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INDICE>MONDO CINESE>IL DISCORSO SU AMBIENTE E NATURA IN CINA: IL CASO DI CHONGMING

POLITICA INTERNAZIONALE

Sei mesi dopo l'East Asia summit, le prospettive di integrazione regionale in Asia

di Axel Berkofsky

1. Non il “big bang” dell’integrazione in Asia 

“Morta all’arrivo”: così The Economist ha definito la “East Asian Community” (EAC) che si pensava sarebbe emersa dal primo “East Asian Summit” (EAS), riunito a Kuala Lumpur il 14 dicembre 20051 . Questa potrebbe rivelarsi un’esagerazione che non fa giustizia agli sforzi dell’Asia di realizzare un’integrazione regionale più sostanziale; ma sei mesi dopo l’EAS di Kuala Lumpur gli analisti e gli osservatori (ma anche i policymaker dei sedici paesi dell’Asia orientale, sud-orientale e meridionale che vi hanno partecipato) si chiedono ancora quale sia stato esattamente il valore aggiunto della riunione malese durata un giorno. Una delle conclusioni che si può trarre sei mesi dopo il summit è che la retorica politica deve ancora mettersi alla pari con la realtà politica quando si parla dell’EAS e della promessa EAC come di una “nuova era” dell’integrazione regionale in Asia.
I giudizi sui risultati e il grado di successo del summit divergono significativamente: mentre alcuni analisti e commentatori si concentrano sui punti di disaccordo, sulla preoccupazione nei confronti dell’influenza cinese sul gruppo di paesi, sulla crescente potenza economica e militare della Cina nella regione, sulle tensioni sinogiapponesi e su un ordine del giorno molto vago, altri sottolineano che l’EAS è stato il primo passo riuscito verso un’integrazione ancor più profonda sul modello del “regionalismo aperto”.
D’altra parte, sarebbe stato irrealistico aspettarsi una svolta nell’integrazione asiatica al summit inaugurale dell’EAS, nel quale i paesi dell’ASEAN+3 (ASEAN più Giappone, Cina e Corea del Sud), l’India, l’Australia e la Nuova Zelanda si sono sedute al tavolo delle trattative solamente per tre ore2. E c’è stata poca negoziazione anche in vista delle dichiarazioni preliminari, assenza di discussione e una dichiarazione congiunta talmente ampia e generica da rendere praticamente impossibile ogni forma di disaccordo3.
Negli anni a venire è assai probabile che l’EAS rimanga poco più di una “appendice” ai summit dell’ASEAN e dell’ASEAN+3, e non diventi una riunione “reale”, distinta e autonoma.
Il risultato dell’EAS è stato deludente per chi sperava in un summit capace di produrre un progetto dell’EAC, finora solo prefigurata. La dichiarazione ufficiale del summit, in realtà, non menziona neppure la fondazione di una comunità dell’Asia orientale, ma si limita ad esprimere la speranza che l’EAS “possa giocare un ruolo efficace nel community-building regionale”4.
L’anno scorso, nei giorni prima dell’EAS, studiosi, diplomatici e policymaker asiatici ne parlavano come di una sorta di “big bang” dell’integrazione asiatica, dando talvolta l’impressione che il summit sarebbe stato l’alba di una “Unione europea” in Asia. Solo che non lo è stato, e lo hanno notato persino i falchi del Dipartimento di Stato americano e del Pentagono, che l’anno scorso temevano che il summit fosse un esercizio manovrato dalla Cina (alcuni negli USA immaginavano addirittura una cospirazione) per spingere fuori dall’Asia gli Stati Uniti.
A dire il vero, il risultato del summit deve essere definito tutt’al più vago, il che non è poi così problematico dal momento che le aspettative su ciò che si può ottenere con una riunione di un giorno di sedici capi di governo asiatici sono sempre, realisticamente, molto basse.

