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EDITORIALE

Realtà e immagine nella tensione tra Stati Uniti e Cina

di Enrica Collotti Pischel

Nei rapporti internazionali contano i fatti concreti e gli interessi, momentanei o permanenti. Ma conta anche la percezione di essi, che spesso è molto complessa. Questo rilievo viene spontaneo quando si ripercorrono le vicende, che hanno contrassegnato le relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese negli ultimi anni e - spesso in modo drammatico - negli ultimi mesi.
Da un lato vi è la Cina, che per millenni fu una delle grandi potenze del mondo e, fino alla fine del XVIII secolo, il paese più prospero, stabile e pacifico della terra. In seguito la sua potenza, la sua ricchezza, la sua stabilità e la sua unità furono messe in crisi dalla combinazione di fattori interni e dall'attacco portato dalle potenze straniere. Per un secolo la Cina fu privata della sua sovranità statale reale e della sua unità e attraversò un'esperienza percepita da tutti i cinesi come disastrosa nel senso che causò morte e miseria: la popolazione cinese, che era sostanzialmente raddoppiata nel XVIII secolo, rimase quasi immutata in numero fino al 1950, una curva demografica spezzata, il segno dell'incidere della morte a livello di massa. Dal 1949 la vittoria dei comunisti ha portato al ripristino dell'unità e della sovranità della Cina: si
possono discutere molte cose sul cinquantennio della Repubblica popolare, evidenziare i prezzi pagati, ipotizzare soluzioni diverse e più favorevoli ai vari problemi. Non si vuol toccare qui questo tema. È certo comunque che il ritorno della Cina alla sua sovranità e unità è stato il
risultato più evidente e indiscutibile della vittoria dei comunisti. Benché sia sempre difficile ipotizzare il grado di diffusione popolare della coscienza dei fenomeni nazionali, sembra che la riconquista della sovranità e dell'unità sia uno degli obiettivi del potere dei comunisti più
largamente condiviso dai cinesi nel loro insieme e che tuttora costituisca uno dei motivi di consenso al regime, quali che siano le sue difficoltà e le opposizioni che può suscitare la sua politica. È possibile che su questo tema del ripristino della sovranità e dell'unità - del ritorno alle prerogative dell'antico impero - s'innestino anche speculazioni e strumentalizzazioni delle autorità, così come spinte popolari forse incontrollabili. Si tratta di un tema di riflessione per il futuro.
La difesa di quella sovranità e di quell'unità è stata messa in atto dai governanti della Cina popolare con un livello di unanimità tra i dirigenti non raggiunto su altri temi ed è stata attuata con una sagacia, un'abilità e una spregiudicatezza che mostrano quanto i maggiori statisti comunisti (si pensa subito a Zhou Enlai, ma in questo anche Mao non fu da meno) fossero eredi di pieno diritto della grande classe dirigente dell'impero e al tempo stesso uomini capaci di leggere i processi strategici in atto nel mondo presente.
Certamente non fu facile reggere per vent'anni, fino al 1971, l'assedio degli Stati Uniti e l'esclusione dalle Nazioni Unite e gestire, ancorché solo per un decennio, un'alleanza con l'Urss carica di ipoteche sull'autonomia del paese e del partito. Ancor meno facile fu, negli anni '60 e '70 far fronte a quella che appariva come la convergente morsa delle due maggiori potenze nucleari, gli Stati Uniti e l'Urss, disposte a istituzionalizzare una coesistenza tra loro, ma decise ad escludere da essa la Cina. Poi vennero gli anni della diretta, incombente minaccia sovietica, non rimasta soltanto a livello potenziale, ma rivelatasi, nel 1969, incombente e concreta, tale da portare a scontri armati. Ed ecco allora il ricorso alla strategia tradizionale dell'impero di "giocare un barbaro contro l'altro" e di "impedire che i barbari si uniscano contro la Cina": furono Mao e Zhou a volere l'apertura agli Stati Uniti, messi in difficoltà dalla guerra in Vietnam, al di fuori e al di là di qualsiasi prevenzione ideologica. Subentrato Deng al timone, con grandi mutamenti sociali e ideologici, questa politica era stata continuata nella difficile fase della fine degli anni '70 quando l'Urss sembrò sul punto di attaccare la Cina in relazione allo scontro tra Vietnam e Cambogia e il mondo parve alle soglie della terza guerra mondiale. Ma l'Urss non attaccò la Cina (non si vuol qui discutere per quali ragioni), e la Cina di Deng all'inizio degli anni '80 poté giungere alla convinzione che, dopo un secolo e mezzo, per la prima volta la sua sovranità e unità non erano minacciate da un nemico esterno. Almeno, non in condizioni presenti e prevedibili.
