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               La dittatura non cede: i tibetani non saranno mai liberi

di LIU Xiaobo

[Liu Xiaobo, “Duzai bu chu, zangren yong wu ziyou”, Zheng Ming, n.5 (367), maggio 2008, pp. 20-22.]
Il Partito comunista ha provocato un’ondata di fanatismo nazionalista per nascondere la propria crisi politica e la propria incapacità di risolvere le contraddizioni fondamentali di una dittatura monopartitica.
Alla base della questione tibetana c’è l’antagonismo tra dittatura e libertà: solo avviando una riforma democratica e aprendo il dialogo con il Dalai Lama è possibile trovare una strada che conduca alla soluzione del problema.

La crisi in cui versa il Pcc non ha vie di uscita
Dall’inizio del 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, le autorità cinesi sono in massima allerta per gestire al meglio l’importantissimo evento politico che dovrà mostrare al mondo l’apoteosi1 della Cina.
Tuttavia, dal momento che il Partito comunista non ha affatto mantenuto la promessa di migliorare la situazione riguardante il rispetto dei diritti umani in Cina (promessa che fece quando Pechino concorreva
per l’assegnazione dei Giochi olimpici), le Olimpiadi di Pechino si attireranno critiche imbarazzanti che ne metteranno persino in dubbio la legittimità. In questo contesto si colloca lo scoppio della crisi in Tibet,
che è arrivata al punto di provocare un’ondata di boicottaggi attraverso i quali i principali paesi del mondo hanno espresso una salda – e quanto mai rara – comunanza di vedute. E non si tratta soltanto di un’opinione condivisa da Stati Uniti ed Europa, ma di una posizione forte e condivisa assunta dalla gente, dai media e dai governi. Il contesto internazionale con cui si confrontano oggi le autorità del Pcc non può che riportare alla mente l’isolamento internazionale in cui si trovò la Cina dopo i fatti di sangue di Tian’anmen, diciannove anni fa.

Ormai è trascorso più di un mese e mezzo dai “i tumulti di Lhasa del 14 marzo” e, nonostante la risposta “da Rivoluzione culturale” attuata dal Partito e la follia anti-occidentale dei cinesi in patria e d’oltremare, la crisi tibetana non cessa di ribollire, restando ancora al centro dell’attenzione mondiale. Ora che si avvicina il momento dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino, se il regime di Hu Jintao e Wen Jiabao non sarà in grado di adottare il giusto atteggiamento e le misure più appropriate, le rivolte dei tibetani e il biasimo della comunità internazionale ci accompagneranno fino alla fine dei Giochi, rendendo queste Olimpiadi un evento in cui il mondo si identificherà molto poco. Il periglioso viaggio della torcia olimpica durante le sue tappe all’estero lo ha dimostrato molto chiaramente. 

Senza dubbio il regime comunista può usare la forza delle armi per soffocare la rivolta dei tibetani nella Cina continentale, così come può servirsi della propaganda, che monopolizza, per alimentare il fanatismo
sciovinista Han. Le autorità del Partito, ad esempio, hanno parlato degli scontri di Lhasa in modo del tutto parziale e volutamente incompleto, così come i media cinesi hanno partigianamente ingigantito
alcuni errori di quelli occidentali mentre i cinesi in patria e all’estero rendevano pubblica grande petizione su internet per “combattere i separatisti e proteggere il fuoco sacro”2, e via dicendo. Proprio attraverso una rigorosa censura e una propaganda di parte, le autorità comuniste sono pienamente riuscite a trasformare la crisi tibetana in un’ondata di estremismo nazionalista, facendo passare come un contrasto tra le nazionalità Han e tibetana quello che è in realtà un conflitto politico tra libertà e dittatura. Il Partito tuttavia non può mettere a tacere la protesta dei tibetani in esilio, né ottenere l’approvazione dei paesi più influenti nella comunità internazionale, né può tantomeno cancellare la causa scatenante della questione tibetana. Allo stesso modo l’attuale regime non è in grado di risolvere la profonda crisi – del tutto analoga a quella tibetana – in cui versa la Cina intera. Per questa ragione il vantaggio ottenuto dal Partito giocando la carta del nazionalismo è meramente una soluzione temporanea e per di più miope, che può solo concedere un successo momentaneo alla dittatura, ma non aiutare la stabilità durevole di un paese multinazionale come la Cina.