2. Quali sono i valori, la visione e l’identità condivisi? 

L’ex-premier malese Mahatir, “inventore” all’inizio degli anni Novanta dell’East Asian Economic Caucus (EAEC) sotto menzionato, non ha certamente resistito alla tentazione di esprimere la sua opposizione alla partecipazione al summit di Australia e Nuova Zelanda: “L’Australia è fondamentalmente europea e ha mostrato chiaramente al resto del mondo di essere il vice-sceriffo dell’America”, ha affermato poco prima del summit, rilevando come l’EAS di Kuala Lumpur fosse esattamente l’opposto di come lui aveva immaginato una Comunità dell’Asia orientale dieci anni fa: una comunità per controbilanciare l’influenza e l’egemonia economica statunitense nella regione5 .
L’attuale primo ministro malese Badawi, che ospitava l’EAS a Kuala Lumpur, ha proseguito nella retorica di sfida del suo predecessore affermando, nella sua dichiarazione a conclusione del summit, che Australia e Nuova Zelanda non fanno “veramente” parte dell’Asia orientale. Geograficamente parlando può anche essere vero, ma non lo è neanche l’India – e tuttavia, la Comunità dell’Asia orientale non si sarebbe dovuta basare su visioni, valori e identità comuni, mentre la geografia avrebbe svolto un ruolo secondario?
In teoria sì, ma il summit ha dato molte poche indicazioni (se ne ha date) su quali valori, visioni e identità comuni sarebbero o potrebbero essere la base su cui fondare l’immaginata EAC. Diverse nazioni del sud-est asiatico come Indonesia e Singapore, d’altro canto, preoccupate che alcuni paesi potessero esercitare un’influenza ed un potere eccessivi nella regione, hanno attivamente sostenuto l’inclusione di Australia e Nuova Zelanda.
Parlando di valori, è veramente arduo immaginare una qualche integrazione politica rilevante tra democrazie a pieno titolo (Giappone, Corea del Sud, India, Australia e Nuova Zelanda) e i molti paesi asiatici retti da regimi semidemocratici o non democratici.

3. Tornando agli anni Novanta 

All’inizio degli anni Novanta il primo ministro della Malesia Mohamad Mahatir lanciò l’idea di un “East Asian Economic Caucus” (EAEC), finalizzato a creare qualcosa che avrebbe controbilanciato il dominio economico statunitense nella regione. La visione di Mahatir, tuttavia, basata sull’idea che l’Asia avrebbe dovuto essere “solo degli asiatici”, non diventò mai realtà.
La retorica nazionalista e sciovinista che accompagnava il suo promuovere un “Caucaso senza caucasici” trovò l’opposizione non solo degli USA, ma anche di molti paesi asiatici contrari ad unirsi in uno sfortunato blocco antiamericano e mettere così a rischio redditizi legami economici e d’affari con Washington6 .
Lo EAEC non andò mai oltre la fase di progettazione, ma l’idea di una Comunità dell’Asia orientale riapparve nell’ordine del giorno della politica asiatica dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997-98. La devastante crisi finanziaria, si sostenne più tardi, servì come una sveglia per l’Asia, e come un monito: una crescita economica senza un certo livello d’integrazione e coordinamento finanziari interni all’Asia rischiava di incontrare altre crisi come quella del 1997.
Nonostante ciò, furono necessari più di tre anni all’ASEAN e, più tardi, all’ASEAN+3, per avanzare una proposta su come dare impulso al community-
building in Asia orientale. Nel novembre 2001, al summit dell’ASEAN+3 nel Brunei, il cosiddetto “East Asian Vision Group” (EAVG), guidato dall’expresidente della Corea del Sud Kim Dae-Jung, sottopose un rapporto che tracciava i dettagli dell’EAC. Il rapporto, intitolato “Verso una Comunità dell’Asia orientale”, immaginava un’area trasformata “da una regione di nazioni in una comunità con valori, visioni e identità condivisi”. Il rapporto, con la sua retorica a tratti altisonante, raccomandava di perseguire un ulteriore approfondimento dell’integrazione economica nella regione attraverso la liberalizzazione del commercio e degli investimenti tra i paesi asiatici, nonché l’istituzione di un’Area di libero scambio dell’Asia orientale (East Asian Free Trade Area, EAFTA). Il rapporto, inoltre, sollecitava i paesi dell’ASEAN+3 ad affrontare l’integrazione finanziaria regionale attraverso un approccio in due fasi: istituire un Fondo monetario dell’Asia orientale (East Asian Monetary Fund, EAM) e un meccanismo dei tassi di cambio asiatico.
Evitare un’altra crisi finanziaria asiatica come quella del 1997-98 e rafforzare il coordinamento finanziario ed economico tra i paesi asiatici, tuttavia, oggi non sono più le due sole ragioni per cui l’Asia sente il bisogno di superare l’attuale livello di integrazione. Le conseguenze per l’Asia di un possibile (e ora assai probabile) fallimento del Doha Round, ma anche ciò che alcuni chiamano “la questione Cina” (intendendo l’impatto regionale di una Cina in rapida crescita economica), sono state inserite negli ultimi anni nella lista di ragioni per cui l’Asia orientale ha bisogno di lavorare seriamente per rafforzare l’integrazione regionale7.

