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CULTURA E SOCIETA'

Il quartiere cinese di Milano: territorio conteso o
laboratorio di ridefinizionedell'identità sociale
degli immigrati cinesi in Italia?

di Daniele COLOGNA

1. La "rivolta di Chinatown" e le retoriche dello scontro culturale.
Nell’aprile 2007, in seguito a una contestazione popolare sfociata in una manifestazione che ha coinvolto oltre 400 persone, la popolazione cinese di Milano è salita agli onori della cronaca come mai era successo prima, con decine di articoli in prima pagina sui principali quotidiani locali e nazionali, ampi
approfondimenti nelle pagine interne, un dibattito massmediatico che ha tenuto banco nella stampa, in televisione e su internet per settimane. La contestazione è culminata in violenti scontri con le autorità di pubblica sicurezza nel cuore del cosiddetto “quartiere cinese” di Milano, il compatto reticolo di vie raccolto attorno a via Paolo Sarpi e circoscritto dalle vie Procaccini, Ceresio, Montello, Maggi e Canonica, a pochi passi dall’antica Porta Volta. Nei due mesi precedenti l’intensità dei controlli dei vigili nel quartiere, diretti soprattutto a reprimere le irregolarità nell’attività di carico-scarico dei numerosissimi negozi di commercio all’ingrosso, come pure l’annuncio dell’installazione di alcune telecamere di sorveglianza per “tenere sotto controllo l’illegalità” nel quartiere, avevano suscitato intenso fastidio presso i commercianti cinesi, che si sono sentiti oggetto di un’attenzione selettiva e vessatoria. Un editoriale apparso in prima pagina su uno dei principali periodici in lingua cinese stampato in città, lo Ouzhou Qiaobao-Europe China News, pochi giorni prima degli scontri interpretava con chiarezza i sentimenti prevalenti tra i commercianti cinesi del quartiere e si chiudeva con un esplicito appello a manifestare: “Che cosa possiamo fare? Possiamo solo resistere, fare una manifestazione di protesta! Occorre far capir loro che i cinesi sono uomini, che contano, che anche loro costituiscono parte dell’opinione pubblica e che sono i voti del futuro!”1. Alcuni giovani cinesi del quartiere – tra cui anche figli di commercianti titolari di attività all’ingrosso – avevano preparato alcuni striscioni in lingua cinese e italiana in vista di un sit-in da realizzarsi in piazza Duomo o di fronte a Palazzo Marino: l’occasione è dunque sembrata loro propizia per portare tali striscioni in strada e dare così una più esplicita dimensione politica alla protesta. 

Alla protesta sono seguiti intensi tentativi di concertazione tra l’amministrazione comunale e i portavoce degli interessi dei commercianti all’ingrosso cinesi, essendo le attività all’ingrosso pubblicamente indicate dalle istituzioni locali, dai comitati dei residenti e dai vigili come la fonte delle principali irregolarità nel
carico-scarico delle merci e in generale della radicale trasformazione dell’offerta commerciale nel quartiere. La trattativa si incentra sulla proposta dell’amministrazione comunale di delocalizzare in toto o in buona parte il “polo dell’ingrosso” cinese sorto in alcune vie del quartiere Sarpi in spazi da destinare allo scopo in aree decentrate della regione urbana milanese. Al di là dei progetti urbanistico-commerciali su cui verte oggi il dibattito tra amministratori e commercianti, gli eventi di via Sarpi hanno ispirato una rappresentazione massmediatica della vicenda che ruota attorno ad alcuni punti fermi, ossessivamente ribaditi dalla maggior parte degli organi di comunicazione: la “questione Sarpi” è stata descritta fin dall’inizio nei termini più ampi di uno scontro tra una “comunità cinese” (“chiusa”, “autoreferenziale”, poco incline al dialogo e all’integrazione) e istituzioni desiderose di ripristinare ordine e sicurezza, nonché decise a combattere l’istituzione di una “città separata”2, un vero e proprio “quartiere ghetto”.