Mentre prima dell’attuale crisi tibetana i delegati del Dalai Lama avevano avuto sei colloqui con le autorità competenti di Pechino, è opinione diffusa all’estero che gli attuali tumulti scoppiati nell’anno delle Olimpiadi abbiano rotto le uova nel paniere al regime di Hu e Wen, rovinando il grandioso spettacolo da “party globale”3 che i Giochi avrebbero dovuto offrire. Questo potrà sicuramente accrescere il sospetto e persino l’ostilità nutriti da Pechino nei confronti del Dalai Lama, allontanando sempre più la soluzione della questione tibetana.

La vera natura della crisi in Tibet: uno scontro tra dittatura e libertà
In realtà, l’ondata di proteste internazionali contro le Olimpiadi di Pechino ha origine dal fatto che in Cina permane una dittatura che calpesta i diritti umani: anche se non fosse scoppiata la crisi tibetana, questa edizione dei Giochi olimpici non avrebbe comunque potuto raccogliere una vasta e sentita partecipazione da parte della comunità internazionale. In altre parole, la crisi delle Olimpiadi non è altro che la crisi della dittatura comunista e la crisi della dittatura è la causa della crisi tibetana.

La difficile situazione in Tibet può sembrare frutto del contrasto tra lo sciovinismo Han e le richieste di maggiore autonomia amministrativa che provengono dalle minoranze nazionali, ma in realtà si tratta dello scontro tra la dittatura del Pcc e la lotta del popolo tibetano per la libertà.

Se guardiamo all’essenza del sistema cinese attuale e alle strategie di potere della dirigenza di Hu Jintao e Wen Jiabao, il problema più grave causato dall’attuale crisi in Tibet non è tanto lo scontro tra le opposte rivendicazioni delle popolazioni Han e tibetana e l’aggravarsi del reciproco odio, quanto piuttosto la contraddizione sistemica che si nasconde sotto il conflitto mal gestito tra questi due popoli. Ipotizziamo ora che non ci sia nessuna crisi in Tibet: se il sistema dittatoriale non cambia, il Partito comunista cinese comunque non potrà mai accettare il compromesso proposto dal Dalai Lama, vale a dire una concessione di autonomia amministrativa in cambio della rinuncia a perseguire l’indipendenza del Tibet.

La richiesta avanzata dal Dalai Lama di un’ampia autonomia per la regione è assai simile al principio “un Paese, due sistemi” formulato per Hong Kong. Intervistato recentemente da Asia Weekly, lo stesso
Dalai Lama ha preso ad esempio Hong Kong affermando che “un Paese, due sistemi” rappresenta senza dubbio un modello a cui ispirarsi per risolvere la questione tibetana. Pechino avrebbe il controllo sulla
difesa e gli affari esteri, mentre le risorse della regione tibetana sarebbero sfruttabili dal governo centrale sulla base di un principio generale di protezione ambientale, in modo che l’intera popolazione del Paese possa trarne beneficio, ma si dovrebbe anche lasciare alla popolazione locale (in linea con una consuetudine diffusa nel mondo) la possibilità di godere dello sfruttamento di una determinata parte di queste risorse. Se il regime guidato da Hu Jintao e Wen Jiabao accettasse l’ampia autonomia amministrativa proposta dal Dalai Lama, per il governo centrale equivarrebbe a cedere potere gestionale al Tibet. Si creerebbe così una situazione da “un Paese due sistemi” come a Hong Kong, ma questa volta all’interno della Cina continentale – e ciò è assolutamente inaccettabile per l’attuale dittatura monopartitica 

Tibetani e cinesi Han, entrambi oppressi dalla schiavitù del Pcc
Questo perché la questione tibetana non è paragonabile né al caso di Hong Kong, né a quello di Taiwan.

L’estraneità di Taiwan dal controllo del governo centrale cinese dura già da decenni. Nonostante abbia conquistato il potere sulla Cina continentale nel 1949, il Pcc non ha mai governato su Taiwan. L’isola, retta dal Partito nazionalista, non solo è indipendente quanto a relazioni internazionali e affari militari, ma è anche riuscita a conservare lo status di membro dell’Onu fino al 1979, anno in cui Stati Uniti e Cina stabilirono relazioni diplomatiche. Oggi Taiwan ha completato un processo di trasformazione del proprio sistema politico e gode di una fiorente democrazia in cui i diritti umani fondamentali sono garantiti e il Capo dello Stato viene eletto direttamente da ventitre milioni di taiwanesi. Questo fa sì che Pechino abbia ancora meno chance di interferire con la politica interna, le relazioni estere e le questioni militari dell’isola.