4. Quale valore aggiunto? 

Quale è stato, allora, il valore aggiunto del riunire sedici capi di governo per discutere un’ampia gamma di argomenti che si suppone siano rilevanti per la sicurezza, la stabilità e la prosperità dell’Asia orientale? Questo è troppo presto per dirlo, in effetti, poiché non è stato ancora chiarito quali saranno o potrebbero diventare negli anni a venire le caratteristiche principali dell’immaginata Comunità dell’Asia orientale. Una zona di libero scambio intra-regionale? Una comunità basata su valori condivisi o un’identità comune, o addirittura l’equivalente asiatico dell’Unione europea? In realtà, la dichiarazione congiunta ufficiale del summit elenca una serie di conclusioni e affermazioni sui quali possono facilmente concordare tutti i governi partecipanti.
Più sostanziale è stata invece la dichiarazione del Presidente dell’EAS, e il suo aver menzionato un gran numero di questioni che potrebbero essere affrontate insieme dai governi partecipanti all’EAS. La denuclearizzazione della Penisola coreana, la sicurezza marittima, il terrorismo, le malattie infettive, lo sviluppo economico sostenibile, questioni relative all’Organizzazione mondiale del commercio – sono temi di cui l’EAS progetta di occuparsi (ma di cui non si è ancora occupato, in realtà, se si esclude il fatto che siano stati menzionati a Kuala Lumpur). La dichiarazione, tuttavia, non fornisce alcun dettaglio di alcun genere in merito al ruolo che l’EAS avrà esattamente nel consolidare la cooperazione su questi temi8. In realtà, fatta eccezione per il programma “Influenza aviaria: prevenzione, controllo e risposta”, nessuna iniziativa concreta e tangibile è emersa dall’EAS.
Oltre a ciò, molti dei suddetti temi sono già stati affrontati in altre arene regionali e mondiali, ed è in dubbio che discutere della crisi nucleare nella Penisola coreana o del terrorismo internazionale all’interno della cornice dell’EAS possa significativamente contribuire alla discussione in corso sulle medesime questioni in altre organizzazioni o istituzioni.
Anche se le diversità tra i paesi asiatici in fatto di autorità della legge, governance, diritti umani, libertà di parola e altre materie non rientrassero nell’ordine del giorno, bisogna riconoscere all’EAS il merito di avervi incluso l’assenza di progressi nella riforma politica, a lungo promessa, di Birmania/ Myanmar. Abbandonando l’insistenza nell’aderire al cosiddetto “principio di non ingerenza”, insistenza che l’ASEAN da molti anni si è imposta, è stato chiesto a questo paese di affrontare le riforme politiche e di scarcerare Aung San Sui Kyi9.
Ad ogni modo, la dichiarazione congiunta dell’EAS che chiede a Rangoon di rispettare le promesse di avviare un ripristino della democrazia non compensa la mancanza di una “vera” pressione diplomatica e politica. I generali della giunta militare birmana, di fatto, non hanno soddisfatto la richiesta dell’ASEAN di realizzare riforme politiche, e difficilmente lo faranno in assenza di pressioni politiche e diplomatiche che siano credibili ed efficaci. Ed è altrettanto vero che l’appartenenza birmana all’ASEAN e dunque la sua presenza al tavolo dei negoziati nei futuri EAS, continuerà a rappresentare una sfida per coloro in Asia che rivendicano valori comuni come base della creazione dell’EAC.