Questo sfondo condizionò in modo favorevole l'atmosfera per le riforme messe in atto da Deng e fece prospettare una lunga pace esterna, a sostegno della marcia verso la prosperità e la stabilità interne. Ci si può chiedere quanto, al contrario, le minacce esterne avessero condizionato le scelte sociali ed economiche di Mao. Sembra possibile dire che negli anni '80 e in gran parte degli anni '90 né i governanti né il popolo cinese si sentivano minacciati e che questa condizione non fu incrinata neppure dal dramma di Tianan'men, di fronte al quale le potenze dell'Occidente reagirono con condanne ma non con minacce; il Giappone e gli altri asiatici non reagirono per nulla. La dirigenza cinese poteva muoversi nella convinzione di essere in grado di dedicare le energie del paese ai compiti economici e ad un ragionevole perseguimento degli interessi regionali, in mezzo a paesi non ostili o non minacciosi.
È ancora questa la situazione, oppure i dirigenti cinesi e quella parte del loro popolo, che è sensibile alla problematica internazionale e al futuro di una Cina sovrana e unita, hanno motivo fondato di preoccupazione?
L'interrogativo si è posto in modo drammatico nei mesi scorsi nel contesto della guerra della Nato alla Serbia, pur apparentemente tanto lontana dalle vicende e dagli interessi cinesi. Quella guerra, infatti, fu iniziata dagli Stati Uniti e dai loro alleati della Nato con una serie di atti che necessariamente hanno allarmato i cinesi. l bombardamenti hanno costituito una violazione della sovranità di un paese impegnato, sia pure con brutalità e violenza, in una vicenda di separatismo all'interno del proprio territorio, non sono state fatte intervenire le Nazioni Unite, anzi esse sono state deliberatamente escluse dal processo iniziale, si è avuto l'impressione che sia stata impedita con fermo proposito la possibilità di giungere ad un compromesso e che siano stati creati o esasperati i motivi che hanno portato allo scontro. Il nodo della questione è sembrato essere una nuova interpretazione del diritto internazionale, che si voleva modificare nel senso di legittimare limitazioni del diritto di sovranità e interventi contro stati sovrani, appena sia in gioco un problema di difesa di diritti umani. Comportamenti - indubbiamente condannabili ma mille volte ignorati dalla comunità internazionale in altri ben più drammatici casi - sono stati identificati come motivo sufficiente per un pesantissimo intervento militare. Quando si ricordi come per la Cina il ripristino della sovranità, la legittimazione giuridica della sua presenza e del suo peso a livello internazionale e la sua partecipazione alle Nazioni Unite siano state il risultato di dura lotta e di grande impegno, si comprende l'allarme dei governanti cinesi.
Tra l'altro, come è noto, in Occidente da anni è stata sollevata una grande polemica, o campagna di propaganda, sulla questione tibetana ed è stato lasciato pochissimo spazio a chi ha cercato di mettere in luce come - se può essere vero che i comunisti cinesi negli ultimi cinquant'anni hanno compiuto gravi violazioni dei diritti dei tibetani - il Tibet fa parte in modo istituzionale specifico da oltre due secoli dello stato multietnico cinese, quello stato multietnico tipico della tradizione imperiale al quale i comunisti cinesi si sono costantemente richiamati nella formulazione dell'identità del loro paese e nella loro politica di gestione dei confini: nella formulazione della loro "dottrina dello stato". Tutti sanno che, quando fosse ritenuto opportuno, il reclutamento di gruppi armati tra i tibetani in esilio e il loro trasferimento all'interno della Cina non incontrerebbero difficoltà: non casualmente i gruppi più radicali dei nazionalisti tibetani, in concomitanza con la vicenda balcanica, hanno manifestato in India chiedendo il passaggio alla lotta armata, la fine dei tentativi di compromesso con la Cina perseguiti dal Dalai Lama e della sua predicazione non violenta. I governanti cinesi sanno che un intervento contro la Cina per il problema tibetano incontrerebbe presso l'opinione pubblica occidentale un probabile consenso, dopo anni di denunce e di propaganda messa in atto con mezzi mediatici molto potenti.