A ridosso degli eventi, infatti, il contrasto commercianti cinesi vs. forze dell’ordine/residenti italiani ha ispirato nei media in lingua italiana paragoni con Scampia3 e con il rione Sanità di Napoli4 o con la banlieue parigina in fiamme5. La “Chinatown meneghina” è stata definita “il quartiere dei mille affari dove nessuno muore mai”6, in cui “i più vivono, mangiano e dormono negli stessi locali nei quali lavorano”7, dove una “mafia potentissima, quella delle Triadi, gestisce direttamente l’immigrazione asiatica”8. Un territorio espropriato agli italiani, dove “i cinesi hanno piantato la bandiera rossa per dire che quella è ormai terra loro”9. Nel discorso pubblico sui cinesi in Italia serpeggia anche il timore di trovarsi di fronte a qualcosa di più di un semplice conflitto di interessi tra residenti italiani e commercianti cinesi: c’è chi cita con preoccupazione Huntington e lo scontro di civiltà10, chi dichiara lapidario che “la convivenza è impossibile”, chi rievoca lo spettro del pericolo giallo, affermando perentoriamente che “più dell’Islam è la ‘religione’ dei cinesi ad essere un pericolo mortale per la nostra civiltà e la nostra stessa esistenza un pochino libera”11.

Se i toni più accesi dominano principalmente nella stampa più conservatrice, la visione improntata allo scontro etnico o di culture, alla contrapposizione tra “noi” e “loro”, tende a informare di sé tutti i media italiani, permea le retoriche e le rappresentazioni d imprenditori politici e culturali di ogni parte politica, ed è fatta propria anche dai periodici italiani in lingua cinese, che insistono molto sulla difesa di una minoranza discriminata, rappresentata come vittima di discriminazioni ingiuste. Sullo sfondo di questa retorica del conflitto si tende infine a riprodurre una visione sclerotizzata delle dinamiche di rapporto degli immigrati cinesi con la società e l’economia italiane: all’idea della “comunità incapsulata” fanno infatti da corollario gli stereotipi che vincolano l’immagine sociale dell’immigrato cinese a poche nicchie economiche fortemente etnicizzate e caratterizzate da sfruttamento, lavoro nero, loschi affari, contiguità con la criminalità organizzata, ecc. Una immagine ipostatizzata, di cui lo stereotipo della Chinatown è l’emblema perfetto, che rafforza la percezione dell’immigrato cinese come corpo estraneo, inassimilabile, prigioniero di un modello di inserimento lavorativo che ne consente la sussistenza e che magari permette anche straordinari (e inquietanti) esempi di successo economico, ma che nega ai più qualunque forma di mobilità sociale e di maggiore coinvolgimento nel contesto locale.

2. Oltre lo stereotipo della Chinatown
“Le comunità cinesi sono tendenzialmente chiuse e, costituendo progressivamente tante piccole Chinatown, tendono a perpetuare al proprio interno le tradizioni del Paese d’origine e rafforzare il senso di identità e di appartenenza”: lo scrive il Ministero dell’Interno in un autorevole Rapporto sulla criminalità (!) pubblicato nel 200712. Eppure questa descrizione dello sviluppo dell’imprenditorialità e della residenzialità cinese sul territorio italiano (e, più in generale, europeo) non potrebbe essere più lontana dal vero. Lungi dall’essere vincolato alla costruzione di enclave territoriali, a partire dagli anni della ripresa dei flussi migratori dalla Repubblica popolare cinese (primi anni ’80), l’accesso al mercato del lavoro italiano dei migranti cinesi si è caratterizzato soprattutto per l’insorgere interazione economia/territorio: da un lato, una logica “centrifuga” e puntiforme legata alla creazione di ristoranti, trattorie e takeaway in una molteplicità di realtà urbane e suburbane, dove alla costituzione dell’impresa seguiva la necessità di trovare alloggio per i propri lavoratori nei pressi dell’attività stessa: l’imperativo di scovare mercati locali “vergini” e di scongiurare la saturazione dell’offerta ha spinto molti imprenditori cinesi (e le famiglie loro e dei loro addetti) a distribuirsi un po’ dappertutto lungo la penisola, senza dare adito a concentrazioni residenziali o funzionali; dall’altro, una logica “centripeta” e concentrativa funzionale alla creazione di nicchie produttive in seno a economie manifatturiere di distretto, all’interno delle quali le imprese cinesi si connettono al contesto produttivo in chiave subalterna, all’estremità più debole (e “ricattabile” in termini di prezzi e tempi di consegna) delle catene di subfornitura: è il caso dei laboratori manifatturieri che operano “in conto terzi” nel settore pellettiero e tessile.

