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PANNELLI ILLUSTRATIVI
a cura di Erberto Lo Bue
(docente di Storia dell'Arte dell'India  e dell'Asia Centrale - Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna)

INTRODUZIONE

Il Tibet é stato per molto tempo un mito geografico per il grande pubblico occidentale. Lo si immaginava come un altipiano inospitale, spazzato dai venti e dalla neve, separato dal mondo da formidabili barriere montuose.
Al mistero dell'inaccessibile si aggiungeva il fascino dell'altitudine.
L'elevazione topografica del "Tetto del mondo" presuppose la conseguente elevatezza di vedute dei suoi abitanti. Lo si immaginò popolato quindi di "saggi" e di "mistici", fluttuanti fra terra e cielo nel rapimento dell'estasi o immersi in profonde meditazioni in fondo alle grotte. Mistero e magia furono due luoghi comuni senza i quali il Tibet in quel periodo non poteva essere presentato sulle copertine dei libri o nei manifesti delle conferenze.
Quando la realtà tibetana fece di colpo irruzione sulla scena internazionale negli anni cinquanta, si rivelò del tutto diversa, ben più prosaica, quasi drammatica.
Contrariamente a quanto si credeva, il Tibet era stato aperto alle civiltà vicine per molti secoli, trattenendo con esse scambi materiali e culturali.
La sua civiltà si era sviluppata negli ambienti naturali più diversi, non solo nell'arido altipiano. La temperatura media annuale di Lhasa supera di due gradi quella di Monaco di Baviera, e i peschi vi fioriscono a partire dai primi giorni di Aprile.
Infine, se per ogni tibetano il sentimento religioso faceva parte della quotidianità, la grandissima maggioranza di loro era dominata dalle necessità materiali della vita, persino della sopravvivenza, in un ambiente difficile.
La parte artistica della cultura tibetana ha sempre suscitato una particolare attenzione, concretizzatasi in grandi collezioni,sia private che nei maggiori musei e con l'allestimento di mostre d'arte tibetana un po' in tutto il mondo.
I tibetani, ancora oggi, vivono la religione come pratica di vita e questo condiziona profondamente la loro cultura e la loro quotidianità; questa mostra vuole offrire una veduta un po' più ampia di questo straordinario paese, facendo conoscere sia gli aspetti della vita quotidiana, sia quelli della vita artistica.
Una parte della mostra espone una raccolta di oggetti rituali e di uso quotidiano, altri impiegati nella danza o nelle rappresentazioni teatrali, altri ancora usati nella medicina.
Una parte é dedicata invece all'arte pittorica, con le sue tecniche antichissime e le sue severe regole imposte dalla religione e illustrate da una raccolta di dipinti dal XII al XX secolo, provenienti da diverse collezioni italiane ed europee.

LA PITTURA TIBETANA

La pittura tibetana si può far risalire al VII secolo d.C. quando il Buddhismo, insieme alle sue arti, fu introdotto per la prima volta in Tibet proveniente dalle confinanti culture dell'India, Nepal, Cina e Asia Centrale.
Vi sono poche espressioni di arte tibetana prima del VII secolo e gli esemplari più antichi che ci sono pervenuti hanno talmente risentito dell'influenza con le tradizioni artistiche circostanti che è difficile discernere in essi elementi pre-buddhisti, sempre che una precedente tradizione indigena sia esistita.
La pittura tibetana si é espressa attraverso tre canali principali: i manoscritti miniati, la pittura murale e la pittura su stoffa (thang-ka), ciascuno di questi mezzi espressivi inesorabilmente legato ai fini e alle pratiche del Buddhismo.
Le opere d'arte fornivano ai laici, persone spesso analfabete, descrizioni pittoriche della dottrina del Buddhismo.
I ritratti servivano come testimonianze storiche e, in particolar modo prima del XV secolo, hanno incoraggiato un crescente spirito di setta, immortalando alcuni prelati ricchi di carisma ed il loro operato spirituale.
Le immagini, quando rappresentate con sfarzo, riflettevano l'opulenza e lo stato sociale del loro mecenate il quale, commissionandone la realizzazione, acquisiva pubblicamente merito religioso.
Alle immagini si supplicava per ottenere aiuto in battaglia, nel commercio, nelle questioni di cuore e le opere d'arte, insieme con le divinità che in esse risiedevano, condizionavano tutti gli aspetti della passione umana.
I monasteri esercitavano una enorme influenza su questa arte, dato che proprio essi ne erano i mecenati più importanti. Un prelato, per conto del proprio monastero, specificava il soggetto che l'opera d'arte doveva rappresentare e si assicurava che il pittore seguisse le norme iconografiche, iconometriche e i precetti conformi al rituale.
I dipinti tibetani, i thang?ka, stavano appesi nei monasteri, a volte a centinaia in una sola stanza, o nella zona di culto di una casa privata. Alcuni dipinti erano riservati a particolari cerimonie e di conseguenza esposti solo occasionalmente.
Dipinti murali adornavano le pareti e i soffitti di templi e monasteri.
Le miniature dei manoscritti a volte illustrano i temi di un testo religioso ma la loro iconografia spesso non ha legami con essi, servendo semplicemente a dare più forza al manoscritto e concedere più merito religioso ai suoi mecenati.

