L’assegnazione del Leone d’Oro della 63° Mostra del Cinema di
Venezia a Still Life (Sanxia Haoren) di Jia Zhangke potrebbe
essere definita a tutti gli effetti come un evento a sorpresa. Come
tale infatti la pellicola è stata presentata in concorso, tenuta segreta fino
all’ultimo e inserita a competizione iniziata dal Direttore della rassegna
Marco Müller. Ma soprattutto a sorpresa è stata la vittoria di un film
che non rientrava nella rosa dei favoriti (Nuovo Mondo di Crialese e
Coeurs di Resnais), ma che, come ha poi confessato alla stampa il
Presidente della giuria Catherine Deneuve, ha convinto tutti i giurati
per la qualità emotiva delle immagini e la intensa bellezza della storia,
caratteristiche primarie che si richiedono a un film. Con Still Life, Jia
Zhangke ottiene così quel riconoscimento all’interno del grande cinema
mondiale che ancora mancava. Eppure quello con Venezia, e con i
festival internazionali in genere, era un rapporto che per Jia esisteva da
tempo; sin dal suo primo lungometraggio (Xiao Wu, 1997) il giovane
regista ha attratto su di sé l’interesse della critica internazionale, che
lo ha subito riconosciuto come l’autore di punta del nuovo cinema
d’autore cinese (yishupian).
1. L’emergere di un cinema “indipendente”
Esistono sostanzialmente due modi per realizzare un film in Cina:
rientrare nel sistema delle quote di uno degli studi di produzione
ufficiali e quindi far approvare prima la sceneggiatura (ma dal 2004 è
sufficiente una sinossi di circa 1500 caratteri) e poi il montaggio finale,
oppure intraprendere la strada dell’indipendenza (duli). Rientrare nel
primo gruppo ha in sé un vantaggio: la possibilità per un film di essere
distribuito ufficialmente e regolarmente in patria, sebbene in realtà la
principale legge che detta la distribuzione è quella del box-office. I film
che appartengono al secondo gruppo quindi sono destinati in Cina a
una circolazione illegale, spesso sotto forma di Dvd pirata, da qui la
definizione di underground (dixia) data a questi film, che comunque
possono circolare nei festival e circuiti cinematografici internazionali.
Eppure come alcuni critici1 hanno messo in evidenza, l’etichetta di
underground - o meglio, “bandito in Cina”- è un titolo che nell’ambito
internazionale contribuisce a destare un certo interesse e attirare
maggiore attenzione da parte di pubblico e critica, curiosi di vedere
cosa si produce in Cina sotto la cortina della censura, alla ricerca forse
di ciò che può essere ancora definito “esotico”, ovvero il mondo cinese
che si cela nascosto dietro censura e propaganda.
A partire dal 1997 Jia Zhangke si fa strada come autore underground,
il suo primo lungometraggio Xiao Wu, considerato ancora oggi come
una piccola pietra miliare della cinematografia cinese, è infatti prodotto
con un piccolo budget privato di circa 400.000 Rmb e girato in 16 mm
con mezzi di fortuna e location precarie.
Seguendo la tradizionale classificazione di registi cinesi in base alle
generazioni di appartenenza2, Jia viene così accostato ai cosiddetti
registi della Sesta generazione. Tratto distintivo dei membri di questo
gruppo, di cui Zhang Yuan, Wang Xiaoshuai e He Jianjun sono i
primi è più importanti nomi, non è stato solo nascere dopo l’inizio
della Rivoluzione culturale, ma anche e soprattutto realizzare film in
maniera indipendente, a partire dal 1989, considerato uno spartiacque
tra la Quinta e Sesta generazione, sperimentando così un nuovo tipo
di produzione in cui spesso il capitale aveva provenienza straniera
(compresi finanziatori di Hong Kong e Taiwan)3. Da un punto di vista
estetico i registi indipendenti iniziano a includere anche nuovi linguaggi
espressivi, come il videoclip e il documentario. Mentre per abbattere i
costi di produzione si utilizzano le videocamere elettroniche che negli
anni ’90 si diffondono nel mercato cinese.
E’ in questo contesto, dove la censura gioca comunque un ruolo
importante alternando relative liberalizzazioni a interventi di divieti e
restrizioni4, che si inserisce la figura di Jia Zhangke, nato nel 1970 a
Fengyang, nello Shanxi.