A partire dalla seconda metà degli anni ’90, in ragione della crescente saturazione dei cosiddetti “settori rifugio” (crisi della ristorazione, del pellettiero e del tessile) che erano serviti da principale canale di ingresso nel mercato del lavoro italiano per i cinesi immigrati negli anni ’80, il dualismo centrifugo-centripeto ha assunto caratteri diversi e più articolati. Non potendo più venire reclutati con successo all’interno di imprese famigliari gestite da familiari ed amici colpite da una rapida e crescente riduzione dei margini di profitto, molti neo-immigrati di quegli anni scelgono di lavorare come venditori ambulanti di articoli made in China o di lavorare alle dipendenze di italiani (o di imprenditori immigrati di altra nazionalità). Gli ambulanti si trasformeranno presto in piccoli imprenditori, dando vita alle prime trading, che importano merci prodotte in Cina per rivenderle all’ingrosso ad altri venditori ambulanti (inzialmente cinesi, ma presto di varia nazionalità, compresi molti italiani attivi nei mercati rionali) o investiranno in nuove tipologie di impresa commerciale al dettaglio, spesso rivolte inizialmente soprattutto al soddisfacimento della domanda di beni e servizi dedicati espressa dai propri connazionali. Chi invece lavora per datori di lavoro italiani spesso fungerà da intermediario per il collocamento di connazionali, consolidando così l’importanza di alcuni settori (la ristorazione, l’industria leggera, l’edilizia) per l’assorbimento della forza lavoro cinese di recente immigrazione.

La proliferazione delle attività commerciali cinesi in zona Sarpi è alla base di un equivoco che si radicherà profondamente negli anni successivi, fino a costruire uno stereotipo pressoché indistruttibile: l’aumentata visibilità della presenza cinese nel quartiere, veicolata dall’ubiquità delle insegne e delle vetrine cinesi come pure dall’alto numero di cinesi che vi si recano per fare acquisti o per socializzare associa indissolubilmente al quartiere l’immagine della Chinatown, di un piccolo mondo a sé in cui si svolgerebbe in toto, senza interazioni con l’esterno e al di fuori delle regole, la vita di una comunità autoreferenziale ed autoghettizzata. Ma la realtà, come mostrano i dati dell’Ufficio dell’anagrafe comunale, è piuttosto diversa. Degli oltre 14.000 cittadini cinesi iscritti all’anagrafe milanese al 31.12.2006 (ultimo dato disponibile), meno del 10% vive nel quartiere Sarpi (dove i residenti cinesi non superano il migliaio). Questa zona vede indubbiamente la massima concentrazione di imprese cinesi in città, ma non ne raccoglie certo la totalità: secondo gli ultimi dati del 2006 della Camera di Commercio disponibili, le imprese individuali con titolare cinese attive in provincia di Milano erano 2.822, ma solo il 18% circa di tali imprese si concentra nel quartiere Sarpi, mentre la stragrande maggioranza risulta distribuita nel resto della città e nell’hinterland, dove le attività all’ingrosso cinesi sono rare. Il 59% delle circa 500 imprese cinesi del quartiere Sarpi è costituito da imprese all’ingrosso, ma il restante 41% di imprese è al dettaglio (comparto oggi in espansione assai più intensa dell’ingrosso), mentre i laboratori manifatturieri sono scomparsi del tutto. Nelle zone di decentramento cittadino in cui i residenti cinesi sono più numerosi non si sono mai rilevati scontri: a disturbare i residenti italiani del quartiere Sarpi è dunque qualcosa di diverso dallo “scontro tra civiltà”. È invece lo squilibrio crescente tra i bisogni e i desideri di una maggioranza di residenti (italiani) rispetto a quelli di una maggioranza di esercenti e di acquirenti (cinesi) a rappresentare il vero nodo del contendere.

