica ufficiale, la lettura di questo capitolo, in cui senza mezzi termini si denunciano come dogmatici, sbagliati, eccessivi, dannosi, buona parte degli Editoriali e dei commenti della rivista Bandiera rossa, allora organo teorico del partito (cesserà le ubblicazioni verso la metà degli anni '80, per essere sostituito dal quindicinale Ricerca della verità), sul quale si doveva conformare lo studio politico obbligatorio di intere generazioni di cinesi! Un paragrafo è significativamente intitolato "Scende a terra la bandiera rossa, sale in alto il popolo", per indicare la caduta in disgrazia della rivista Bandiera rossa, e il ritorno in auge del Quotidiano del popolo alla fine degli anni '70 (pp.127-129). II capitolo si conclude con la "fine delle comuni popolari", a sancire il definitivo tramonto dell'era di Mao. "Alla fine del 1980 l'epoca di Mao sta davvero per concludersi, è questo il dubbio che anima la giornalista italiana Oriana Fallaci quando intervista Deng Xiaoping e gli chiede se il ritratto di Mao che si trova sulla piazza Tian'anmen vi rimarrà ancora a lungo. E Deng risponde: Vi rimarrà per sempre. Non solo vogliamo che il ritratto di Mao rimanga come simbolo del nostro paese, ma vogliamo che resti il pensiero di Mao. Non faremo mai con Mao Zedong quello che Krusciov fece con Stalin" (p.147).

Un brusco salto ci porta all''88. "I conservatori riprendono terreno" (p. 150) si intitola il capitolo, in cui si descrive la difficile atmosfera politica nella quale "si faceva un gran parlare di 'democratizzazione', di 'apertura', di 'glasnost'", ma di fatto stavano per la prima volta venendo alla luce con mai vista violenza contraddizioni e problemi che la leadership di allora si trovò del tutto impreparata ad affrontare. In maniera ellittica e sibillina si parla dell' '89 come dell'anno in cui avviene la "transizione tra la seconda generazione del gruppo dirigente e la terza", menzionando la "caduta di Hu Yaobang" del 1997, il passaggio di Wan Li dal Consiglio di Stato alla Presidenza dell'Assemblea del popolo (1988), e poi "nell'estate del 1989 anche Zhao Ziyang esce di scena a causa di un errore politico di estrema gravità: 'scissione del partito e appoggio ai disordini"' (p.152), disordini dei quali non si fornisce alcuna delucidazione... E infine il 13 novembre di quell'anno Deng Xiaoping proclama apertamente "il suo addio ufficiale alla politica" (p.153). Un altro accenno ai fatti di Tian'anmen visti come un errore di "sinistra" viene fatto poco più oltre, riportando il discorso pronunciato da Deng il 9 giugno (subito dopo i tragici incidenti), in cui egli afferma perentoriamente che la linea fondamentale del partito è inamovibile, e che cambieranno gli orientamenti e le politiche fondamentali (p.155).

Vengono poi rievocati con particolari spesso inediti e dovizia di dettagli gli ultimi anni di Deng e le sue continue battaglie contro i dogmatici di "sinistra", il suo memorabile "viaggio al Sud" del '92, in cui lancia le direttive di politica economica che verranno messe in atto a partire dal IX Piano quinquennnale, il suo graduale allontanarsi dalla scena in favore della Terza generazione (l'attuale gruppo dirigente) che ne viene ulteriormente legittimata come autentica erede. Ma con la morte del vecchio patriarca il 19 febbraio 1997 si riinfiammano le contese tra i riformatori e i conservatori, e toccherà al "nucleo" della terza generazione (Jiang Zemin) il compito di stilare il programma politico verso il nuovo millennio. Sarà infatti il "Discorso ai quadri della scuola di partito" pronunciato da Jiang il 29 maggio 1997 la piattaforma politica che darà il via al dibattito in preparazione del XV Congresso (settembre 1997) e all'ulteriore rinnovamento della leadership, con Zhu Rongji come Premier (marzo 1998).

Ancora un altro brusco salto ci porta ad ascoltare "la voce del Nazionalismo" (minzuzhuyi de shengyin). È la terza parte del volume, nella quale un sensibile mutamento nel registro narrativo ci mette di fronte ad episodi diversi, dalle più recenti dispute con l'India per risalire fino alla rivolta dei Boxer, e poi tornare ai nostri giorni, descrivendo momenti differenti di "orgoglio nazionale", per contrastare il pericolo evidente di una "nuova colonizzazione" da parte dei consumi occidentali, e resistere al dilagare del "modello McDonalds" (p.250). Si ricorda la fortunata serie di libri iniziata nel 1996 con La Cina può dire di no, una vera bomba editoriale a cui fecero seguito i meno fortunati, ma sempre molto letti, Perché la Cina dice no, e poi la Cina dice davvero no. Si parla dei conflittuali atteggiamenti nei confronti gli Stati Uniti, in un rapporto squilibrato che va dall'ammirazione più sperticata, alla critica più violenta, per arrivare fino agli ultimi incontri ufficiali tra Jiang Zemin e Clinton, in America (autunno 1997) e in Cina (giugno 1998). E si parla anche dell'Europa, della crisi asiatica, dell'articolato rapporto con i vicini del Pacifico...