IL THANG-KA

Il termine thang-ka é la parola tibetana impiegata per definire un rotolo e, più specificatamente, una immagine su un tessuto che può essere arrotolato. Un altro termine é sku-than, che dovrebbe essere usato solo nel caso di una immagine divina. Un altro termine ancora, che si riferisce soprattutto al tipo di supporto, é ras-bris (disegno su cotone).
I thang-ka possono essere dipinti, ricamati o composti da un lavoro di "patchwork" cucito su di un tessuto di sostegno. I thang-ka, dipinti che si possono far risalire alle patas indiane e alle prabhas nepalesi, sono di gran lunga i più diffusi ed anche i più interessanti dal punto di vista della storia dell'arte. Insieme alle pitture murali nei templi e nei monasteri e alle miniature dei testi sacri, essi rappresentano l'aspetto fondamentale dell'arte pittorica tibetana.
Dal momento che i thang-ka hanno una funzione specifica nelle pratiche tantriche di culto e meditazione, il loro sviluppo e la loro popolarità sono andati di pari passo con la diffusione del Buddhismo tantrico in Tibet.
La maggior parte dei thang-ka riproducono l'immagine di una particolare divinità circondata dal suo seguito ultraterreno e dai maestri religiosi che ne hanno diffuso il culto oppure mostrano la complessa struttura dei màndala insieme ai lignaggi che assicuravano la continuità della loro tradizione. Altri soggetti che si trovano con frequenza nei thang-ka tibetani sono i ritratti idealizzati di celebri Lama appartenuti a differenti sette oppure una serie di scene che descrivono le vite di esseri illuminati, i Bodhisattva e i Buddha.
Essendo i thang-ka destinati al culto, l'artista deve osservare molte regole ben precise; i colori, le proporzioni, gli atteggiamenti, i gesti e gli attributi devono rigorosamente corrispondere agli insegnamenti fomiti dai testi rituali. L'analisi iconografica richiede una buona conoscenza del Buddhismo tantrico perché ogni immagine possiede un valore simbolico ben definito e ciascun dettaglio viene ad assumere un significato particolare.

Per saperne di più: Dharmapala Tangka Center (in inglese e tedesco)

IL MANDALA

Tra le più affascinanti eredità dell'arte buddhista vi é il Màndala, parola che può essere tradotta come "assemblea sacra".
Anche se gli artisti, sia scultori che pittori, hanno di frequente interpretato il màndala come un cerchio, esso é anche stato reso nella tradizione con la forma di un semicerchio, di un angolo, un triangolo, un tempio e persino col corpo umano.
Nella sua forma più diffusa il màndala appare come una serie di cerchi concentrici; le sue divinità sono collocate in una struttura quadrata con quattro elaborati cancelli, a volte descritta come un palazzo o un tempio a quattro lati.
Alcuni màndala ospitano centinaia di divinità, altri meno. A prescindere dal numero, le divinità sono disposte in modo simmetrico, a contrassegnare i quattro punti cardinali, quelli intermedi e, a volte, anche il nadir e lo zenit.
Un gruppo di divinità che si trova all'inizio del santuario fa ad esso da guardiano ed é in rapporto con la "sfera protettiva"; queste divinità impediscono l'entrata a tutti coloro che vorrebbero profanare i sacri regni all'interno, e debellano nell'iniziato quelle qualità che impediscono il suo cammino verso l'illuminazione.
Non solo la forma é cruciale per il màndala, ma anche il colore. l quadranti del palazzo-màndala sono divisi in modo tipico in triangoli isosceli di colori diversi, quattro dei seguenti cinque: bianco, giallo, rosso, verde e blu scuro.
Ogni colore é collegato con una delle cinque famiglie di divinità, ognuna di queste governate da un Buddha celeste: Varocana (bianco), Aksobhya (blu), Amithaba (rosso), Ratnasambhava (giallo), a Amoghasiddhi (verde).
Ogni colore é anche associato con una delle cinque afflizioni della personalità umana: confusione, orgoglio, invidia, odio e desiderio.
La divinità centrale può apparire pacata; ma spesso non lo é.
La metafora sessuale suggerisce il processo integrativo che sta al centro del màndala con il maschio e la femmina a simboleggiare le innumerevoli coppie di opposti di cui si ha esperienza nell'esistenza terrena. L'immagine sessuale con le sue caratteristiche di appagamento, beatitudine, unità, completezza, può anche essere percepita come metafora per l'illuminazione.
Le divinità irate suggeriscono invece l'imponente lotta che implica il superamento della propria alienazione. Esse danno corpo a tutte le intime angosce che oscurano i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni e che vietano il conseguimento dell'ideale buddhista della totale illuminazione.