3. (Re)inventare Chinatown?
La contrattazione serrata tra gli amministratori comunali e i portavoce dei commercianti cinesi dell’ingrosso, che ha coinvolto pure la rappresentanza consolare della Repubblica popolare cinese a Milano ed ha chiamato in causa anche il comitato di quartiere Vivisarpi e l’Associazione liberi esercenti Sarpi (Ales), si è incentrata sulla delocalizzazione delle attività all’ingrosso, individuate come l’essenziale elemento di disturbo da correggere per resitituire al quartiere una maggiore vivibilità. Ma se alle controparti è sempre stato chiaro che il trasferimento si sarebbe limitato alle imprese in questione (circa 300 grossisti cinesi hanno dato la disponibilità a lasciare il quartiere, posto che vengano loro fornite adeguate garanzie ed incentivi), non sempre lo è ai media e ai cittadini comuni. Sulla questione alcuni imprenditori politici hanno spesso fatto uso di una certa ambiguità retorica (“o sgomberano con le buone o saranno costretti a togliere il disturbo”13 dichiara ad esempio lo scorso febbraio un consigliere comunale della Lega Nord, ed è chiaro che non si riferisce alle imprese), ma anche molti cronisti parlano con disinvoltura della nascita di “una nuova Chinatown”, in riferimento al progetto di insediare al Gratosoglio di una piattaforma logistica per l’ingrosso. Il 18 marzo il Consiglio comunale approva una mozione bipartisan (promossa da Lega e Pd) per l’introduzione “entro il 2008” della zona a traffico limitato e per l’avvio, entro i sei mesi successivi all’implementazione della Ztl, della pedonalizzazione del quartiere, una misura avversata sia dai commercianti cinesi del quartiere sia dagli esercenti dell’Ales, ma vivamente caldeggiata dai residenti e avvallata anche dalla Confesercenti milanese. La contrapposizione residenti-commercianti resta dunque netta e il dibattito sulla delocalizzazione rimane aperto.

Sullo sfondo di tale dibattito vi è una questione più ampia, che in sè ha ben poco a che fare con la ridefinizione urbanistica del quartiere Sarpi: la necessità per l’Italia di sviluppare infrastrutture logistiche adatte alla distribuzione di un flusso di merci made in China in fortissima crescita. Oggi la Repubblica popolare cinese è ormai il principale partner commerciale dell’Unione europea e la bilancia commerciale pende a suo favore: per il 2008 si stima che il volume di merci cinesi in entrata valga 180 miliardi di
dollari14, merci che oggi transitano per oltre il 70% attraverso i porti dell’Europa settentrionale. Ma i porti italiani godono di un vantaggio competitivo importante per via della loro posizione geografica, che consentirebbe di ridurre di quasi una settimana i tempi di trasferimento verso una destinazione europea. Per il sistema logistico italiano della movimentazione merci si tratta di una sfida di chiaro valore strategico, sia per lo sviluppo dei propri porti che per l’intero comparto economico dell’indotto. La metropoli lombarda si trova all’incrocio dei grandi corridoi che convogliano il traffico merci lungo l’asse sud-nord (corridoio europeo Amburgo-Genova; corridoio Tirreno-Brennero) ed est-ovest (corridioio europeo 5 Lisbona-Kiev), ha in Malpensa un importante hub per il traffico merci, avrebbe insomma tutte le carte in regola per intercettare le opportunità offerte dall’espansione del traffico commerciale Ue-Cina. Questa “risorsa latente” del territorio non è sfuggita ad alcuni imprenditori italiani e cinesi (o sino-italiani).