2. La trilogia del villaggio natale
Jia Zhangke si è imposto soprattutto all’attenzione della critica
internazionale per una serie di tre lungometraggi indipendenti (alcuni
dei quali con capitale straniero)5 ambientati nella sua provincia di
origine e che costituiscono Guxiang sanbuquzhi (La trilogia del
villaggio natale), preceduta in realtà da un mediometraggio Xiao Shan
hui jia (Xiao Shan torna a casa, 1995), realizzato alla fine del corso
di regia presso l’Accademia di Cinema di Pechino e distribuito in Cina
solo come Dvd pirata. Sin dai primi film si nota che sebbene Jia viene
accostato alla Sesta generazione per ragioni anagrafiche, sembra in parte
discostarsene soprattutto per caratteristiche stilistiche. Innanzitutto, al
contrario di registi di quella generazione, apprezza i film della Quinta,
avendo dichiarato più volte di aver deciso di diventare regista dopo
aver visto Terra Gialla (Chen Kaige, 1984), e da essi trae l’ispirazione
per raccontare la Cina di oggi, con lo stesso sguardo carico di riflessioni
che trascendono l’immagine, e che richiamano un nuovo sistema di
valori che emerge nella Cina contemporanea. Il suo è uno stile che
comprende elementi del realismo, ma fatto di lunghi piani sequenza,
in cui i fluidi movimenti della macchina da presa sono ricchi di uno
sguardo partecipe e attento ai dettagli, soprattutto quelli fuori campo
nei quali si percepisce la Cina circostante.
De La trilogia del villaggio natale fanno parte Xiao Wu (Xiao
Wu, 1997), storia di un borseggiatore incapace di adeguarsi ai rapidi
cambiamenti, con tono realista Jia ne racconta la difficoltà nei legami
sentimentali e familiari, e infine l’arresto che lo espone inerme agli
occhi di tutto il villaggio, oltre che a quelli degli spettatori. Il successivo
Platform (Zhantai, 2001), presentato con successo di critica in molti
festival internazionali6, fotografa gli effetti delle riforme degli anni ’80
su un gruppo artistico di distretto di cui fanno parte quattro giovani
amici. In Platform è l’attività musicale-artistica dei protagonisti che,
subendo il passaggio verso la liberalizzazione e commercializzazione
dell’arte degli anni ’80, diviene metafora di tutta una Cina spinta al
cambiamento. Ma l’impossibilità dei giovani di lasciare (o fuggire)
Fengyang, all’inseguimento delle lusinghe di uno sviluppo già tangibile,
fa comprendere la poetica e la posizione del regista, che fonde
sapientemente realismo e una riflessione autobiografica. Terzo film è
Unknown Pleasures (Ren Xiaoyao, 2002), con il quale Jia abbandona
Fengyang per seguire due ventenni di Datong (sempre nello Shanxi), il
loro peregrinare senza una vera meta, privi di ambizioni e prospettive.
Quest’ultimo al contrario degli altri viene girato in digitale (shuma)7,
mezzo più economico della pellicola e che in questi ultimi anni
si è rapidamente diffuso in Cina, non solo permettendo al cinema
underground di diffondersi ulteriormente, portando a una crescita
esponenziale e diffusione capillare degli autori, ma contribuendo alla
nascita di nuove forme di espressione visive e loro commistioni, così
come aveva fatto il video analogico circa dieci anni prima.
3. Nel “nuovo” mondo
L’opera successiva di Jia Zhangke è The World (Shijie, 2004). Il “mondo”
evocato dal titolo è quello ricostruito in miniatura all’interno di un parco
di divertimenti a Pechino. Qui l’amore tra due dipendenti del parco ed
il loro rapportarsi a questo “mondo” ricostruito diventa ancora una volta
per Jia occasione per esplorare le problematiche sorte in Cina con i rapidi
cambiamenti di questi ultimi anni. La precarietà e l’impossibilità degli
affetti diventano metafora dell’incertezza del lavoro senza prospettive, della
solitudine della moltitudine di immigrati dalle campagne in cerca di lavoro.
Questa volta lo sguardo di Jia viene sedotto dall’alto budget disponibile
per questo film e dagli effetti digitali, che lo rendono un prodotto subito
disponibile per il mercato interno e da cui vengono persino tratti dei
videoclip per Mtv. The World è il film della svolta che segna la riconciliazione
di Jia Zhangke con la produzione ufficiale e la censura, che proprio all’inizio
del 2004 ha “riabilitato le sue credenziali come regista”8, legittimando così il
suo successo e la sua opera, dopo che ne aveva censurato i film precedenti9.
Co-prodotto dagli Studi Cinematografici di Shanghai, The World è dunque
anche il primo film del regista ad essere proiettato in patria, con esso
egli abbandona la periferia in favore della metropoli, dove una copia in
miniatura del mondo diventa un non-luogo, un segno di una difficoltà, o
incapacità, di guardare il mondo nella sua realtà e interezza. Protagonista
del film è l’attrice Zhao Tao, non solo interprete nei due film precedenti, ma
anche nel successivo Still Life (anch’esso prodotto dagli Studi di Shanghai),
che vede Jia Zhangke tornare a raccontare una storia di provincia dove
incombe l’oblio della memoria e della tradizione, dovuto alle acque della
diga delle Tre Gole destinate a cancellare interi villaggi. Still Life fotografa
un periodo particolarmente prolifico e fortunato per il regista10, e sarà anche
il suo primo film a essere distribuito in Italia11 .