ARTE PROFANA

L'espressione artistica tibetana non si limitò al solo dominio religioso, anche se quello fu, e resta, la sua principale fonte di ispirazione e la sua finalità essenziale.
La ricerca estetica e ornamentale ha anche degli obiettivi più profani. I laici tibetani, soprattutto le donne ma anche i loro compagni, hanno un gusto pronunciato per gli ornamenti, tanto diversi da una regione all'altra quanto generalmente sontuosi. Esse mescolano i gioielli e i reliquiari in oro, in argento o in rame alle perle e alle pietre semipreziose: turchesi, coralli, agate…. infilati o fissati su supporti di stoffa rinforzata.
Se gli ornamenti dell'uomo sono più sobri, certi oggetti di utilità che egli porta addosso, specialmente il pugnale o la spada, passata nella cintura nel Tibet orientale, sono segni di prestigio o di virilità che richiedono, appena le risorse lo permettono, di essere trattati come oggetti d'arte. Questa regola si applica anche tradizionalmente alla bardatura e alla sella del cavallo. D'altra parte anche il lavoro artigianale può essere portato a livello di opera d'arte nella realizzazione di certi oggetti di utilità domestica, particolarmente valorizzati dal fatto che essi sono oggetto di scambi sociali formali o in quanto indici di uno status.
Gli oggetti d'arte di uso profano erano realizzati o impreziositi con ornamenti dagli stessi artigiani: orefici, bronzisti .... che producevano l'arte sacra.
I materiali e le tecniche messi in opera sono, in effetti, identici: rame, ottone e argento, a volte dorato, lavorati per mezzo di battiture, o "repoussé" o cesellati; ornati di incrostazioni, di filigrana e di damascatura; importante il lavoro del ferro cesellato nell'artigianato.
Ciò che caratterizza senza dubbio più particolarmente l'arte profana è la sua propensione a sovrapporre materiali differenti, giocando su contrasti di materiali e di colore, in modo particolare per mezzo di cerchiaggi di rame o di argento finemente lavorati che si evidenziano da un fondo più grezzo di terracotta, di ferro o di legno.

OGGETTI RITUALI

Da un punto di vista terreno gli oggetti rituali sono gli strumenti con cui si compiono i riti della fede.
In Tibet le lampade a burro, gli incensieri, le coppe votive, i vasi per l'acqua, le trombe e i cimbali sono caratteristiche comuni a molte cerimonie. A volte questi oggetti stanno a simboleggiare le forze che si incontrano nelle varie fasi dell'esperienza mistica.
Si dice che il coltello rituale (phurbu) trasmetta grande forza spirituale quando brandito da un abile officiante. Allo stesso tempo questi oggetti possono servire come promemoria dei principi della teologia buddhista. La campana (dribu) e lo scettro a forma di tuono (dorje) insieme stanno a significare l'unione della azione giusta e della saggezza, o illuminazione, la vera essenza del Buddhismo.
Lo scopo essenziale del cerimoniale religioso é quello di evocare una divinità per avere con essa un rapporto di comunicazione e per poterla venerare.
L'uomo non può incontrarsi con la divinità nella condizione terrena cui lui é abituato; egli deve innalzarsi ad un livello spirituale. La trasformazione spirituale, a certi livelli, porta all'annientamento. Per questa ragione molta dell'iconografia collegata con gli oggetti rituali prende ispirazione dall'esperienza della morte: scheletri. teste mozze, tazze ricavate da teschi, ossa umane intagliate, trombe ricavate da femori, immagini di sventramenti, liberazione dal corpo e similari.
Gli oggetti rituali e le immagini relative ad essi sono importanti non solo per il monaco o lo sciamano ma anche per la persona comune.
Ad ogni livello della società tibetana si trovano una consapevolezza della spiritualità e un desiderio di comunicare con la divinità attraverso le cerimonie per quanto semplici esse possano essere. Altari domestici per il culto quotidiano si trovano ovunque ad eccezione forse delle più umili delle case tibetane.
La magia di un amuleto, sia esso custodito in un astuccio d'oro o grossolanamente legato alla nuda pelle sta nella sua capacità di dissipare temporaneamente le nostre paure. Poiché accresce il coraggio, l'amuleto può essere considerato efficace dato che, in ultima analisi, un cuore coraggioso é l'autentico talismano a disposizione dell'uomo.