Una cordata importante, che fin dai primi anni duemila cerca di elaborare una proposta progettuale seria per lo sviluppo di una piattaforma logistica decentrata in posizione extraurbana (a 15-60 km da Milano) oppure suburbana (5-15 km) di Milano15 (cfr. Tamini, 2006), è proprio quella capitanata dagli imprenditori che oggi sono solitamente descritti come portavoce della comunità, come Luigi Sun ed Angelo Ou. Il loro progetto originario, denominato MATraC-Milan Asian Trade Center, risale al 2006 ed ipotizzava un’ubicazione di tale piattaforma in un comune della zona sud di Milano (San Donato). Il nuovo progetto, quello di cui oggi si discute con il Comune, prende il nome di Asian Trading Center e prevede la destinazione all’immagazzinamento e alla vendita all’ingrosso di merci importate dalla Cina di complessivi 53.000 metri quadrati dei maxicapannoni di proprietà dell’Okoi (una società italiana che nell’area già gestisce il Car World Center) nel quartiere periferico di Gratosoglio16. Vista la rilevanza strategica che un investimento di questo tipo assume per le relazioni commerciali tra Italia e Cina, non stupisce l’attenzione che le rappresentanze diplomatiche della Repubblica popolare cinese in Italia dedicano alla vicenda. Ma il fatto che le trattative si siano connotate come una negoziazione privata (e a porte chiuse) di una questione di interesse pubblico17, mette in ombra la necessità di confrontarsi su cosa possa o debba essere il quartiere Sarpi: necessità fortemente sentita dall’opinione pubblica, sia italiana che cinese, che spesso non sa nulla delle implicazioni macroeconomiche di una trattativa tuttora presentata come un dialogo tra la “comunità cinese” e un’amministrazione comunale “interprete dei fabbisogni dei cittadini”. Non stupisce dunque che le reazioni alle proposte di intervento annunciate siano essenzialmente di sconcerto e di rigetto: i cittadini di Gratosoglio “si ribellano”, i piccoli commercianti all’ingrosso del quartiere Sarpi nicchiano, e i milanesi in generale assistono confusi a processi che non riescono a comprendere.

Storicamente, i processi di sviluppo e di trasformazione dei quartieri connotati dalla presenza o dall’imprenditorialità cinese in emigrazione sono sempre stati condizionati in modo determinante dai rapporti tra la minoranza immigrata e la società dominante. Lungi dall’essere espressione di una mera “propensione all’autosegregazione”, queste aree urbane sono nate invece da interazioni complesse che oltreoceano, dove sono nate le prime Chinatown d’Occidente, sono state caratterizzate a lungo dal
pregiudizio, dal razzismo e dalla segregazione etnica. Nei primi contesti non-cinesi in cui si sviluppa la diaspora cinese – i paesi del Sudest asiatico – è vero che i sudditi del celeste impero tendono a negoziare modelli di parziale extraterritorialità che governavano la presenza di enclave mercantili straniere sul territorio cinese18. Ma nella prima e più importante Chinatown occidentale, quella di San Francisco, l’enclave cinese si sviluppa19 come conseguenza diretta della violenza del movimento anti-cinese, che in California acquista slancio a partire dal 1870, fino a culminare nel Chinese Exclusion Act del 1882. Tale legge vieterà ogni nuova immigrazione di cittadini cinesi negli Stati uniti d’America e verrà abolita solo nel 1965.