A Hong Kong, il potere amministrativo è stato nelle mani del governo anglo-hongkonghese fino al 1997. Il ritorno di Hong Kong alla Cina in quell’anno ha rappresentato soltanto la restituzione a Pechino della
sovranità sull’isola, mentre l’indipendenza amministrativa di Hong Kong veniva garantita dal principio “un Paese, due sistemi” e i sistemi economico, politico e legislativo fondamentamente rimanevano sotto il
controllo del governo anglo-hongkonghese. Sebbene dopo l’handover il governatore della Regione amministrativa speciale di Hong Kong abbia bisogno dell’assenso di Pechino per esercitare il proprio potere, egli deve tuttavia ricevere l’incarico dalla popolazione di Hong Kong e il suo governo amministra autonomamente gli affari interni della Ras. Oltre al fatto che rappresenta ancora un mercato distinto da quello continentale, Hong Kong possiede un sistema giuridico autonomo e gode della libertà di stampa.

Quanto al Tibet, invece, l’Accordo di pace in 17 punti sottoscritto da Pechino e Lhasa nel 1951 distingueva molto chiaramente le competenze del potere centrale e della Regione autonoma, garantendo l’indipendenza del governo guidato dal Dalai Lama. Si trattava del primo documento ispirato al principio “un Paese, due sistemi” nella storia dopo l’unificazione della Cina da parte del Pcc. Fino all’insurrezione nel 1959, il Dalai Lama e il governo tibetano tradizionale (il Gaxia) esercitarono un potere in parte indipendente sul Tibet, sperimentando in sostanza il modello “un Paese, due sistemi”. A seguito dell’insurrezione, il Tibet vide però la propria indipendenza totalmente annientata: il 14° Dalai Lama fu mandato in esilio forzato e il 10° Panchen Lama venne messo agli arresti a Pechino. Intanto, il Comitato centrale del Partito assumeva con la forza il potere sul Tibet e il successore al posto di Segretario del Comitato di Partito, mandato nella Regione, fu colui che esercitò concretamente tale potere. Da quel momento in poi i tibetani vennero trattati né più né meno come i cinesi Han. Durante la Rivoluzione culturale, in particolare, le distruzioni subite dai beni culturali e le sofferenze patite dal popolo tibetano non furono inferiori a quelle inferte al patrimonio culturale cinese e alla popolazione Han. I Buddha viventi, i nobili, i mercanti, gli artisti e i medici tibetani vennero criticati, denunciati, portati in parata per essere scherniti dalla folla, picchiati, imprigionati e addirittura perseguitati crudelmente fino alla morte. Il Panchen Lama rimase in prigione per quasi dieci anni, ma lo stesso destino colpì anche i “capitalisti” e le personalità illustri di etnia Han.

Durante l’era di riforma e apertura, il popolo tibetano, proprio come il popolo Han, ha vissuto gli anni ‘80 come un periodo colmo di speranze; entrambi hanno vissuto le tragedie e i massacri del 1989, entrambi hanno subito la feroce repressione e si sono lasciati comprare dal denaro. Attualmente, nonostante le economie di entrambi i popoli abbiano avuto uno sviluppo immenso e il tenore di vita della popolazione sia notevolmente migliorato, così che molti non devono più fare, come ai tempi di Mao, grandi sacrifici per avere un tetto e qualcosa da mangiare, il rispetto dei diritti umani fondamentali viene ancora negato ai tibetani così come agli Han: tutte le libertà che i tibetani non hanno, non le hanno neppure i cinesi. Benchè il Dalai Lama goda di grande considerazione in Occidente e abbia ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace, le autorità di Partito lo hanno definito “uno sciacallo travestito da monaco, un demonio il cui aspetto umano cela una natura bestiale”. Quei dissidenti cinesi che sono ormai in esilio da quasi cinquantanni, così come quelli che dovetter fuggire all’estero dopo i fatti di Tian’anmen, sono tutti stati calunniati ingiustamente dal Partito comunista, che li ha definiti “elementi ostili”: per loro ancora oggi è impossibile tornare a casa. La tecniche e i metodi adottati dalle autorità del Pcc per contrastare il Dalai Lama sono gli stessi utilizzati nei confronti dei cinesi Han appartenenti alla Falun Gong e ad altre forme di religiosità popolare: i tibetani, ad esempio, sono stati costretti con la violenza a diffamare il Dalai Lama, così come erano stati obbligati a fare i seguaci della Falun Gong con il loro leader, Li Hongzhi.