Non è pensabile, che i governanti cinesi non percepissero la potenziale analogia delle due situazioni e non ravvisassero nell'attacco alla Serbia almeno la creazione di un precedente per una possibile futura minaccia alla Cina. Poi venne anche il bombardamento dell'ambasciata che nessun asiatico sensato, in base alla storia degli ultimi secoli, può aver considerato casuale, quand'anche lo fosse stato. E venne la gestione a dir poco inetta delle scuse da parte del governo degli Stati Uniti che nella vicenda sembrò voler dimostrare quanto la sorte di alcuni cinesi, di beni patrimoniali cinesi e le loro reazioni potessero essere considerati irrilevanti. Non si sa se volontariamente o no, nella questione l'Amministrazione Clinton sembrava volesse provare ad ogni costo che la Cina non conta niente. Proprio questo atteggiamento può essere stato percepito dai governanti cinesi come un segno di minaccia, come una svolta rispetto alla condizione di sostanziale sicurezza che il paese sembrava aver raggiunto negli ultimi anni, come il segnale di una necessità di prepararsi a pericoli, con le conseguenti scelte militari, ma anche sociali o ideologiche. Tutte, certamente, rovinose per la continuazione della politica di riforme. Se poi dall'incontro di Jiang Zemin con Clinton a metà settembre in margine alla conferenza dell'APEC in Nuova Zelanda siano emersi chiarimenti e garanzie ritenuti adeguati dai cinesi per ristabilire un'atmosfera di serenità, è cosa che si dovrà vedere.
Come già accennato, sulle prospettive a lungo termine delle relazioni tra grandi potenze e grandi civiltà non conta tanto la realtà dei fatti quanto la percezione di essi. E ciò è tanto più vero quando la dirigenza di un paese, per ragioni storiche lontane e vicine, opera in un certo isolamento dal dialogo internazionale.
E qui è necessario passare all'analisi dell'altra faccia del problema: l'atteggiamento degli Stati Uniti e i condizionamenti interni e psicologici che lo determinano, spesso in modi che sono assai poco comprensibili per i cinesi, del tutto ignari dei meccanismi di una società in larga misura libera dalle scelte dei detentori del potere. Essi possono avere difficoltà a comprendere le esigenze strategiche e la visione politica degli Stati Uniti, un paese che, dalla fine della seconda guerra mondiale, si è trovato investito del ruolo di prima potenza del mondo, possedendone tutti gli attributi: economici, finanziari, strategici, militari e culturali. Dall'inizio degli Anni '90 questo primato statunitense sembra essere incontrastato e la percezione è stata confermata da una serie di episodi nei quali Washington ha potuto imporre la propria volontà ad alleati o nemici senza incontrare difficoltà o perdite od obiezioni di rilievo. La coscienza del potere americano nel mondo e della sua legittimità (si sarebbe tentati di dire della sua "bontà"; date le radici moralistiche della cultura politica statunitense) è profondamente interiorizzata dalla grande maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti.
La scomparsa nel nulla di quello che era apparso dal 1945 al 1990 il maggior nemico del mondo americano, l'Unione Sovietica, se ha indubitabilmente rafforzato il potere mondiale degli Stati Uniti, non ha dato, tuttavia, al loro popolo il senso di una sicurezza raggiunta e consolidata e, conseguentemente, della fine di ogni sfida, di ogni pericolo. Per complesse ragioni storiche connesse alla formazione della società americana, negli Stati Uniti si percepisce sempre l'esistenza di una frontiera, di là dalla quale potrebbe annidarsi un nemico: un nemico capace di colpire il cuore del "grande paese". In questo senso nel 1957 la dimostrazione del possesso da parte dell'Unione Sovietica dei missili intercontinentali costituì un trauma per gli americani, vissuti sempre nella certezza dell'intangibilità, dell'invulnerabilità del loro territorio, a differenza degli europei (o degli asiatici), avvezzi da millenni a invasioni, insediamenti, acculturazione di "barbari", a rovesciamenti di fronti e di alleanze. Finito "l'impero del male" sovietico, ce ne sarà un altro all'orizzonte? E porterà i segni della diversità e dell'inferiorità razziale, fattore psicologico rilevante in un paese pensato e creato dai bianchi, nato con lo sterminio degli indiani e vissuto a lungo nella convinzione della congenita inferiorità dei neri?
