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A proposito della
Nyinjey Lam Collection

La Nyinjey Lam Collection (che si traduce in "Il Sentiero della Compassione") consta di 80 sculture in rame, bronzo, argento e oro, di piccole dimensioni, ma di elevata qualità estetica. E' stata presentata in mostra nel 2002 dall'Ashmolean Museum di Oxford ed è stata affidata in deposito presso il Dipartimento di Arte Orientale del museo stesso diretto dal dottor Andrew Topsfield che ha generosamente accondisceso al prestito della Collezione per il suo inserimento nella mostra di Arte Buddhista Tibetana allestita presso la Fondazione Palazzo Bricherasio dal 18 giugno al 19 settembre 2004.
Anche il proprietario della collezione ha dato la sua piena approvazione all'iniziativa. Cittadino americano da decenni residente a Hong Kong, egli desidera tuttavia mantenere l'incognito, e questo suo volere è stato rispettato anche nella pubblicazione del volume "The sculptural heritage of Tibet. Buddhist art in the Nyinjey Lam Collection", curato da David Weldon e Jane Casey Singer, che contiene il catalogo delle opere e al quale si rimanda per una più approfondita analisi storico-stilistica. (Laurence King Publishing, Londra 1999). Nella sua prefazione al volume il collezionista chiarisce come sia stato attratto all'arte buddhista tibetana dall'espressione serena dei Buddha, Bohisattva e Maestri che costituiscono gran parte della collezione e come sia stato confermato nell'impresa (protrattasi per oltre vent'anni) dallo studio dei testi buddhisti che mettono in luce come il punto di partenza sul sentiero della liberazione sia dato dalla "compassione" che si traduce nella lotta per liberare tutti gli esseri dalla sofferenza e dall'angoscia. A questa motivazione fondamentale ne associa un'altra, costituita dall'interesse e dalla simpatia per i Tibetani e per la loro situazione, per il loro modo di essere socievoli, dediti al racconto, al canto, alla danza e, di tanto in tanto, a "una buona bevuta".

Le opere raccolte rappresentano un'eco significativa della grande impresa compiuta dai Tibetani fra l'undicesimo e il quattordicesimo secolo nel forgiare una propria tradizione artistica buddhista, incorporando aspetti provenienti dalle tradizioni dell'India, della Cina e dell'Asia Centrale e creando uno stile complesso, necessariamente sincretico e tuttavia ben definito e riconoscibile come stile nazionale tibetano. Nella collezione si possono distinguere tre parti, la prima delle quali è dedicata a sculture buddhiste risalenti al periodo dall'ottavo al nono secolo, originarie di India, Pakistan e Nepal e a sculture tibetane che riflettono indirizzi stilistici mutuati dall'India orientale, dal Kashmir e dalla Valle di Khatmandu. Va detto a questo proposito che è talvolta molto difficile distinguere fra opere ispirate a quegli stili e opere prodotte in quelle regioni. Va, d'altra parte, tenuto presente che spesso i Tibetani hanno prodotto copie di importanti immagini indiane andate poi perdute, cosa che costituisce un motivo di particolare interesse per gli studiosi di storia dell'arte.
La seconda parte contiene sculture più tipicamente tibetane, generalmente prodotte nei secoli immediatamente successivi al momento della cosiddetta "seconda diffusione del Buddhismo", e cioè alla ripresa succeduta - intorno all'anno mille - al crollo dell'impero tibetano e al periodo di disgregazione politica e sociale che l'aveva seguito. E' questo il periodo della fondazione dei primi grandi monasteri e della costituzione delle prime grandi scuole del Buddhismo tibetano. Ma anche questo gruppo di opere risulta spesso ispirato al modello indiano: proprio con il rinato fervore religioso numerosi pellegrini si recano alle terre del Buddha e i loro resoconti comprendono descrizioni ammirate dei santuari dell'India orientale e delle loro immagini. D'altra parte la costruzione di sempre nuovi templi e monasteri determina l'afflusso in Tibet di artigiani nepalesi, specialmente abili nella fusione e nella lavorazione dei metalli, cosicché molti degli oggetti prodotti in quel periodo possono essere dovuti sia ad artisti nepalesi, sia ad artisti tibetani formatisi alla loro scuola. Emergono tuttavia caratteristiche specifiche, meno rivolte alla sottigliezza e sensualità delle forme e più rivolte a vedere nel corpo umano un veicolo e uno strumento di spiritualità. Accanto a questa tendenza si afferma una crescente attenzione alle immagini di forme irate delle divinità, di cui il Tantrismo fa un importante mezzo di trasformazione delle passioni umane in energia rivolta alla liberazione.

La terza parte della collezione contiene splendidi esempi di ritratti che vanno dal dodicesimo al diciassettesimo secolo. Non si tratta più di forme umane completamente idealizzate, ma di vigorose rappresentazioni di grandi asceti e grandi maestri. L'accurata riproduzione dei loro tratti corporei e fisionomici costituisce agli occhi dei loro adepti il mezzo per una sorta di prolungamento della loro magica efficacia nel guidarli sulla via della salvezza. Questo atteggiamento era naturalmente fondato sul carattere sacro e sacramentale assunto dalla trasmissione da maestro a discepolo degli insegnamenti di tutti i più misteriosi e potenti cicli del ritualismo tantrico. La scultura di ritratti riflette inoltre anche gli sviluppi sopravvenuti nell'organizzazione ecclesiastica del Buddhismo tibetano, con la creazione di gerarchie e con l'emergere di grandi abati dotati di straordinario potere sia in campo religioso, sia in campo politico.

Franco Ricca

 

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