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Tibet: 
realtà e fantasia

Alle soglie del terzo millennio ben pochi sono i luoghi del nostro pianeta che riescono a mantenere intatta la loro identità culturale senza essere progressivamente contaminati dai costumi delle civiltà predominanti. Parallelamente, la tecnologia e l’informatica hanno contribuito ad elargirci su tali luoghi notizie divulgate in "tempo reale" dai moderni mezzi di comunicazione di massa che, a dispetto d'ogni concetto di razza, cultura, o tradizione popolare, alimentano quel processo che prende il nome di "villaggio globale". Tale fenomeno, che se da un lato ha il pregio di rendere l’informazione sempre più alla portata di tutti, dall’altro divulga spesso informazioni sommarie ed approssimative, non prive di grossolani errori dettati dal pressapochismo e dalla ricerca del sensazionale.

Mi riferisco principalmente agli argomenti riguardanti le tradizioni culturali delle popolazioni delle aree himalayane e tibetane che, grazie ad un crescente interesse verso la filosofia buddhista, sono frequentemente oggetto d'articoli, servizi televisivi, documentari e pubblicazioni varie. Purtroppo però tanto zelo non è sempre accompagnato da altrettanto rigore antropologico, prerogativa che ritengo indispensabile per comprendere delle civiltà così lontane e così diverse per lingua, costumi e mentalità.

Il Tibet, paese misterioso per antonomasia, ha da sempre suscitato un grande fascino negli occidentali. Il suo secolare isolamento dal resto del mondo e la sua complessa cultura piena di simboli metafisici, hanno involontariamente alimentato una vasta letteratura fantastica, basata più sui racconti di viaggiatori dotati di fervida immaginazione che su analisi documentate.

L’altopiano tibetano, il più vasto e alto della terra, venne a formarsi circa quaranta milioni di anni fa sotto l’immane spinta del subcontinente indiano che lo fece emergere dal mare, assieme alla catena dell’Himalaya.

Le cronache locali, intrise di miti buddhisti, fanno discendere i progenitori tibetani dall’accoppiamento del Bodhisattva della Compassione, Avalokitesvara, sotto sembianze di una scimmia, con una demonessa delle rocce. Essi generarono una stirpe di creature che si sarebbero via via sempre più umanizzate e civilizzate.

I primi dati tibetani storicamente attendibili, risalgono alla seconda metà del sesto secolo della nostra era, allorché il capo del Tibet Centrale iniziò una progressiva unificazione del paese. Suo figlio, Songtsen Gampo (617-650), sposò, tra le altre, due principesse buddhiste. Fondò diversi templi, tra i quali la Cattedrale di Lhasa (tib. Jo-Khang), promuovendo con fervore il Buddhismo nel paese. A lui si deve inoltre l’introduzione della scrittura della lingua tibetana con caratteri derivanti dal sanscrito. Songtsen Gampo sarà ricordato come il primo re religioso.

Il secondo re religioso fu Trisong Detsen, che salì al trono nel 755. Fervente buddhista, fondò, nel 799, il primo monastero del Tibet, Samye, invitando nel paese il taumaturgo indiano Padmasambhava e proclamando il Buddhismo religione di stato.

Nella prima metà del nono secolo fu eletto il terzo re religioso, Ralpachen, che contribuì grandemente alla traduzione in tibetano dei testi buddhisti indiani redatti in sanscrito. Ralpachen fu assassinato nel 838 su commissione del fratello maggiore Langdarma, crudele oppositore della religione buddhista.

Langdarma attuò una sistematica persecuzione del Buddhismo, costringendo i Maestri indiani a fuggire dal Tibet e distruggendo un gran numero di monasteri.

In seguito a questa violenta repressione, che chiuse definitivamente il periodo chiamato dei re religiosi, il Buddhismo, cacciato dal Tibet Centrale, rispuntò qualche tempo dopo nelle zone esterne, specialmente nell’Amdo e nel Ladakh. Il fervore religioso tibetano tornò a poco a poco a rifiorire trovando le sue massime espressioni in maestri come Naropa, Marpa, Milarepa.

La storia del Tibet ci è stata sempre tramandata così intrisa di mitologie buddhiste e di tradizioni popolari da rendere molto difficile la loro separazione dai fatti storici veri e propri. Questa particolarità delle cronache storiche tibetane, peraltro tipiche di molti paesi asiatici, ha indotto diversi scrittori a descrivere il "Paese delle Nevi" in maniera alquanta fantasiosa e poco attinente alla realtà dei fatti, illustrandolo come il paese della magia e dei miracoli. Ricordiamo "Orizzonte perduto" di James Hilton del 1933 o "La rosa del Tibet" di Lionel Davidson del 1962. Romanzi che hanno perlomeno il pregio di presentarsi come opere di fantasia, senza pretese antropologiche.

Chi scrive non vuole assolutamente negare lo sviluppo che hanno avuto nella civiltà tibetana gli insegnamenti buddhisti, realizzando straordinarie forme meditative. Si vuole invece mettere in guardia gli appassionati di tale cultura dalle informazioni sommarie e poco attendibili che, senza basi rigorose, decantano mirabolanti esperienze trascendentali quasi fossero parti indissolubili della quotidianità. Quella tibetana è una cultura complessa, che trae le sue origini da antichissime tradizioni ancora poco conosciute, se non completamente ignorate dai più. Informazioni frammentarie, slegate dall’intero ambiente culturale tibetano, e soprattutto senza un'adeguata conoscenza della filosofia buddhista, possono portare il pubblico ad una visione distorta delle tradizioni di un popolo che ha l’unica colpa di credere ancora nelle proprie radici e che non merita certo un’attenzione finalizzata unicamente alla soddisfazione delle nostre morbose curiosità o, peggio, ad un’utilizzazione consumistica della sua secolare cultura da parte dell’Occidente.

Sembra che oggi il Tibet sia diventato particolarmente popolare negli Stati Uniti. Divi di Hollywood e uomini politici non nascondono il loro interesse per la meditazione e per il Buddhismo. Si parla di cinquemila centri di meditazione in tutto il paese con circa 15 milioni di persone fra proseliti e simpatizzanti. Nelle ultime settimane sono state promosse innumerevoli mostre, pubblicazioni, conferenze e tavole rotonde sui due film dedicati al Tibet, appena terminati, ed in uscita per il prossimo Natale: SETTE ANNI IN TIBET di Jean-Jacques Annaud, trasposizione cinematografica del soggiorno tibetano dell’alpinista austriaco Heinrich Harrer dal 1943 al 1950 e KUN-DÜN (tib. sKu-mDun = Presenza) di Mar-tin Scorsese, biografia dell’attuale Dalai Lama.

Tutto questo dimostra quanto sia vivo oggi l’interesse per il Tibet e per la sua cultura. Mi auguro che le notizie che ci giungeranno dall’America siano tratte da fonti attendibili, almeno per ciò che riguarda la storia, poiché per la Dottrina ci rifaremo all’antico proverbio tibetano che dice: "Ogni paese il suo dialetto ogni Lama la sua Dottrina".

Charlie Stuparich

Frammenti d'Oriente, dicembre 1997

 

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