Quando il terremoto del 1906 ed il tremendo incendio che lo seguirà distruggeranno buona parte di San Francisco, radendo al suolo Chinatown, i notabili cittadini (bianchi) faranno di tutto per tentare di “delocalizzare” il quartiere cinese dalla sua centralissima posizione alla periferia della città. Ma i cinesi resteranno, convincendo le autorità cittadine della remuneratività della propria presenza e della potenzialità del loro quartiere per lo sviluppo di un’industria turistica cittadina. I tre decenni successivi, infatti, vedranno la consacrazione della nuova Chinatown risorta dalle proprie ceneri come “simulacro dell’esotico” e principale attrazione turistica della città20. Venne fatto uno sforzo consapevole di omologazione – anche architettonica – del quartiere agli stereotipi occidentali sull’Oriente misterioso, alimentando ad arte l’impressione che il quartiere fosse “un pezzo di vecchia Cina trapiantato nella moderna San Francisco”21, la rappresentazione pittoresca e sottilmente inquietante di un impenetrabile piccolo mondo a parte, mentre nella realtà quella enclave “puramente cinese” non era mai esistita22. L’operazione di ridefinizione urbanistica ha successo, ma le sue conseguenze simboliche – il rafforzamento potente di tutti gli stereotipi sull’irriducibile alterità dei cinesi – graveranno pesantemente sull’immagine sociale dei cinesi in Occidente fino al giorno d’oggi.

Il modello della Chinatown-attrazione turistica farà scuola: fatto proprio, ancor prima che da San Francisco, dalla sua comunità sorella di New York23, che poteva far tesoro di una tradizione propria della borghesia newyorchese, quella dello slumming, ossia della visita ai quartieri poveri della città in cerca di emozioni forti, appena velate da un’ostentata pretesa di sensibilità sociale, il cliché del ghetto da cartolina troverà adepti in molte altre amministrazioni cittadine nordamericane, spesso con l’attiva collaborazione di ristoratori e commercianti cinesi tesi a proteggere i propri interessi economici e desiderosi di scongiurare nuove derive xenofobe: Chicago, Los Angeles, Boston… fino al paradosso di Washington D.C., dove alcuni amministratori e urbanisti propongono addirittura di “inventarsi” un quartiere cinese disegnandolo a tavolino, come una sorta di parco a tema etnico, invitando poi commercianti e imprenditori cino-americani a trasferirvisi24! Come argomenta Jan Lin, “Nell’ambito dell’economia turistica l’etnicità e la comunità sono dunque fenomeni drammaturgici (…) messi consapevolmente in scena al cospetto di osservatori estranei all’enclave”25

E in Europa? Su questa sponda dell’Atlantico, nessun “quartiere cinese” oggi esistente è l’esito di processi di segregazione sociale o di ghettizzazione (e neppure di “autoghettizzazione”), né vi raccoglie in toto o in prevalenza la popolazione cinese presente sul territorio, ma vi sono numerosi esempi di costruzione concertata e di pianificazione urbanistica condivisa, che ha coinvolto una pluralità di attori sociali: istituzioni, movimenti sociali e culturali, residenti e commercianti, intere collettività di cittadini. A Parigi, città di cui l’immigrazione cinese in Italia è figlia26, vi sono diverse zone della città in cui si manifesta il radicamento della popolazione di origine cinese. Il quartiere Arts e Métiers, ad esempio, nel III Arrondissement, ha molto in comune con il quartiere Sarpi: vi si concentrano infatti le piccole attività commerciali all’ingrosso e al dettaglio dei cinesi del Zhejiang. Si tratta di una zona centrale e di pregio (il Marais), parzialmente pedonalizzata, disseminata di dissuasori della sosta, il carico-scarico vi avviene per mezzo dei diable, i “famigerati” carrellini. Ma i negozi hanno l’aspetto di boutique (le insegne sono tutte in francese), la conflittualità tra residenti e commercianti è pressoché nulla (il quartiere ha sempre avuto una vocazione “bottegaia”), in loco ha sede l’Associazione dei cinesi residenti in Francia, che vi organizza con successo corsi di lingua cinese per i bambini cinesi nati in Francia ed è un punto di riferimento sia per l’ufficialità francese che per le delegazioni cinesi.