Dietro al difficile rapporto con la Cina c'è negli Stati Uniti questo entroterra psicologico. Ma c'è anche altro: il panorama politico interno degli Stati Uniti è percorso, in modo del tutto legittimo e democratico, dal contrasto tra i due partiti, i democratici e i repubblicani, dal succedersi biennale delle scadenze elettorali, da una rete vasta d'interessi economici connessi al potere di ciascuno dei due partiti e anche da più banali vicende di polemica effimera. Clinton, si sa, è un presidente debole all'interno, contestato per i suoi comportamenti personali e in qualche modo rappresentativo di forze sociali perdenti (il Sud, le donne, le minoranze, etniche e non). I motivi per attaccarlo sono molteplici e per tradizione il partito democratico è esposto all'accusa di comportarsi in modo debole nell'arena internazionale, perché dominato da prevalenti preoccupazioni sociali. Per coprirsi da quest'accusa, i presidenti democratici tendono in genere a operare sul terreno internazionale in modo più arrogante e con una maggiore tendenza all'avventura di quanto facciano i presidenti repubblicani, che non devono temere attacchi da nessuno.
Di qui la fama dei democratici di essere "a party for war": è stato vero nella prima e nella (con quante buone ragioni!) seconda guerra mondiale, nella guerra in Corea, nella guerra in Vietnam. Anche la recente guerra contro la Serbia è certamente stata preparata con più spregiudicatezza e cinismo e con minore cautela di quanto avesse fatto Bush contro l'Iraq, che aveva comunque aggredito un paese membro dell'ONU e che quindi poté essere combattuto con un intervento delle Nazioni Unite, concordato in sede di Consiglio di Sicurezza, con l'appoggio dell'URSS e l'indispensabile astensione della Cina. La Cina, infatti, non ha alcun interesse ad impedire il funzionamento delle Nazioni Unite e neppure del Consiglio di Sicurezza (dove negli anni ha posto il veto una sola volta e per una questione marginale: nei confronti del Guatemala che aveva riconosciuto Taiwan): chiede soltanto di essere coinvolta nelle decisioni in quanto grande potenza. Molto diverso il comportamento di Clinton nella vicenda balcanica, quando il Presidente (e soprattutto il suo segretario di Stato Albright) hanno dato l'impressione di voler dimostrare al mondo di poter fare ciò che vogliono, ignorando le Nazioni Unite e violando, oltre che il trattato della Nato, il diritto internazionale sul problema centrale del rispetto della sovranità degli Stati membri. Nel comportamento di Washington, i governanti cinesi possono aver percepito una minaccia che può non essere stata in quanto tale nelle intenzioni di Clinton.
A parte questi problemi generali, a livello più contingente è necessario tener conto degli attuali schieramenti presenti nel mondo politico statunitense a proposito della Cina. Fino a tutta la presidenza Bush, furono piuttosto i repubblicani (identificati tra l'altro con grandi interessi economici e finanziari) a favorire l'apertura alla Cina, iniziata, come è noto, ad opera di Kissinger e Nixon (sia pure al fine di trovare una via d'uscita dalla sventura vietnamita): era stato poi Bush a gestire come ambasciatore una fase decisiva di collaborazione, senza ottenere però dai cinesi alcun allineamento subalterno agli Stati Uniti. Forse per questo, e forse per l'indebolimento di quello che avrebbe dovuto essere il nemico comune, cioè l'Urss, i favori dei repubblicani verso la Cina vennero scemando dopo la fine della presidenza Bush e riprese spazio al loro interno l'influenza di quella che è stata dal 1950 in poi la China Lobby, legata come è noto a Taiwan e ai suoi interessi, oltre a potenti gruppi economici e politici negli Stati Uniti. Nessuno ha mai contestato all'interno degli Stati Uniti la legittimità di questa Lobby nei suoi interventi sullo schieramento elettorale statunitense e sulle scelte commerciali oltre che strategiche (continuata vendita di armi all'isola e suo inserimento di fatto in un complessivo programma strategico statunitense nel Pacifico). Più difficile fare comprendere e subire alla Repubblica Popolare Cinese questo meccanismo tipico e accettato del sistema politico americano; ancora più difficile fare accettare la condanna di paralleli interventi "lobbistici" da parte della Repubblica Popolare, come si vedrà.