5. La Cina: un leader regionale in attesa? 

Parte della stampa ha sostenuto che la partecipazione al summit di India, Nuova Zelanda e Australia avrebbe fatto sì che Pechino attenuasse il suo ruolo nel summit e nell’ideazione dell’EAC; un organismo che, dal punto di vista cinese, avrebbe dovuto essere maggiormente est-asiatico, almeno nella prima fase.
La visione cinese dell’EAC, in effetti, è piuttosto simile a quella concepita da Mahatir, fatta eccezione per la retorica ostile e sciovinista. Potrebbe tuttavia rivelarsi prematuro concludere che il primo EAS abbia cancellato l’idea dei policymaker di Pechino di una Comunità dell’Asia orientale guidata dalla Cina, poiché significherebbe non prendere in considerazione le strategie diplomatiche cinesi di lungo termine nella regione.
Nonostante i risultati alquanto modesti del primo EAS, la Cina ha ancora grandi progetti per l’EAC: in sostanza, vorrebbe che diventasse un gruppo
o un blocco di nazioni di interessi affini capace di uguagliare il potenziale economico dell’America settentrionale e dell’UE10. Benché questo potrebbe essere un obiettivo troppo ambizioso per una regione in cui gli accordi di libero scambio bilaterali e multilaterali aumentano di giorno in giorno, Pechino incoraggia l’istituzione di un Area di libero scambio dell’Asia orientale (East Asia Free Trade Area, EAFTA)11
Già nel dicembre 2004, durante il decimo ASEAN Summit a Vientiane (Laos), il primo ministro cinese Wen Jiabao annunciò che l’EAC era una “scelta strategica di lungo termine negli interessi dello sviluppo cinese”. “La Cina non cambierà mai la sua posizione a favore della realizzazione dell’EAC” disse allora, aggiungendo inoltre – e non è poco – che l’EAC non avrebbe preso una forma disapprovata da Pechino12. La disponibilità cinese a lasciare che sia l’ASEAN a dirigere il processo iniziale di formazione dell’EAC potrebbe essere in realtà solo temporanea, dunque, e svanire non appena Pechino avrà escogitato una strategia per far valere la sua leadership regionale su paesi non est-asiatici (India, Australia e Nuova Zelanda) seduti al tavolo dei negoziati.
Se si pensa allo sviluppo e alla crescita dell’economia cinese, sebbene questi siano ancora non del tutto sostenibili e rischino crisi e contraccolpi negli anni e nei decenni a venire, è chiaro che il tempo è dalla parte della Cina. Pechino può tranquillamente permettersi di lasciar svolgere qualche altro EAS senza tirarne le fila, aspettando il momento giusto per togliere la leadership all’ASEAN a proprio vantaggio. Per ora, sostenne in un’intervista lo scorso dicembre Chu Shulong dell’Università Tsinghua di Pechino, la Cina si concentrerà sulla creazione del suo accordo di libero scambio con l’ASEAN (previsto per il 2010) e sul “minimizzare” l’importanza dell’EAS. D’altra parte si sospettò che la Cina progettasse di servirsi dell’EAS per fondare un “club per soli est-asiatici” con una dimensione di sicurezza, sul modello dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO)13. Se era quello il piano di Pechino per l’EAS e l’EAC, la sua attuazione è stata rimandata, almeno per il momento.

6. L’ASEAN è davvero al posto di guida? 

L’ASEAN è davvero alla guida dello sviluppo dell’EAC? Secondo la retorica ufficiale sì, ma d’altronde conta poco essere al posto di guida se non si sa dove andare. Oltretutto, è assai improbabile che Cina, Giappone, India e Corea del Sud siano disposte ad accettare la leadership dell’ASEAN per un tempo indefinito, se un giorno dovesse emergere qualcosa di concreto dall’EAS. Sei mesi dopo il summit, tuttavia, sembra che sia emerso un consenso attorno all’idea che il cosiddetto “approccio su due livelli” verso l’integrazione regionale in Asia sia la strada su cui procedere: mentre l’ASEAN+3 rimarrà al cuore dell’integrazione e del community-building, l’EAS svolgerà un ruolo di sostegno.
Altri analisti, comunque, come Jasuf Wanandi del Centro di studi strategici a Giacarta, sostengono che l’Asia non dovrebbe avere due processi con lo stesso scopo, vale a dire l’ASEAN+3 e l’EAC. Wanandi definisce questo approccio “controproducente” e “ridondante”, proponendo invece di fondere ASEAN+3 ed EAC includendo gli Stati Uniti nella creazione dell’EAC14 .
In ambedue i casi, a causa della mancanza di alternative migliori e della rivalità sinogiapponese, delle proteste americane contro le presunte ambizioni egemoniche cinesi e la poca chiarezza su quale sia il valore aggiunto dall’EAC all’ASEAN e all’ASEAN+3, lasciare che siano l’ASEAN e il cosiddetto “stile diplomatico dell’ASEAN” a guidare la creazione dell’EAC sembra essere la prospettiva per il futuro. Di fatto, come sostiene David Camroux in modo del tutto appropriato, l’ASEAN rimane il coordinatore “meno inaccettabile” dell’EAS.