Vi sono poi quartieri dalla forte connotazione etnica come il triangolo di Choisy nel XIII Arrondissement, la prima zona di Parigi a guadagnarsi l’epiteto di “Chinatown”27, dove si sono insediati alla fine degli anni ’70 i rifugiati delle guerre d’Indocina (perlopiù di origine etnica cinese) e dove ai numerosi ipermercati etnici si avvicendano insegne colorate in varie lingue asiatiche di ristoranti e negozietti al dettaglio; oppure Belleville, il pirotecnico quartiere afro-arabo-asiatico dove i caratteri cinesi si mescolano all’arabo celebrato dai romanzi di Daniel Pennac, un vero luogo dell’anima per la Parigi creola del XXI secolo. Infine, il quartiere di Sedaine- Popincourt nell’XI Arrondissement, dove negli ultimi anni si è concentrata una massiccia presenza di negozi all’ingrosso cinesi che ha suscitato le proteste dei residenti e, soprattutto, degli artigiani e grossisti di capi d’abbigliamento del vicino quartiere del Sentier, un polo del pronto moda parigino, che hanno intravisto nell’ingrosso cinese un temibile concorrente. Anche in questo caso siamo in una zona centrale, a ridosso di piazza della Bastiglia: nessuno parla di degrado, ma di una atrofizzazione dell’offerta di servizi di prossimità sì. La soluzione adottata dagli amministratori locali è stata quella di promuovere la delocalizzazione delle attività all’ingrosso verso la periferia, costituendo una società immobiliare pubblica che ha diritto di prelazione sull’acquisto o l’affitto di negozi nel quartiere. Quest’ultima ne stabilisce poi la destinazione d’uso in base a un piano urbanistico che mira a ridiversificare gli esercizi della zona. Nel Regno unito e nei Paesi bassi prevale invece il modello del quartiere etnicizzato in chiave turistica: è il caso di Soho, a Londra, ma anche di Amsterdam (dove però la vicinanza al porto assicura anche lo sviluppo di magazzini e di mercati all’ingrosso di merci made in China) e, soprattutto, dell’Aja. In quest’ultima città la messa in scena del quartiere cinese come “parco a tema della cinesità” è stata studiata ed implementata deliberatamente dall’amministrazione comunale28. Anche a Milano vi sono accesi propositori di una valorizzazione del quartiere Sarpi in chiave turistica (è un sogno nel cassetto per gli imprenditori italo-cinesi come Luigi Sun e Angelo Ou, che, essendo espressione delle famiglie cinesi di più antica presenza in città, hanno legami profondi con il quartiere e desiderano da tempo onorarne il retaggio storico) e non è detto
che si tratti di una proposta irrealizzabile o incondivisibile da parte dei residenti e commercianti italiani e cinesi.

Ma forse è proprio questo il problema vero: il significato profondo della presenza cinese in città, della sua storia e del suo possibile futuro, non riguarda soltanto una manciata di privati imprenditori, non può essere confinata alla risoluzione di un problema contingente di viabilità o di urbanistica, né si può ridurre
a una lite di vicinato sfuggita ampiamente di mano, o, peggio, all’idea che tale presenza inauguri una stagione di ineludibili conflitti etnico-culturali. È invece una questione che riguarda tutti i cittadini di Milano e che impone una riflessione seria – e, possibilmente, pacata – su che tipo di città globale il capoluogo lombardo desideri diventare, quale modello di società plurale possa rappresentare per il paese e per l’Europa.