I GIOIELLI

Nella tradizione buddhista le pietre preziose e i gioielli spesso servono come metafore per gli ideali della fede. Tali metafore scaturiscono da concetti di preziosità, rarità e raffinatezza suprema.
Da tempo immemorabile le gemme e i gioielli sono stati considerati sotto questa luce ed erano di conseguenza mezzi adatti ad esprimere le misteriose ed elusive condizioni spirituali che riguardano le pratiche religiose.
Queste elevate associazioni speculative non escludono un altro significato più mondano per i gioielli himalayani.
La società tibetana era estremamente gerarchica e i gioielli riflettevano quindi non solo la ricchezza personale ma anche il preciso stato sociale e politico.
I gioielli d'oro sono rari e se li possono permettere solo i facoltosi e i potenti. La loro rarità suggerisce l'esclusività, la raffinatezza, la superiorità. Heinrich Harrer ha fatto notare che gli ufficiali dell'esercito appartenenti ai ranghi più alti si distinguevano da quelli appartenenti ai ranghi inferiori per la quantità delle decorazioni d'oro che indossavano.
Il terzo giorno dell'Anno Nuovo se una donna fuori di casa appariva senza la sua acconciatura di gioielli poteva essere multata.
I gioielli di una nobildonna riflettevano il rango the il marito ricopriva al governo; ogni uomo era obbligato a fare omaggio alla propria moglie di gioielli che corrispondevano al suo rango. Promozione nel rango comportava promozione nei gioielli! Ma non bastava essere semplicemente ricco, perché la ricchezza non conferiva il diritto a indossare gioielli costosi.
Anche i funzionari di Governo di sesso maschile portavano ornamenti stabiliti con così tanta cura che si poteva determinare il rango dei funzionari laici dalle loro vesti e ornamenti.
Vi era l'usanza per gli uomini tibetani di portare un orecchino nel lobo sinistro; quelli che non lo facevano si diceva rischiassero di essere reincarnati come asini.

LA SCRITTURA TIBETANA

Fino al VII secolo il Tibet non possedeva una scrittura propria; secondo la tradizione è il re Songtsen Gampo che l'avrebbe fatta elaborare a partire da un prototipo indiano, con il quale si introdusse anche la grammatica.
Nel mondo indiano all'epoca si scriveva sulla scorza di betulla o su foglie di palma, ma i tibetani conoscevano anche la carta per via dei loro contatti con la Cina.
Essi adottarono la tecnica di fabbricazione della carta pur restando fedeli alla presentazione tradizionale dei libri indiani sulle foglie di palma: una pila di foglie lunghe e strette racchiuse dentro due tavolette.
L'alfabeto tibetano è composto di 30 caratteri, derivati dalle 50 lettere degli alfabeti indiani di quell'epoca, con un'elegante accentuazione delle curve e con le modificazioni richieste dalla fonetica tibetana.
La scrittura tibetana, come le scritture indiane, non è in realtà propriamente alfabetica, ma sillabica, con segni specifici per i diversi timbri vocalici. Procede orizzontalmente da sinistra a destra, ma alcune sillabe e complessi consonantici vengono realizzati con una disposizione verticale dei componenti.
I tibetani usano per scrivere cannucce di legno o di bambù appuntite e tagliate in maniera non dissimile da quanto faceva con le nostre penne d'oca. Il supporto è fornito da fogli di carta fibrosa e resistente, fatta con la parte interna della scorza di un particolare tipo di arbusto.
I libri tibetani sono realizzati in modo assai diverso da quello per noi consueto. I fogli che costituiscono un volume sono scritti sulle due facciate, impilati senza rilegatura, avvolti in un drappo di seta o di cotone e posti tra due pesanti blocchi di legno finemente intagliato, come copertine. Queste vengono a loro volta tenute insieme fasciandole nel mezzo con un nastro di stoffa pregiata.
Le pagine iniziali e di chiusura portano spesso delle illustrazioni miniate.