7. Le relazioni sinogiapponesi, ostacolo all’integrazione regionale 

Giappone e Cina si parlano con difficoltà e molti concordano sul fatto che le rivalità e le tensioni tra Cina e Giappone, e più recentemente anche tra Giappone e Corea del Sud, continueranno ad essere un ostacolo all’integrazione regionale al di là degli accordi di libero scambio. Durante il summit, i delegati cinesi si sono rifiutati di incontrare la controparte giapponese su base bilaterale, e nei sei mesi successivi al summit le relazioni sinogiapponesi sono andate peggiorando, almeno sul piano politico. Fioriscono come mai prima d’ora, invece, i rapporti economici e d’affari tra Tokyo e Pechino, con un commercio bilaterale che ammonta a circa duecento miliardi di dollari l’anno. Gli investimenti giapponesi in Cina hanno raggiunto lo scorso anno i 6,5 miliardi di dollari e fino ad ora le solide relazioni commerciali e d’affari tra i due paesi non sono state intaccate dalle tensioni legate a divergenti interpretazioni sulla storia della Seconda guerra mondiale, a dispute territoriali nel Mar cinese orientale, ai diritti di proprietà intellettuale e ad altre questioni.
Tuttavia non si sono per nulla spente, almeno per ora, le vecchie speranze che la Cina e il Giappone si riconcilino, diventino la Francia e la Germania dell’Asia e si promuovano solidalmente. Il nazionalismo crescente sia in Giappone sia in Cina (talvolta sostenuto dai governi di Tokyo e Pechino), come l’insistenza del primo ministro giapponese Koizumi nel visitare il controverso Tempio Yasukuni a Tokyo, faranno certamente sì che le relazioni sinogiapponesi rimangano tese15 .
Il resto dell’Asia, fatta forse eccezione per la Corea del Sud, la quale come la Cina discute con Tokyo di interpretazioni della storia del secondo conflitto mondiale e di questioni territoriali irrisolte, è preoccupato dallo stato attuale delle relazioni sinogiapponesi. “L’inasprirsi dei rapporti tra Giappone e Cina e tra Giappone e Corea è dannoso per il community-building in Asia orientale”, afferma Jawhar Hassan, presidente dell’Istituto malese di studi strategici e internazionali16 .
Se le relazioni sinogiapponesi nel dicembre 2006 saranno cattive come nel dicembre 2005, allora ci saranno poche speranze che Tokyo e Pechino possano presentare, in occasione del prossimo EAS nelle Filippine, la comune “roadmap per il community-building” che ha in mente Hitoshi Tanaka, ex-
vice ministro degli esteri e attuale Senior Fellow al Centro giapponese per gli scambi internazionali (Japan Center for International Exchange, JCIC)17 . Tanaka suggerisce che Tokyo e Pechino, in preparazione del prossimo EAS, redigano un documento congiunto che affermi, tra le altre cose, che né il Giappone né la Cina perseguiranno mire egemoniche nella regione.
Il recentissimo rafforzamento dell’alleanza di sicurezza tra Stati Uniti e Giappone attraverso una revisione delle cosiddette “Linee guida USA-
Giappone per la cooperazione difensiva” – un’iniziativa mirata alla Cina
– non aiuta affatto le cose, sostengono i leader di Pechino. L’espansione dei legami difensivi bilaterali con Washington è stata criticata dalla Cina e in altri paesi asiatici come controproducente per il community-building e l’integrazione difensiva multilaterale in Asia orientale, e non aiuta la credibilità del Giappone come leader dell’integrazione regionale. Rimane da vedere, però, se un giorno l’EAS possa diventare un forum per discutere di questioni di sicurezza regionale su un piano multilaterale, così come sperano molti analisti18. In realtà, dall’EAS non è emersa affatto l’idea che i paesi asiatici – e in particolare Cina e Giappone – siano pronti a passare dalla tradizionale enfasi sulle relazioni difensive bilaterali ad una cooperazione multilaterale di sicurezza.
Il Giappone, da parte sua, sostiene la complementarietà tra l’alleanza militare bilaterale con gli USA e le sue politiche regionali multilaterali in materia di relazioni internazionali e di sicurezza, e durante lo scorso anno ha più volte rassicurato Washington che la sua partecipazione all’EAS (e l’esclusione da esso degli Stati Uniti) non avrebbe inciso sui loro legami bilaterali di sicurezza. Nel 2005 Tokyo ha fortemente sostenuto l’inclusione degli USA nel summit e ha rinunciato a fare pressioni in favore di una loro partecipazione solamente quando Washington ha annunciato che un summit senza un ordine del giorno “reale” non era una priorità per l’America e per le sue politiche in Asia orientale19 .
Poiché, almeno per ora, gli Stati Uniti non sono invitati all’EAS, i policymaker americani sperano che il Giappone sfrutti la riunione annuale dell’EAS “almeno” come occasione per rafforzare i suoi rapporti con l’India: “giocare la carta indiana” – così i falchi di Washington hanno definito queste politiche mirate a controbilanciare l’influenza cinese nella regione.
L’India,d’altrocanto,èpocointeressataalvenircoinvoltaneigiochidipotere geopolitici in Asia orientale e nella rivalità sinogiapponese, e principalmente per due ragioni. In primo luogo, le preoccupazioni difensive indiane vertono principalmente attorno all’Asia meridionale e al cercare di assicurarsi una pace sostenibile con il Pakistan. Secondo, l’India – come la maggior parte dei paesi attorno al tavolo del summit – è interessata ad espandere le relazioni commercialiediinvestimenticonisuddettipaesi.Inrealtà,neigiorniprecedenti al summit dell’anno scorso, funzionari indiani hanno ripetutamente enfatizzato che l’India è ansiosa di veder emergere una “Comunità economica dell’Asia orientale”20. La maggiore priorità di Delhi in materia di integrazione regionale, del resto, rimarrà il rafforzamento dell’Associazione dell’Asia meridionale per la cooperazione regionale (South Asian Association for Regional Cooperation, SAARC) sotto la sua (non incontestata) leadership.