MONDO CINESE N. 134, GENNAIO - MARZO 2008

Note

1.Editoriale non firmato apparso su Ouzhou Qiaobao-Europe China News, n. 556, 9.4.2007-12.4.2007, p. 1. . 
2 Giangiacomo Schiavi, “La città separata”,
Corriere della Sera (CdS), 13.4.2007, p. 1.  .
3 Ippolito Negri, “Non c’è voglia di integrazione”,
Il Giorno, 13.4.2007, Sezione Milano Metropoli, p. 1. . 
4 Marco Belpoliti, “L’altra Gomorra”,
La Stampa, 13.4.2007, p. 1..  
5 Schiavi,
op.cit. . 
6 Gianandrea Zagato, “Il quartiere dei mille affari dove nessuno muore mai”,
Il Giornale (IG), 13.4.2007, p. 6. . 
7 Paola d’Amico, “Otto ore di scontri. La rivolta di Chinatown”,
CdS, 13.4.2007, Cronaca di Milano, p. 3..  
8 Schiavi,
op.cit. . 
9 Renato Farina, “Quel drago è pericoloso, la sinistra non ci giochi”,
Libero, 15.4.2007, p. 2. . 
10 Massimo Introvigne, “L’autoisolamento di una comunità”,
IG, 14.4.2007, p. 1..  
11 Farina,
op.cit..  
12
Rapporto sulla criminalità in Italia, Ministero dell’Interno, Roma, 2007, p. 218. . 
13 Paola Fucilieri, “Un altro omicidio a Chinatown: cinese accoltellato per strada”,
IG, 16.4.2008, Milano Cronaca, p. 52. .
14 Dionisia Cazzaniga Francesetti, Marco Rosa-Clot,
Italian Ports’ Offer in Italian Chinese Trade, presentazione powerpoint, Università di Firenze, <http://www.esteri.it/coordinamentocina/flusso.asp>. .  
15 Luca Tamini, “Il governo del fenomeno commerciale cinese a Milano: geografie dell’offerta, politiche e progetti di intervento”, relazione presentata al Seminario di studio URB&COM – Politecnico di Milano,
Il governo del fenomeno commerciale cinese. Problemi e politiche di intervento a Milano e Roma, Milano, 17 febbraio 2006 (opera in fase di stampa)..  
16 Stefano Rossi, “Hotel, 400 negozi e un museo: così sarà la nuova Chinatown. Il console: i grossisti traslocheranno entro il 2010”,
La Repubblica (LR), 20.2.2008, Sezione Milano, p. 2..  
17 Ivan Berni, “Chinatown, ok al trasloco, ma Gratosoglio si ribella”,
LR, 20.2.2008, p. 1. . 
18 Cfr. Lynn Pan,
Sons of the Yellow Emperor. A History of the Chinese Diaspora, New York, Kodansha International, 1990 e Pan Lynn (a cura di), The Encyclopedia of the Chinese Overseas, Singapore, The Chinese Heritage Centre, Archipelago Press, Landmark Books, 1998..  
19 Cfr. Chalsa M. Loo,
Chinatown. Most Time, Hard Time, New York-Westport CN, Praeger, 1991, pp. 41-42.  .
20
Ibid., p. 46. . 
21 Iris Chang,
The Chinese in America: a Narrative History, New York, Viking, 2003, pp. 203-204.  .
22 John Kuo Wei Tchen,
Genthe’s Photographs of San Francisco’s Old Chinatown, New York, Dover Publications, 1984, pp. 3 e 14. . 
23 Zhou Min,
Chinatown. The Socioeconomic Potential of an Urban Enclave, Philadelphia, Temple University Press, 1992; Peter Kwong, The New Chinatown, New York, Hill and Wang, 1996. . 
24 Rath Jan, Pang Ching Lin, “Devoted to the Dragon and the Dollar: The Making of Chinatown, Washington D.C., as a Tourist District”,
ESF Exploratory Workshop – University of Amsterdam, Institute for Migration and Ethnic Studies, 7-9 dicembre 2003, Amsterdam, The Netherlands (relazione non pubblicata)..  
25 Jan Lin,
Reconstructing Chinatown. Ethnic Enclave, Global Change, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1998, p. 205..  
26 Poisson Véronique, “Les Chinois du Zhejiang en France”,
Migrations Société, vol. 9, n. 54, 1997, pp. 43-60; “Pratiche commerciali degli immigrati cinesi nelle ‘chinatown’ francesi”, relazione presentata al convegno internazionale Imprenditori cinesi “immigrati” e città, organizzato dal DIAP-Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, 14 maggio 2007 (relazione non pubblicata)  .
27 Michelle Guillon, Isabelle Taboada Leonetti,
Le Triangle de Choisy. Un quartier chinois a Paris, Paris, CIEMI-L’Harmattan, 1986.  
28 Il quartiere ha perfino un suo curatissimo sito internet: <www.chinatown-denhaag.com> ..
 

 

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