Comunque, all'inizio degli anni '90, i democratici sembravano più dei repubblicani rigidamente impegnati contro Pechino, in quanto a loro fa capo tendenzialmente la vasta rete degli americani di buona volontà e di fede democratica che si battono per i diritti umani in qualsiasi paese del mondo: la vicenda di Tianan'men nel 1989 aveva particolarmente ferito questa parte d'opinione pubblica e indotto Clinton a battersi per iniziative che mettessero in difficoltà il regime cinese e la sua politica di violazione dei diritti umani, tanto sul piano politico quanto sul piano etnico. Prima che Clinton venisse eletto, Bush e il governo cinese avevano peraltro fortunatamente provveduto a rimuovere il maggior ostacolo ai rapporti sino-statunitensi, sospendendo le misure di freno al commercio e ai finanziamenti che erano state imposte dagli Stati Uniti dopo i tragici eventi del 1989. Al Consiglio di Sicurezza nel 1990 occorreva l'astensione cinese nella vicenda del Golfo: la Cina l'aveva assicurata, la Cina doveva essere compensata. E lo fu: ovvia logica di politica internazionale.
Quindi Clinton - e la sua signora impegnatasi molto in tal senso durante il Congresso delle donne a Pechino nel 1995 - ebbe buon gioco nell'assumere una rigida posizione di principio sui diritti umani contro la Cina, ma nel praticare poi una politica duttile soprattutto in campo commerciale e finanziario: nonostante trattative e giochi parlamentari, articoli di fuoco sulla stampa e altre vicende, che sono comprensibili soltanto nell'ottica della realtà politica statunitense, di un paese democratico nel quale la stampa può attaccare con ogni mezzo la politica del Presidente. Non sempre tanto rumore si riflette poi sulle scelte politiche: ogni anno Clinton ha rinnovato nei confronti del commercio con la Cina quella che fino a data recente si chiamava la "clausola della nazione più favorita", cioè il normale rapporto commerciale e doganale tra gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che non siano definiti, con termine che pochi europei farebbero proprio, rogue states, "stati mascalzoni ", come Corea settentrionale, Libia, Cuba, Iran, Iraq. Il mondo degli affari statunitense premette su Clinton perché il mercato cinese venisse ulteriormente aperto ai loro interessi produttivi e soprattutto finanziari e Clinton prese numerose iniziative per compiacere queste esigenze. Il gran rumore di fondo contro la Cina, non impediva poi buoni rapporti economici: bisogna vedere se a Pechino si sente di più il rumore o si vede soprattutto il vantaggio dei buoni rapporti.
Gradualmente, e soprattutto in margine alle elezioni del 1996 che riportarono Clinton alla Casa bianca, la politica repubblicana di attacco al Presidente e ai democratici - sostenuta anche dal fatto che i Repubblicani sono in maggioranza al Congresso e controllano le Commissioni più impegnate nel gioco politico, strategico e finanziario internazionale - ha concentrato il suo fuoco di sbarramento sulla politica di Clinton in Asia. Sono state messe in discussione le sue iniziative nei confronti di Pechino, ma anche del Vietnam (ridicoli ostacoli parlamentari all'apertura dell'Ambasciata a Hanoi) e ancor più in Cambogia, dove Washington ha finito per accettare il regime di Hun Sen, denunciato invece dai repubblicani. In ogni occasione Clinton si è trovato sotto il congiunto attacco dei parlamentari repubblicani e di potenti organi di stampa (come il Washington Post e il New York Times), che perseverano, spesso in termini grotteschi, nel denunciare il regime cinese come cara tirannia, un pericolo per il domani economico degli Stati Uniti, un'incombente minaccia strategica. Si sa inoltre quanto è vivace negli Stati Uniti la polemica a favore dei dissidenti cinesi, quale sia il loro peso e soprattutto a favore della causa tibetana.