8. Un “approccio funzionale”, invece? 

Il prenominato Hitoshi Tanaka sta promuovendo una “cooperazione funzionale” tra i paesi interessati all’istituzione dell’EAC: “La questione chiave che l’Asia si trova ad affrontare non è come definire la membership della comunità, ma come creare un luogo d’incontro adatto che promuova la cooperazione funzionale nella regione”21 . Tanaka sostiene che questo approccio potrebbe diventare, un giorno, la base per un’ulteriore integrazione politica nella regione. Questo conferma, in effetti, ciò che la maggioranza degli analisti sostiene, cioè che l’Asia orientale non sia ancora “matura” per un’integrazione ed un’istituzionalizzazione sul modello dell’Unione europea. L’Asia, di conseguenza, dovrebbe continuare almeno per ora a focalizzarsi sul rafforzamento dei rapporti economici e commerciali, soprattutto attraverso accordi di libero scambio22 . E questo, a sua volta, porta a dubitare che in questa fase abbia davvero senso immaginare una Comunità dell’Asia orientale.
Noboru Hatakeyama, vicepresidente del Consiglio sulla Comunità dell’Asia orientale (Council on East Asian Community, CEAC) con sede a Tokyo, in realtà, sostiene che “il dibattito sull’EAC è ‘superficiale’, e il termine ‘comunità’ è poco più di un bel concetto idealistico ed effettivamente fuorviante”. “Quando si dà forma ad una comunità”, scrisse in un commento del CEAC nel giugno 2005, “è normale che gli stati membri trasferiscano parte della loro sovranità
– ad esempio, i diritti di negoziazione commerciale – a questa comunità, così come avviene in realtà nell’Unione europea”, affermando inoltre che le nazioni asiatiche non sono pronte a compiere questo passo23 . È assai improbabile, almeno per il prossimo futuro, che la creazione di nuove istituzioni regionali a sostegno del community-building in Asia orientale si faccia strada negli ordini del giorno degli EAS. Condividere la sovranità e realizzare un’integrazione regionale attraverso decisioni legalmente vincolanti e implementate da istituzioni (come avviene in UE) in Asia è ancora impensabile.