Lo scontro tra nazionalità tibetana e Han nel contesto della crisi tibetana è frutto di una macchinazione consapevole da parte del Partito comunista, e rappresenta di fatto il livello visibile e superficiale della
crisi: il livello profondo, vale a dire la vera natura di questa crisi, è piuttosto la lotta tra dittatura e libertà. Il popolo tibetano e il popolo Han si confrontano con il medesimo regime autoritario, e i problemi
principali che il primo deve affrontare sono gli stessi che perseguitano il secondo. Nel corso della crisi attuale, mentre i cinesi Han insultano e diffamano violentemente il Dalai Lama su internet, la difficile situazione in cui si trovano sia Han che tibetani è esattamente la stessa: sono entrambi prigionieri del medesimo sistema dittatoriale. Fintanto che i cinesi Han restano sotto il controllo della dittatura, privati di ogni libertà, è impossibile che i tibetani precedano gli Han nella conquista della libertà. E finchè la popolazione della Cina propriamente detta non sarà in grado di ottenere e controllare una vera autonomia amministrativa, neppure i tibetani e le altre minoranze etniche potranno ottenere l’autonomia amministrativa per le proprie aree.

Il Dalai Lama, anima della cultura tibetana
La duplice strategia adottata per governare il Tibet che consiste da un lato nel mandare in esilio i leader spirituali e dall’altro nel “comprare” il consenso della gente comune con la ricchezza materiale portata
dalla crescita economica, ha avuto successo solo in apparenza. Il motivo è che nella cultura tibetana, al cui cuore si trova la fede buddhista (nella versione propria della tradizione locale), il legame tra politica e religione ruota attorno ad alcuni grandi leader religiosi e in particolare al più importante tra loro, il Dalai Lama. Il fatto stesso che il Dalai Lama e i suoi non possano tornare in patria fa sì che la cultura tibetana abbia perso la propria anima.

Ora, per un popolo che pone la fede al centro della propria vita non è importante diventare un alto funzionario e guadagnare molto, né conta accumulare miliardi di yuan di denaro pubblico elargito dallo
Stato a fondo perduto; non conta instillare nelle menti le forme della conoscenza mondana, né esercitare pressione politica con proibizioni, sorveglianza e forza militare: niente di tutto ciò può conquistare la venerazione e la lealtà che i tibetani nutrono nei confronti del Dalai Lama, né è sufficiente a far rinnegare la propria fede a questi credenti devoti. Il 17° Karmapa, ad esempio, ha rifiutato i privilegi che il Pcc gli offriva ed è emigrato in India, così come numerosissimi tibetani hanno affrontato grandi rischi personali per fuggire a Dharamsala e fedeli tibetani fortemente legati alla propria terra hanno uno dopo l’altro compiuto viaggi all’estero per parlare della condizione del proprio popolo. Tutto questo manifesta lo spirito di un popolo religioso che è difficile sottomettere utilizzando i vantaggi materiali e che è ancora più difficile piegare sotto la repressione del potere: persone con valori nobili che derivano dalla religione e che renderanno fallimentare qualsiasi strumento secolare di persuasione.

Una realtà ancora più concreta è rappresentata dal fatto che, se il Dalai Lama morisse, la linea moderata del quale è considerato un rappresentante difficilmente gli sopravvivrebbe e la corrente dominante all’interno del governo tibetano in esilio diventerebbe quella della generazione dei giovani radicali che sostiene la posizione intransigente di voler utilizzare la violenza per ribellarsi e ottenere l’indipendenza del Tibet. Considerata l’estrema gravità delle colpe in termini di genocidio culturale e di violazione dei diritti umani delle quali il Partito comunista si è macchiato in Tibet dalla presa del potere sulla regione, i radicali avrebbero ben poca difficoltà a trovare materiale per alimentare l’odio tra i due popoli e fomentare la protesta violenta.

Per questa ragione, la soluzione della questione tibetana dipende fondamentalmente dal fatto che si risolva o meno il problema che riguarda il sistema politico dell’intera Cina. Non importa quale sia il modello scelto per risolvere della questione tibetana, la premessa potica a tale soluzione dovrà essere comunque la democratizzazione di tutto il Paese. Che i negoziati di pace tra Dalai Lama e il regime di Hu e Wen possano o meno iniziare e che, una volta aperti, essi conducano o meno a un risultato concreto non dipenderà dal modo in cui si configureranno le relazioni tra Pechino e Dharamsala, né dalle pressioni esercitate dai Paesi occidentali, bensì dal processo di riforma politico interno alla Cina continentale. Il giorno in cui sarà veramente avviata la democratizzazione della politica cinese – quello sarà il giorno in cui inizieranno veramente i negoziati tra Pechino e il Dalai Lama.