In questo quadro della politica interna statunitense è stata montata una campagna fondata su un episodio di rilevanza tutto sommato scarsa: nel quadro della raccolta di fondi per la rielezione di Clinton nel 1996, due faccendieri asiatici, forse non esattamente in odore di santità per quanto riguarda collegamenti di tipo mafioso, predisposero un canale attraverso il quale un alto ufficiale dell'esercito popolare cinese, nella specie una signora figlia di un ancor più importante dirigente dell'esercito, consegnò una somma di denaro ai finanziatori della campagna di Clinton venendo così ricevuta nella Sala Ovale, con la sua delegazione ufficiale, negli Stati Uniti per acquisti tecnologici. Questo è bastato, per anni, ad alimentare una campagna tendente a denunciare in Clinton un "presidente al soldo della Cina" e a vedere dietro ogni sua concessione a Pechino l'ombra di quella bustarella, diciamo pure di quella tangente, che nella legge elettorale americana costituiva un illecito, ma non un crimine. Un crimine comunque largamente praticato da tutte le lobbies, compresa la China Lobby favorevole a Taiwan. Oggetto di demonizzazione in questa campagna non è stato soltanto Clinton, ma la Repubblica Popolare Cinese: in ogni articolo contro la Cina viene evocata l'immagine della perfida ufficialessa cinese, sostenuta da due loschi tipi, che avrebbero cercato di modificare la volontà elettorale del popolo degli Stati Uniti. Per questo ci sarebbe voluto ben altro: una favola ridicola, dunque, anche se fondata su un fatto reale.
La polemica raggiunse estrema intensità nel giugno 1998 quando la visita di Clinton in Cina - e la contemporanea mancata visita al Giappone, pur alleato degli Stati Uniti - segnò il punto della massima apertura della politica dell'Amministrazione democratica verso la Cina: veniva dopo due anni di rapporti difficili tra i due paesi, iniziati nella primavera del 1996 quando, poco prima che a Taiwan si tenessero le elezioni presidenziali, una serie di manovre navali della Cina popolare nello Stretto avevano portato ad alto livello la tensione militare e avevano indotto gli Stati Uniti a inviare nella zona due portaerei e navi di appoggio. Finite le manovre, l'ipotesi di un imminente scontro militare tra Cina popolare e Taipei (molto gonfiata dalla stampa americana) si dissolse. In quei due anni, la tensione tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti aveva raggiunto a più riprese un elevato livello di intensità, a seguito di aperture di Washington verso Taiwan, in particolare per la concessione a dirigenti dell'isola di visti per recarsi negli Stati Uniti in missioni dotate di una certa ufficialità; ad altre polemiche avevano dato luogo le visite di rappresentanti tibetani. Il viaggio di Clinton dell'estate 1998, nonostante le immancabili e ormai scontate "lezioni" da lui tenute ai dirigenti cinesi sul problema dei diritti umani, aveva lasciato sperare in una reale collaborazione tra i due paesi, al limite nella possibile accettazione da parte americana di un sostanziale primato regionale della Cina in Asia orientale e di una collaborazione globale tra le due grandi nazioni.
Nell'anno che è seguito a quell'incontro la tendenza allora segnalata non si è concretizzata. Già nella tarda estate del 1998 il lancio di un missile nord-coreano sopra il Giappone (quale che ne fosse il carattere) mise in moto un ripensamento strategico tra Washington e Tokyo e fu avanzata l'ipotesi di una copertura anti-missilistica su quell'area per la quale Stati Uniti e Giappone si sono impegnati a una difesa comune, già delineata attraverso accordi strategici dopo gli scontri nello stretto di Taiwan nel 1996: quell'area copre, oltre Taiwan e la Corea meridionale, anche regioni della terraferma cinese. L'ipotesi di una rete di copertura anti-missilistica fornita dagli Stati Uniti - seppure per ora allo stato potenziale in quanto non ancora tecnologicamente disponibile - preoccupa necessariamente la Cina, in quanto distruggerebbe la sua capacità di "deterrenza" acquisita nel corso degli anni con tanti sforzi e tanti costi, attraverso l'accumulo di un sia pur modesto arsenale nucleare.