9. Washington non è più preoccupata? 

L’anno scorso Washington ha ripetutamente definito l’EAS “esclusivo” e “orientato all’interno”, temendo che Pechino cercasse di sfruttare il summit per enfatizzare le sue pretese di egemonia economica, politica e – non da ultima – militare in Asia. Solo quando fu chiaro che Washington non sarebbe stato invitato a Kuala Lumpur, i policymaker americani iniziarono a mettere in dubbio la ragion d’essere del summit, riferendosi ad esso come ad una “scatola nera”: “Nessuno sa cosa sia l’EAS tranne i leader che vi si riuniranno”, affermò il vice-assistente del Segretario di stato americano Eric John durante un’udienza al Congresso lo scorso ottobre24. Ciò, a dire il vero, suonò molto diversamente dalla precedente retorica del Pentagono e del Dipartimento di stato americano, che consideravano inaccettabile il mancato invito degli USA all’EAS in vista degli stretti legami non solo economici tra l’America e molte nazioni asiatiche.
L’esclusione degli USA dal summit, in ogni caso, era in un certo senso “auto-inflitta” e non necessariamente soltanto il frutto di una pressione su scala asiatica da parte di una Cina decisa a tenere gli americani fuori dall’EAS. L’ossessione statunitense per la “lotta al terrorismo” non è certo una priorità per le economie in via di sviluppo dell’ASEAN. E mentre nel recente passato l’America ha cercato di mettere la lotta contro il terrorismo internazionale in cima all’ordine del giorno di quasi tutti i forum a cui ha partecipato (incluso l’APEC, il quale dovrebbe essere focalizzato principalmente su questioni economiche), la Cina, al contrario, sta offrendo all’Asia sudorientale assistenza economico-finanziaria e accordi di libero scambio, sapendo che ciò è ben più apprezzato delle richieste di dare la caccia a gruppi terroristici con l’assistenza militare americana. Oltre a ciò, gli sforzi diplomatici compiuti della Cina nel corso degli ultimi due anni per presentare la propria ascesa economica come “pacifica”, nonostante il latente sospetto nei suoi confronti, ha convinto molti paesi dell’Asia sudorientale che una Cina in rapida crescita economica è vantaggiosa per le crescenti relazioni economiche e politiche con Pechino.

10. E ora? 

Se si condivide il ragionamento (di stampo prettamente occidentale) in base al quale la democrazia e sistemi politici democratici da un lato, e la volontà di condividere la sovranità dall’altro, sono due dei fondamentali prerequisiti per un’integrazione politica significativa, allora l’EAS ha ancora molta strada davanti a sé. In termini pratici e meno idealistici, la diversità interna all’Asia in termini di sviluppo economico, prosperità e prodotto pro capite continuerà – con o senza l’EAS – a rappresentare un ostacolo ad un ulteriore approfondimento dell’integrazione regionale, e specialmente dell’integrazione politica. In particolare, l’enorme differenza all’interno dell’Asia tra i prodotti pro capite dei vari paesi – quelli di Giappone e Singapore, ad esempio, sono superiori ai trentamila dollari l’anno, mentre quelli di Cambogia e Laos non superano i cinquecento – assicurerà che il grado di interesse per l’integrazione politica (a differenza di quello per l’integrazione economica, i cui benefici sono misurabili e più netti) rimanga bassa tra i paesi asiatici in via di sviluppo25 .
Tuttavia, la conclusione, tratta dal giornalista del New York Times Philip Bowring, che il risultato dell’EAS sia “un monito dell’importanza degli Stati Uniti per l’Asia e che la prosperità dovrà continuare ad essere guidata da politiche pragmatiche e orientate al commercio che mettono da parte questioni storiche ed etniche” è una conclusione imbarazzante, visto che Washington negli ultimi cinque anni è stato tutto tranne che sprezzante quanto a politiche multilaterali in Asia26. Gli USA rimarranno comunque un partner d’affari cruciale per molti paesi asiatici, il che non significa, però, che un’integrazione regionale significativa debba necessariamente fallire se gli americani non si siedono al tavolo delle trattative.
Ciò di cui il prossimo EAS ha bisogno è un ordine del giorno con un numero limitato di argomenti sui quali i sedici (o diciassette, nel caso lo status della Russia passi da “osservatore” a “partecipante” verso la fine dell’anno) possano lavorare fino al prossimo incontro. Diversamente l’EAS che si terrà nelle Filippine a dicembre, come ha osservato un analista, potrebbe affondare come un altro “non evento” nella breve storia dell’integrazione in Asia.
In Asia orientale, in fin dei conti, dialogare e non parlare l’uno dell’altro rimane, in ogni caso, un passo avanti.