4. Verso una moltiplicazione degli sguardi
Nella seconda parte di The Days, opera prima di Wang Xiaoshuai, il
protagonista torna nel suo villaggio natale e si rende conto che molte
cose sono cambiate dalla sua ultima visita: i campi hanno lasciato il
posto alle fabbriche, e la scuola è stata trasformata in un magazzino.
Già nel 1993 Wang Xiaoshuai offriva così il proprio punto di vista sui
cambiamenti della provincia, attraverso il ritorno al villaggio natale (Guxiang), un tema sempre frequente nell’arte cinese. Ma in generale
l’attenzione del cinema indipendente degli anni ‘90 in Cina si è spostata
nel rappresentare con urgenza espressiva la realtà urbana, il rapporto
dell’individuo con il proprio villaggio natale sopravvive così solo in
pochi giovani autori come Jia.
All’interno della sua poetica sembrano esistere, al contrario degli
altri registi della Sesta generazione, dei tratti di continuità con la
generazione precedente, ma allo stesso tempo egli è mosso da una
certa urgenza espressiva personale, propria dei registi indipendenti, che
per lui diventa un raccontarsi attraverso le storie, di disagio e difficile
integrazione, della propria terra, della quale il regista, facendovi
ritorno, non può non notarne e documentare i cambiamenti.
Secondo Bérénice Reynaud12 , comunque “non è un caso che
Xiao
Wu sia girato nello Shaanxi13, dove già Chen Kaige ha realizzato
Terra Gialla: ne è consapevole Jia che insiste su quanto il paesaggio sia
cambiato”14 . Jia, forse volontariamente si ricollega alla tradizione della
Quinta generazione, trovando in essa ispirazione per il proprio cinema,
che ha l’obiettivo di “descrivere la realtà cinese senza distorsioni”15.
Ma egli sembra comunque interessato anche alle geografie umane,
alle relazioni che mutano in un paesaggio che traspare sullo sfondo
in rovina, avvolto dalle nebbie di una modernizzazione di cui già si
cominciano a vedere i lati negativi. Ma esiste una differenza sostanziale
tra l’opera di Jia e la Quinta generazione: mentre per quest’ultima
andare nelle province del nord-ovest era un modo per ricercarvi radici
culturali e indagare sulla propria identità, per Jia si tratta piuttosto di
un attaccamento alla sua Fengyang e del desiderio di raccontarne i
problemi, con sentimenti di identità e orgoglio regionali che si riflettono
a un livello personale.
Per Tony Rayns16 questo senso di attaccamento “è parte di un
processo di decentramento. Dopo 4 o 5 decenni di governo comunista,
ogni cosa in Cina è diventata molto centralizzata. La capitale, con
l’eccezione di Shanghai, era divenuta il centro di tutto, innanzitutto
la sede del governo, ma anche il centro dell’economia, dell’industria,
della cultura e della politica. La gente più o meno ha accettato questa
situazione per qualche decennio, ma ora c’è uno spirito totalmente
diverso; dal mio punto di vista c’è uno sviluppo completamente
nuovo di una coscienza regionale in Cina”17. Questa “nuova coscienza
regionale”, diversa quindi da quella emersa negli anni ’80 nell’ambito
della corrente letteraria della “ricerca delle radici”, ha trovato un
riscontro anche nel cinema, e non solo nelle opere di Jia Zhangke, che
allo stesso tempo sembra aver contribuito ad assottigliare il confine
tra cinema underground e ufficiale.
La decentralizzazione trova nel video digitale un mezzo ideale;
secondo il regista e scrittore Cui Zi’en18, “dagli specialisti del settore
agli studenti, fino ai cittadini comuni, agli impiegati statali, agli studiosi,
e persino fino ai contadini che raramente hanno avuto una diretta
influenza sul discorso visivo, tutti vivono video-digitalizzati”19. Dunque
la decentralizzazione non avviene più solo a livello geografico, verso
la provincia, ma anche ad un livello sociale, in senso verticale, con
un coinvolgimento anche dei non-professionisti. Questo processo
ha permesso anche uno scavalcamento dei controlli della censura,
dal momento che queste molteplici produzioni20 spesso non cercano
una vera distribuzione, ma piuttosto un allontanamento da ogni
riconoscimento ufficiale.
L’iniziativa individuale diventa così il punto chiave del cinema
cinese dagli anni ’90 in poi, e ogni aspirante regista cerca di mantenere
la propria identità, e se Jia Zhangke è colui che meglio ha saputo
raccontare le proprie origini, molti altri aspiranti registi, nel proprio
piccolo, sono pronti a fare altrettanto, non solo fornendo nuovi
elementi al dibattito sullo sviluppo del cinema d’autore (yishupian),
ma dimostrando soprattutto la vitalità dell’attuale panorama
cinematografico in cinese.
MONDO CINESE N. 128, LUGLIO-SETTEMBRE 2006