Per i repubblicani e la stampa che spesso sostiene le loro campagne, un'occasione per ripresentare l'urgenza di una protezione statunitense a Taiwan è stata offerta nel luglio di quest'anno dal presidente taiwanese. Lee Tenghui, forse per ragioni elettorali, forse per mettere alla prova la disponibilità degli Stati Uniti a coprire la sua isola dichiarò che le relazioni tra Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese dovevano da allora in poi essere considerate relazioni tra stati, rompendo così l'atmosfera di ambiguità e di equivoci che aveva circondato negli ultimi anni i rapporti tra Pechino e Taipei, anche in vista dei massicci rapporti commerciali e finanziari tra le due parti. L'iniziativa di Lee si contrapponeva all'ipotesi, sulla quale potrebbe fondarsi ogni compromesso, e cioè la creazione di un più vasto ambito di una Cina ideale, della quale facessero parte sia la Repubblica popolare sia Taiwan, paesi retti da strutture istituzionali diverse, ma riuniti entro un superiore contesto identificato come cinese. L'uso della parola "stato" dovrebbe essere convenientemente evitato per eliminare obiezioni di principio da parte di Pechino, da sempre decisa, come è noto, a sostenere che "esiste una e una sola Cina e Taiwan fa parte di essa". È difficile valutare le motivazioni che indussero Lee Tenghui ad assumere questa posizione di rottura (non condivisa neppure da tutti i politici taiwanesi) e avanzare ipotesi su eventuali spinte statunitensi - ufficiali o non ufficiali, dell'Amministrazione o dell'opposizione repubblicana - che potrebbero aver favorito un'iniziativa così "provocatoria" di Taiwan, tale da innescare una possibile risposta armata della Cina popolare.
In effetti la reazione di Pechino è stata assai cauta: è stata ribadita fermamente l'esistenza di una sola Cina e il diritto della Repubblica popolare di ricorrere alle armi per liberare Taiwan, ma nessuna iniziativa militare concreta è stata presa. Da parte sua, Clinton è riuscito a mantenere nel vago, come ha fatto negli ultimi anni, la posizione di Washington che per il Taiwan Relations Act è impegnata alla difesa di Taiwan, ma ha riconosciuto al tempo stesso la Repubblica Popolare Cinese come unica Cina della quale Taiwan fa parte. Se si voleva un chiarimento irreversibile non c'è stato e se, approfittando dell'atmosfera creata dalla vittoriosa conclusione della guerra con la Serbia, qualcuno - a Washington o a Taipei - riteneva conveniente portare la tensione tra Stati Uniti e Cina vicino al punto di rottura, il rischio è stato disinnescato. Soprattutto dalla prudente reazione della Cina popolare, ma anche dalla scelta di Clinton di mantenere sul problema della "copertura" strategica degli Stati Uniti a Taiwan un atteggiamento ambiguo, cioè aperto a soluzioni di compromesso con Pechino. Nei mesi dell'estate, tuttavia, il rischio di uno scontro militare più o meno imminente per Taiwan e di un coinvolgimento in esso degli Stati Uniti era stato presentato con insistenza all'opinione pubblica americana.
In tutti quei mesi, infatti, la visione della Cina fornita dalla stampa statunitense non era più stata soltanto quella di un regime ferocemente intento alla repressione di ogni dissidenza, ma quella di un paese che costituisce una minaccia strategica per l'Asia orientale, in primo luogo per Taiwan, poi per l'Asia sudorientale sulla base delle rivendicazioni delle isole del Nan Yang, e infine per il complesso del mondo, non esclusi gli Stati Uniti. Si è molto discusso della capacità dei missili intercontinentali cinesi di portare armi atomiche sul territorio statunitense e si è compiuto uno sforzo sistematico per collocare la Cina al posto che fu quello dell'Urss, come potenza capace di minacciare la sicurezza del popolo degli Stati Uniti sul suo territorio. A sostegno di questa polemica sono intervenuti fatti altamente sfruttati da quanti negli Stati Uniti desiderano un peggioramento dei rapporti con la Cina e utilizzano ogni strumento per mettere in difficoltà qualsiasi disponibilità di apertura di Clinton. A maggio vi fu, attraverso un rapporto di una commissione bipartitica del Congresso, la denuncia dell'esistenza di una vasta rete di spionaggio cinese operante negli Stati Uniti per rubare segreti concernenti l'armamento nucleare e missilistico.