L’unica via d’uscita: un compromesso con il Dalai Lama
Se il Partito comunista cinese continua a non affrontare la realtà e l’élite cinese Han non si fa un esame di coscienza, è impossibile una soluzione pacifica della questione tibetana. Al contrario, è probabile che con il progressivo indebolirsi della capacità di controllo del regime comunista e il crescere dell’odio tra i popoli della Rpc – un odio che più viene manifestato e più aumenta – si arrivi ad uno scontro violento che rappresenterebbe un fallimento su entrambi i fronti. Gli attuali tumulti a Lhasa non sono altro che il presagio di scontri ancor più vasti. 

Innanzitutto, se si approfitta del fatto che il Partito comunista è ancora in grado di tenere la situazione sotto controllo e che il Dalai Lama, il quale, come si è detto, esprime una posizione mediana ispirata alla non violenza, è ancora vivo e in salute, per avviare quanto prima colloqui diretti e negoziati tra Hu Jintao e il Dalai Lama e giungere ad un accordo adeguato attraverso concessioni reciproche, allora ci sono molte possibilità di ottenere dei risultati vantaggiosi ad entrambe le parti coinvolte. È sufficiente che si firmi un accordo di questo genere e, grazie alla sacralità che per i tibetani il suo status riveste e grazie al fatto che in quanto autorità religiosa ogni sua parola può avere un potere immenso, il Dalai Lama riuscirà certamente a convincere i tibetani ad accettare di rimanere all’interno della Cina a fronte dell’attuazione di un’elevata autonomia amministrativa. Così facendo si potrebbe emarginare la fazione radicale che sostiene la posizione dell’indipendenza e il Dalai Lama diventerebbe un eccellente fautore del miglioramento dell’immagine internazionale della Cina. 

In secondo luogo, ponendo la linea moderata del Dalai Lama al centro di una soluzione pacifica per la questione tibetana, si potrebbe creare un precedente rilevante per la soluzione della questione di Taiwan e dei problemi legati ad altre etnie, prevenendo così il rischio concreto che in futuro si acutizzino i contrasti interetnici e scoppino movimenti separatisti violenti su larga scala. Un Tibet dotato di un’ampia autonomia amministrativa così come propone il Dalai Lama sarà un Tibet democratico in cui esisterà una separazione tra politica e religione: questo tipo di esperimento democratico era già stato attuato nell’area che era sotto la giurisdizione del governo del Tibet oggi in esilio. Inoltre, fintanto che il Dalai Lama è vivo, un’esperimento democratico attuato dall’alto verso il basso e condotto giovandosi della sua saggezza e autorità sacrale ha un’alta probabilità di successo – qualcosa di molto simile a ciò che a suo tempo fu realizzato a Taiwan da Jiang Jingguo. Questo avrebbe l’effetto di produrre un importantissimo precedente utile alla trasformazione politica dell’intera Cina.

La soluzione della questione tibetana dipende in tutto e per tutto dalla soluzione del problema che riguarda il sistema politico dell’intera Repubblica popolare. Se la Cina non sarà democratica, il Tibet non avrà libertà. E il giorno in cui il Partito comunista avvierà dei negoziati concreti con il Dalai Lama, quello sarà il momento in cui verrà avviata una politica democratica per la Cina.

19 aprile 2008, nella mia casa di Pechino
(traduzione dal cinese e note di Giorgio Strafella)

MONDO CINESE N. 135, APRILE - GIUGNO 2008

Note

1.Il termine qui usato è jueqi, “ascesa”, da me tradotto “apoteosi” ad indicare come si intenda sottolineare l’avvenuta ascesa della Cina. Si tratta del medesimo termine che si trova nell’espressione heping jueqi, “ascesa pacifica” (oggi mutata in heping fazhan, “sviluppo pacifico”), con il quale la dirigenza cinese ha voluto fornire una rappresentazione del significato che essa attribuisce allo sviluppo cinese sul piano dei rapporti internazionali e del suo approccio a tali relazioni. Su questo tema si veda ad esempio un noto articolo di colui che coniò tale espressione: Zheng Bijian, “China’s ‘peaceful rise’ to Great-power status”, Foreign Affairs,  vol. 84, n. 5, settembre-ottobre 2005, pp. 18-24; si veda inoltre, “La teoria dell’‘ascesa pacifica’: contributi scientifici e applicazioni strategiche”, Mondo Cinese, n. 125, ottobre-dicembre 2005, pp. 43-63 (N.d.T.).
2 Si intende il fuoco olimpico portato dai tedofori (N.d.T.).
3 “Party” in inglese nel testo (N.d.T.).

 

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