La quarta parte, "La voce del feudalesimo" (Fengjianzhuyi de shengyin), anche se forse è meno interessante dal punto di vista storiografico, costituisce un lucido specchio delle abitudini "feudali" ancora oggi radicatissime anche tra esponenti del partito e dello stato. Si parte dalla diffusa superstione riguardante il numero 8 (ba = otto, è quasi omofono di fa = ricchezza) per arrivare a descrivere l'influenza sulle abitudine quotidiane di altre curiose combinazioni numerologiche, ritenute più o meno fauste; si parla poi di maestri di meditazioni e di ginnastiche tradizionali, di diete e pratiche respiratorie che allungherebbero la vita e di quanto simili teorie trovino oggi seguaci e fedeli non soltanto tra gli anziani. Ma si arriva poi anche a descrivere la pratica, che sembra ormai comune, di compravendita di uffici e incarichi, con dati e cifre, e persino casi estremi di killer professionisti assoldati per eliminare fisicamente nemici politici! In un simile spaccato, inqiuetante e frammentato delle abitudini anche meno edificanti che vengono fatte risalire al sistema "feudale", non può mancare, in conclusione, un lungo capitolo sulla rinascita del Confucianesimo e sul complesso ruolo nell'attuale sviluppo del paese (pp.356-375).

L'ultima parte, "La voce della Democrazia" (minzhuzhuyi de shengyin), ci è sembrata la più deludente, forse perché dal titolo appariva come la più carica di promesse. Si riparte dal '78, dall'avvio alle riforme, quando i muri di Xidan si coprirono di manifesti, "...e la gente chiamò questo fenomeno 'muro della democrazia', ma a livello ufficiale non si osò mai utilizzare questi due caratteri (minzhu=democrazia) e lo si chiamò 'muro di Xidan"' (p. 382). Si parla qui della fine della Rivoluzione Culturale, della morte di Mao, delle nuove aspettative a livello popolare, che a quel movimento fecero da cornice e da alimento, ma se ne passano poi completamente sotto silenzio le repressive conclusioni, con il movimento della dissidenza che da qui prese corpo, e il caso esemplare della condanna di Wei Jinsheng. Gli autori preferiscono invece addentrarsi in storici richiami al passato, con citazioni da Mao e da Deng, o ribadire la peculiarità della democrazia cinese, che proprio negli ultimi dieci anni, a partire dal XIII Congresso del PCC starebbe trovando una propria autonoma via di sviluppo. II volume si conclude infatti con un elogiativo e banale sunto delle direttive politiche del XV Congresso del PCC, che ne mette ancor più in evidenza, i limiti e le carenze.

MONDO CINESE N. 100, GENNAIO 1999

Note

1 Sulle recenti prese di posizione governative in merito a pubblicazioni di riviste e libri, si veda: E. Eckholm " China's Curbs on Liberal Intellectuals Leave room to Wriggle ", in International Herald Tribune, 20 genn. 1999.
2 In una recente visita (aprile 1999) nelle tre principali grandi librerie di Pechino (Sanlian, Fengrusong, e la nuova Città del Libro del quartiere di Xidan) abbiamo rilevato come ognuna di esse, oltre a compilare una graduatoria settimanale dei libri più venduti riservi uno spazio preciso, quello che un tempo era dovuto ai "classici del Marxismo-leninismo, pensiero di MaoZedong" alle "letture consigliate e ai best sellers della settimana".
3 Secondo la rivista di Hong Kong Zhengming, la pubblicazione del volume Grida..., sarebbe stata particolarmente controversa. Sembra infatti che il Dipartimento Propaganda, pur non proibendo direttamente l'uscita del volume, abbia scoraggiato in diversi modi le principali case editrici dalla pubblicazione, e sembra anche che, all'uscita del volume, sia circolata negli ambienti editoriali cinesi una Direttiva della Segreteria del Politburo che sconsigliava recensioni e dibattiti. Cfr. Luo Bing , "A proposito del divieto di stampa", Zhengming, 2, 1999, pp. 11-13.
4 Si veda la mia "Premessa" al saggio di Cao Luyi su Mondo cinese 98, pp. 42-43.
5 Sterminato il materiale sull'argomento, basterà citare il sito Internet di Amnesty International (www.amnesty.ca.).
Secondo l'associazione Reporters sans Frontières alla data del 1 gennaio di quest'anno, erano ben 12 i giornalisti cinesi in prigione. Cfr. Anne Stewart "Number of jailed journalists'second highest", in South China Morning Post, 3 mag. 1999.
6 Di un vero e proprio "New Deal" parla Thomas Friedman, a proposito dei rapporti che intercorrono oggi tra il partito comunista cinese e il popolo cinese, a paragone di quella che era la situazione di un passato non ancora lontano, in un interessante commento recentemente redatto da Shanghai, e significativamente intitolato "Toward Privatization of China's Communist Party", in International Herald Tribune, 30 marzo 1999.
7 Cfr. il mio "Organizzazione della ricerca e struttura accademica "in Collotti Pischel E. (a cura di) Cina oggi, dalla vittoria di Mao alla tragedia di Tian'anmen, Bari 1991, pp. 122-132
8 Cfr. M. Bastid , "Chinese educational policies in the 1980's and economic development", China Quarterly, 98, 1984, pp. 189-211.

 

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