La vicenda era stata preceduta dalla rivelazione di una possibile attività spionistica condotta da un cittadino statunitense di padre taiwanese nei laboratori di Los Alamos, in combutta con un giovane ricercatore della Cina popolare, operante in un altro centro di ricerca di fisica nucleare. La campagna ebbe grande risonanza e prospettò agli americani un concreto pericolo per la sicurezza, in quanto faceva credere che i dati più segreti concernenti la sicurezza del loro paese fossero esposti alle scorribande spionistiche di un paese presentato apertamente come un potenziale (anzi imminente) nemico. Da ogni parte si levarono voci per denunciare l'inadeguata sicurezza dei laboratori statunitensi e per chiedere la loro blindatura, contro gli stranieri, in particolare contro gli asiatici, soprattutto se in qualche modo collegati a un'identità cinese. Un'atmosfera che faceva ricordare i primi anni della guerra fredda, anche se aveva soprattutto una dimensione interna, cioè voleva ancora una volta attaccare Clinton e la sua Amministrazione, per aver trascurato la vigilanza e la sicurezza. La vicenda si rivelò poi una vera montatura: molti dei dati che si presumeva fossero stati rubati potevano essere trovati - come dimostrò il portavoce del governo cinese - in Internet e lo scienziato della vicenda di Los Alamos era stato coinvolto soprattutto per la sua origine etnica, come egli stesso fece rilevare, mettendo in luce la gravità del fatto, essendo lui cittadino incensurato degli Stati Uniti. Il governo statunitense e lo stesso Congresso intervennero a ridimensionare i rischi di sicurezza, ed anche a riportare il fantasma dell'onnipresente spionaggio cinese entro i limiti normali, in cui attività di tal fatta si svolgono - e sono reciprocamente tollerate - tra tutte le grandi potenze. La polemica, comunque, continuò e assunse ancora una volta vigore, quando alla metà di luglio il governo cinese annunciò che scienziati e tecnici cinesi avevano acquisito la capacità di realizzare la bomba al neutrone e si venne a sapere che la Cina possedeva armi termonucleari miniaturizzate potenzialmente utilizzabili per colpire gli Stati Uniti. Tutte campagne giornalistiche finite nel nulla o quasi, ridimensionate dopo brevi fasi di allarme. Chi vive nel mondo occidentale dominato dai media ha gli strumenti per interpretare e ridimensionare questi fenomeni. Ma qual è la loro eco in un paese come la Cina?
L'impressione che si trae da tutte queste montature giornalistiche è che, non tanto i governanti degli Stati Uniti in carica, quanto l'opinione pubblica, l'atteggiamento dell'americano medio, non siano ancora disposti ad accettare che la Cina è, di fatto e di diritto, una grande potenza e che come tale è legittimata a comportarsi, conducendo una propria politica di influenza esterna, creando - se così si vuole chiamarla - una sua zona di influenza in Asia, del resto ben radicata in una storia millenaria, costituendosi un suo apparato militare e sviluppando la propria tecnologia, raccogliendo quelle informazioni che la scienza internazionale produce e nelle quali è molto difficile distinguere dove comincino i dati militari, in un mondo di comunicazioni virtuali dove sarà sempre più difficile una gestione "nazionale" dei segreti. Del pari non sembra che gli americani riescano a rendersi conto che negli ultimi anni nelle università cinesi si è venuta formando un'élite qualificata di scienziati che, pur operando in condizioni assai più difficili dei suoi colleghi occidentali, sta conducendo il proprio lavoro al livello raggiunto dalla scienza internazionale, senza aver "rubato" niente, se non si vuol interpretare come furto l'utilizzazione di conoscenze ormai diffuse a livello mondiale.
Si possono quindi comprendere e ridimensionare, valutandoli per quello che sono, gli episodi di tensione che un certo tipo di polemica suscita nei confronti della Cina negli Stati Uniti. Come questi episodi siano letti a Pechino è invece il vero problema: la percezione delle motivazioni altrui è sempre decisiva nel determinare atteggiamenti e reazioni. Sarebbe importante che gli americani comprendessero quanto è importante rassicurare i governanti e il popolo della Cina sul fatto che gli Stati Uniti non stanno tentando di fare al loro paese quello che è stato fatto all'Urss. Soltanto così continuerà la politica d'inserimento della Cina nel dialogo mondiale, con vantaggio di tutti.

MONDO CINESE N. 101, maggio 1999

 

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