(traduzione italiana dall’inglese di Giorgio Strafella) 

MONDO CINESE N. 127, APRILE-GIUGNO 2006

Note

1 “Dead on arrival”, The Economist, 14 dicembre 2005. 
2 Fernandez, Clarence, “East Asia Summit – mere talk, or a step forward?”, Boston.com (www.boston.com)
3 Cody, Edward, “East Asian Summit marked by discord”, The Washington Post, 14 dicembre 2005. 
4 “Kuala Lumpur Declaration sull’East Asia Summit di Kuala Lumpur”, 14 dicembre 2005; http://aseansec.org/18098.htm. 
5 “Mahatir blasts inclusion of Australia, New Zealand in East Asia Summit”, Goldsea Intelligence, 6 dicembre 2005.  
6 Yankee stay home”, The Economist, 9 dicembre 2004. 
7 Hale, David, “The East Asian Summit”, AsiaMedia, Media News Daily, 12 dicembre 2005, University of California (UCLA); www.asiamedia.ucla.edu.
8 “Chairman’s Statement of the First East Asian Summit, Kuala Lumpur 14 dicembre 2005"; www.aseansec.org/ 18104.htm. 
9 Camroux, David, “Towards an Asian Community: The East Asia Summit, Kuala Lumpur”, gennaio 2006; http://www. ceri-Sciences-po.org.
10 Vatikiotis, Michael, “”East Asia club leaves US feeling out”, The International Herald Tribune, 6 aprile 2005. 
11 Okfen, Nuria, “Towards an East Asian Community? What ASEM and APEC can tell us”, CSGR Working Paper n. 117/03, Centre for the Study of Globalisation and Regionalism (CSGR), University of Warwick, giugno 2003. 
12 Perlez, Jane, “China shoring up image as Asian superpower”, World Security Network; www.worldsecuritynetwork.com. 
13 “Time To Talk”, The Economist, 8 dicembre 2005. 
14 Wanandi, Jusuf, “Challenges of building an East Asian community”, The Jakarta Post, 7 aprile 2005; Desker, Barry, “Why the East Asia Summit matters”, The Asia Times, 13 dicembre 2005. 
15 Pilling, David, “A Japan than-how rival are vying to lead the post-Koizumi era”, The Financial Times, 10 maggio 2006. 
16 Matsubara Hiroshi, “Asia/Asian community remains distant goal”, The Asahi Shimbun, 8 marzo 2006. 
17 Tanaka Hitoshi, “Japan and China at the crossroads”, East Asia Insights – Towards community-building, Japan Center for International Exchange (JCIC), n. 1, marzo 2006. 
18 Leong, Henry, “East Asia Summit – just another talkfest?”, Online opinion – Australia’s e-journal of social and political debate; www.onlineopinion.com.au. 
19 Berkofsky, Axel, “Tokyo lacking community spirit”, The Asia Times, 5 ottobre 2005; per un’eccellente analisi del punto di vista americano sul’EAS e l’EAC, si veda Cossa, Ralph, Tay, Simon, Lee, Chung-min, “The emerging East Asian Community: should Washington be concerned?”, Issues & Insights, vol. 5, n. 9, Pacific Forum CSIS, Honolulu, Hawaii, agosto 2005.  
20 Taniguchi Makoto, “Higashi Ajia keizaiken o teisho suru” (“Time to establish an East Asian economic zone”), Sekai, ottobre 2003.
21 Tanaka Hitoshi, “The ASEAN+3 and the East Asia Summit: A two-tiered approach to community-building”, East Asia Insights – Towards community-building, Japan Center for International Exchange (JCIC), n. 1, marzo 2006. 
22 Per i dettagli, si veda anche Soesastro, Hadi, “Building an East Asian Community through trade and investment integration”, CSIS Working Paper, Economics Working Paper Series, Center for Stategic and International Studies (CSIS), Jakarta, Indonesia,
aprile 2003.   
23
Hatakeyama Noboru, “The East Asian Community – time for an exhaustive debate”, CEAC Commentary, giugno 2005.  
24
“US tries to unravel East Asia Summit puzzle”, Agence France Presse, 23 ottobre 2005.  
25
“East Asia stages inaugural summit”, BBC News, 14 dicembre 2005. 
26 Bowring, Philip, “An Asian Union? Not yet”, The International Herald Tribune, 16 dicembre 2005.

 

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