LA MEDICINA

È consuetudine che la medicina tibetana si faccia risalire agli insegnamenti del Buddha. È stato il Buddha a trovare le cause della sofferenza. Egli indicò il percorso giusto per eliminare queste cause e per liberarsi dalle sofferenze, per guarire e raggiungere lo stato di illuminato.
In questo senso il Buddha é stato il primo grande guaritore del mondo buddhista.
Si dovrebbe comunque tenere in considerazione che la medicina tibetana ha le sue radici nelle credenze e nelle tradizioni popolari che si rifanno allo sciamanesimo pre-buddhista e all'antica religione del Bon. Ed é questa la ragione per cui ancora oggi pratiche come quella dell'uso degli amuleti contro gli spiriti malvagi, dei riti magici e della consultazione di oracoli sono molto comuni.
Un dottore tibetano quando fa una diagnosi ricerca i sintomi che segnalino affezioni del respiro, o della bile oppure dell'apatia. Egli inizia eseguendo un esame generate del corpo (la temperatura, il colore e la condizione della pelle, le parti interessate ecc.). Controlla poi gli organi dei sensi e sia le secrezioni che le escrezioni.
L'osservazione della lingua e dell'urina sono importantissime. La lingua é divisa in parecchie parti che corrispondono a diverse parti del corpo e a diversi organi. I disturbi diventano evidenti controllando il colore, la superficie e la qualità della lingua.
La palpazione del polso é senza dubbio il più importante dei metodi di diagnosi. Le funzioni degli organi possono essere sentite nella pulsazione della testa, della mano e dei piedi. La più comune é la palpazione della mano: il dottore mette tre dita nell'incavo del polso del paziente. Si esaminano sia la parte destra che quella sinistra e si mettono a confronto con il respiro dell'ammalato. Esercitando una lieve pressione si possono esaminare le funzioni degli organi solidi (don) ; facendo invece una forte pressione si sentono gli organi cavi (snod). Dottori esperti possono a volte fare una diagnosi precisa sentendo solamente il polso, senza nemmeno interrogare il paziente.
Le terapie estreme consistono in compressioni, bagni, massaggi, salassi, cauterizzazioni, moxibustione e chirurgia minore. Le medicine possono essere divise in due categorie principali: quelle che placano e quelle che fanno evacuare gli umori.

IL TEATRO

Il teatro costituisce una componente significativa della cultura tibetana e la sua tradizione è sempre stata molto viva e seguita in tutto il paese.
Le rappresentazioni teatrali, nel Tibet, avvenivano in occasione delle principali festività del paese : nella capitale e nei centri più importanti durante le celebrazioni per il Nuovo Anno e lo Shoton (festa dello yogurt), nel resto del paese alla vigilia del raccolto; ogni anno infatti i maggiori villaggi con i loro monasteri, dalla fine del sesto mese del calendario tibetano, si dedicavano al teatro.
Le quattro compagnie più importanti si esibivano in rappresentazioni che venivano per loro stabilite dai funzionari dell'ufficio del tesoro, mentre le altre otto compagnie minori eseguivano canzoni e danze, ciascuna nel proprio stile.
Gli elementi essenziali delle rappresentazioni teatrali quali i costumi, le maschere, gli strumenti musicali e la maniera di recitazione erano, in tutto il Tibet, molto simili. Così come in tutto il paese gli attori non venivano compensati in danaro, ma ricevevano doni e piccole offerte da parte del pubblico e da parte dell'abate del monastero in cui avvenivano le rappresentazioni.
Lo Stato ha sempre sostenuto il teatro senza però vincolarlo con aiuti finanziari, ma cercando invece di tenere viva la competizione fra le varie compagnie per assicurare un buon livello negli spettacoli e limitandosi a una semplice verifica dei testi rappresentati anziché esercitare una vera e propria censura.

 

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